Separati, divorziati, risposati. Un contributo per il Sinodo di RetedeiViandanti

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Il 13 settembre scorso la Rete dei Viandanti ha organizzato a Bologna un convegno su “Separati, divorziati, risposati. Fallibilità dell’amore umano nello sguardo di Dio” con l’intento di dare un libero contributo al dibattito su uno dei temi che l’Assemblea straordinaria del Sinodo sulla famiglia affronterà dal 5 al 19 ottobre.
L’editoriale che segue riprende la “Sintesi propositiva a partire dalle relazioni e dal dibattito”, che ha il valore di documento conclusivo del convegno da sottoporre all’attenzione dei padri sinodali.

In rapporto con la testimonianza biblica

1.Non è mai la legge che determina l’agire di Dio
Se il rapporto con la testimonianza biblica si risolve solo nella ricerca di leggi probabilmente si entra in un dibattito infinito – come mostra il fatto che le diverse Chiese hanno ricavato prassi e norme diverse proprio dalla stessa Bibbia – e si ricade in una casistica di tipo rabbinico. Si può osservare, come mostrano Matteo e Paolo, che già le prime generazioni cristiane hanno dovuto trovare degli equilibri tra la prospettiva evangelica, che è la salvezza degli uomini, e una norma che, se intesa in senso giuridico, può portare a chiudere la porta della salvezza forse in modo irreparabile. Sarebbe invece da prendere sul serio il fatto che non è mai la legge che determina l’agire di Dio, bensì il suo amore per l’umanità e il creato.

2. Attenzione al dinamismo della conversione
È opportuno tener presente che la vicenda matrimoniale di Dio (e del Cristo) non si consuma in un archetipo (cf. le ierogamie), ma in un processo storico e dinamico che coinvolge ogni generazione, anche se è popolo o Chiesa. Quando Dio sceglie questo partner ne conosce la fallibilità, ma non lo abbandona a se stesso quando sbaglia e Gesù non condanna neppure l’adultera! Alla luce di questo, la pastorale matrimoniale potrebbe insistere su un processo al cui centro sta il dinamismo della conversione e che non è mai un attuato pienamente nell’arco di un’esistenza.

3. Correre il rischio del discernimento del pastore
È doveroso essere consapevoli della distanza che intercorre tra noi e la testimonianza biblica, tenendo conto di come si giungeva al matrimonio e di quale valenza sociale esso assumeva. Vivere in una società post-cristiana – per usare uno dei tanti modelli di lettura della contemporaneità – richiede di prendere sul serio le indicazioni di Paolo in 1Cor 7, allorché deve trattare le problematiche matrimoniali non più solo guardando a degli ebrei, ma anche a convertiti provenienti dal mondo pagano: Paolo conosce la parola del Signore, ma non si accontenta di ripeterla meccanicamente, poiché di fronte alla nuova situazione di partner convertiti, che devono convivere con chi non ha abbracciato la fede, egli rischia il discernimento del pastore: “io Paolo dico…”. Lo Spirito soffiava al tempo di Paolo ma anche oggi, e chiede a un popolo di Dio, al quale il Concilio ha riconfermato il sensus fidelium, di interrogarsi su alcune prassi che rischiano di impedire in modo definitivo a qualcuno la piena appartenenza al Corpo di Cristo.

A confronto con la storicità dell’esperienza umana

1. Norme aperte al cammino di conversione
L’indissolubilità, di cui parlano i vangeli sinottici, e in particolare Mt 19, 3-9 non va interpretata – come peraltro suggeriscono oggi molti esegeti – come un dispositivo giuridico con carattere di assolutezza, ma come il rinvio a un archetipo (l’“in principio”), che indica una via da percorrere nella prospettiva di una costante tensione al futuro. Non si tratta dunque di una norma-precetto, cioè di una norma chiusa, che obbliga alla piena esecuzione di quanto viene proposto, ma di una norma escatologico-profetica, dunque di una norma aperta, che delinea un ideale di perfezione e che impegna il credente a un cammino di costante conversione. La conferma della bontà di questa interpretazione viene, anzitutto, dal fatto che la stessa norma è presente nel discorso della montagna (Mt 5, 31-32), dove è chiara la prospettiva escatologico-profetica; e, in secondo luogo, dalla considerazione che, all’interno della comunità apostolica, si assiste a forme di mediazione – si pensi soltanto al caso della porneia e al privilegio paolino – che evidenziano l’esigenza di affrontare, sul piano giuridico-pastorale, alcune situazioni particolari, facendo eccezione al dettato della norma.

2. Uno sguardo antropologico e psicologico sull’esperienza umana
Sul piano antropologico (e psicologico) è difficile pensare a una indissolubilità assoluta, se si tiene in considerazione che anche le cosiddette scelte irrevocabili sono sempre – come osservava già a suo tempo acutamente Tommaso d’Aquino – scelte de se ipso toto, sed non totaliter, nelle quali cioè la persona intende coinvolgersi con tutta se stessa, ma che non comportano di fatto la possibilità di un coinvolgimento totale. Tali scelte avvengono infatti in un tempo e in uno spazio circoscritti nei quali la persona non può prevedere né tanto meno padroneggiare ciò che avverrà in seguito. La storicità propria dell’esperienza umana, la quale comporta il continuo mutamento delle persone e delle relazioni, fa sì che, anche le scelte fatte con le migliori intenzioni e con vero senso di responsabilità, possano nel corso del tempo incrinarsi fino a venir meno. La vera fedeltà non è dunque ripetitiva, ma creativa; comporta la capacità di rinnovare continuamente il rapporto, vincendo le tentazioni e le resistenze, che nella vita a due inevitabilmente affiorano.

In aiuto con la forza dei sacramenti [1]

1. La “domanda di comunione” non è domanda di un diritto individuale
La domanda sulla “comunione ai fedeli divorziati risposati” potrebbe essere una domanda mal posta, se restasse chiusa in una comprensione distorta del rapporto tra soggetto cristiano e comunione ecclesiale. La domanda di “comunione” non può essere affrontata anzitutto con un criterio giuridico individuale. Se riduciamo la “domanda di comunione” ad una domanda di diritti individuali, neghiamo in partenza il problema che la Chiesa deve affrontare. Nel rispondere alla questione dobbiamo ricordare che “la domanda di comunione” può trovare risposta solo in una esperienza di comunione. E’ la “nuova comunione di vita” ad essere in gioco per l’esperienza ecclesiale. Una risposta in termini di “diritti del soggetto” sarebbe un modo di aggirare la questione. A questo conduce la nuova coscienza ecclesiale della celebrazione eucaristica e del rito di comunione. Negli ultimi 200 anni, infatti, non sono cambiate solo le forme della vita matrimoniale, ma anche le forme della comunione sacramentale.

2. Ripensare profondamente la dottrina e la disciplina
Il tema del prossimo Sinodo dei Vescovi non riguarda anzitutto le “patologie” matrimoniali, ma è chiaro che la bontà delle categorie che interpretano la fisiologia del matrimonio cristiano – il suo fiorire e il suo dare buona testimonianza – sono messe a dura prova nel momento in cui debbono affrontare le crisi e le condizioni problematiche della vita dei cristiani separati, divorziati e risposati. L’occasione della prossima Assemblea dei Vescovi è propizia ad un profondo ripensamento del Vangelo del Matrimonio, che sappia tradurre le categorie fondamentali con cui la tradizione cattolica pensa, sperimenta ed esprime il dono di grazia nella vita degli sposi e delle famiglie. Come ha detto bene Mons. Bruno Forte, nella presentazione ufficiale dell’Instrumentum Laboris, non è in gioco un “divorzio cattolico”, ma un dottrina e una disciplina del matrimonio che sappia pensare con finezza, profondità e coraggio il grande cambiamento che ha riguardato la vita degli uomini e delle donne negli ultimi due secoli.

3. Il compito di tradurre nell’oggi la “sostanza dell’antica dottrina”
Di fronte a questi cambiamenti continuare a ragionare soltanto con le categorie di “validità” e di “nullità”, di “consenso” e di “consumazione” e limitarsi a tradurre il dono positivo con una “negazione di negazioni” come “indissolubilità” costituiscono un grave peccato di omissione, da parte della Chiesa e in particolare dei teologi. In tal modo essi diventano, talora inconsapevolmente, “teologi di corte”, perché ripetono una dottrina che non è più capace di interpretare la vita, i sentimenti, le speranze e le sofferenze degli uomini e delle donne contemporanei. La Chiesa deve “saper tradurre”. Questo è il suo compito. E nel farlo deve restare certa che la “sostanza della antica dottrina” può e deve assumere altri e nuovi rivestimenti, se vuole restare se stessa. Questo progetto conciliare, che ha ispirato il disegno e lo svolgimento del Vaticano II, diventa oggi non solo una necessità pastorale, ma anzitutto una urgenza culturale.

4. Riconciliare la dottrina con l’esperienza
Una grande riconciliazione tra la dottrina e l’esperienza è ciò che il Concilio Vaticano II ci ha voluto insegnare, in modo magistrale. Oggi, intorno al rilancio di questa grande opzione, possiamo accordare una attenzione nuova alle dinamiche di quei soggetti che vedono “morire” il vincolo del loro matrimonio e non sanno come poter accettare le uniche due soluzioni che la Chiesa offre alla loro coscienza: o di riconoscere che quel vincolo non c’era mai stato, o di impegnarsi a far morire tutto ciò che nella nuova realtà di coppia potrebbe contraddirlo. Affrontare la questione nuova con gli strumenti di una chiesa e di una società che non c’è più è una risorsa tipica di una “istituzione autoreferenziale”.

5. L’esigenza di superare l’alternativa “valido / nullo”
Solo una “teoria intersoggettiva del vincolo”, che passi necessariamente attraverso la coscienza dei soggetti, può essere in grado di offrire una buona soluzione ai “matrimoni falliti”. Non dovremmo più restare prigionieri della alternativa “valido/nullo”. Potremmo affrontare, con maggior serenità, l’ipotesi che a morire possa essere lo stesso vincolo. Il fatto che il legame tra i coniugi possa/debba avere una storia – e che in tale storia possa fiorire o morire – costituisce un assunto teorico preliminare, che segna la differenza tra le traduzioni pre-moderne e le traduzioni tardo-moderne del medesimo Vangelo del matrimonio. La differenza tra questa logica e la logica della “disponibilità del vincolo” (o “divorzio”) appare assai chiara. Nessuno dispone del vincolo, ma i soggetti coinvolti e la Chiesa possono costatare, con opportuna procedura giuridica, che il vincolo è morto. La comunione sacramentale e “un nuovo inizio” non sono contraddittori, non sono nemmeno il frutto di finzioni giuridiche, ma sono la testimonianza di “storie di salvezza”, che vivono una temporalità e una spazialità complessa.

6. La Chiesa ha il potere di riconciliare tutti i peccatori (di assolvere tutti i peccati)
Al momento della celebrazione del matrimonio gli sposi hanno stretto un’alleanza e fatto una promessa reciproca di dedizione e di fedeltà all’altro. Il venir meno a questo patto o a questa promessa costituisce obiettivamente una mancanza, più o meno grave, che comunque la chiesa ha il potere di assolvere, come ha rivendicato già nel corso dei primi secoli nei confronti dei novaziani (cf. il canone 8 del concilio di Nicea). Nel sacramento della penitenza si valuterà la gravità di questa mancanza, sapendo che in alcuni casi non vi è mancanza ma si è obbedito a un dovere di non continuare una relazione insostenibile. Ricorrendo ancora una volta ai termini della teologia scolastica e analogamente a quanto si afferma per il mistero eucaristico si deve affermare che il segno sacramentale (sacramentum tantum) è l’amore e la volontà degli sposi di essere marito e moglie, amore che rivela al mondo l’amore di Dio per il suo popolo: ma una volta venuto meno questo amore e questa volontà (e cioè il segno sacramentale: sacramentum tantum) viene meno il vincolo coniugale (sacramentum et res) e quindi la grazia sacramentale del matrimonio (res tantum).

Dall’esperienza dei fratelli Ortodossi

1. Uno sguardo storico
La tradizione latina e tradizione greca sono due tradizioni che hanno sviluppato a partire dal IV secolo due modalità diverse di far fronte alla situazione dei matrimoni falliti tra due battezzati, basandosi su presupposti teologici e antropologici di carattere diverso.

2. I due presupposti della tradizione dell’Oriente
La tradizione greca si è basata su due presupposti fondamentali. Il primo è l’accettazione dell’eccezione matteana (Mt 5,32; 19,9: il caso di porneia) come vera eccezione: il Signore avrebbe ammesso la possibilità di nuove nozze per il coniuge innocente nel caso di adulterio. Ciò ha fatto sì che si conservasse in Oriente l’idea che il peccato può ferire mortalmente il matrimonio; d’altra parte, ha consentito che legislazione degli imperatori cristiani e la prassi ecclesiastica si incontrassero intorno alla nozione di ‘giusta causa’ di divorzio. Il secondo è costituito dal fatto che nella tradizione greca vi è una qualche equivalenza teologica e liturgica tra matrimoni dei divorziati e matrimoni dei vedovi. Ambedue infatti sono connotati dalla ‘imperfezione’ nei confronti del principio monogamico genesiaco: un uomo, una donna (per sempre). Ambedue sono concessi alla debolezza e alla fragilità umane; per questo sono permesse solo fino a tre volte.

3. Una diversa tradizione dell’Occidente dal IV secolo in poi
Questi due punti fondamentali della tradizione greca sono anche i punti di maggiore lontananza dalla tradizione latina. Dal IV secolo in poi in Occidente l’eccezione matteana è stata sempre più compresa come un’eccezione apparente: accettazione della separazione ma non delle nuove nozze. La tradizione latina, inoltre, ha considerato e considera ancora oggi la morte del coniuge come equivalente alla fine del legame. La morte in qualche modo distrugge il matrimonio.

4. La morte distrugge il legame
Questo secondo punto della tradizione latina, alla luce dell’autocoscienza teologica e antropologica odierna, potrebbe aprire la via ad una soluzione pastorale dei matrimoni falliti. Oggi infatti la Chiesa cattolica insegna che il legame coniugale non ha solo consistenza giuridica ma prima di tutto è interpersonale: nasce dal movimento di comunione delle persone (che come persone non possono morire) e tende alla comunione piena in Cristo. Continua tuttavia a consentire i matrimoni vedovili, seguendo la saggia indicazione pastorale di Paolo, non ponendo limiti numerici e assumendo la fine dell’unione ‘corporea’ come fine del matrimonio.

5. Considerare la morte del legame anche sul piano esistenziale
La stessa sapienza pastorale paolina potrebbe dunque consentire oggi di vedere nella ‘morte’ la categoria adeguata per affrontare pastoralmente la situazione dei divorziati risposati. Come la Chiesa cattolica ha sempre ammesso e ammette oggi la possibilità di nuove nozze in caso di morte corporea del coniuge (pur sapendo bene che una persona in quanto persona non muore e che il legame costitutivo del matrimonio è un legame interpersonale), così essa potrebbe ammettere una soluzione simile nel caso di fine irreversibile sul piano esistenziale della forma coniugale di relazione tra gli sposi, dopo un adeguato giudizio pastorale e all’interno di un percorso di riconciliazione adeguatamente disposto. Ciò porterebbe a una soluzione praticamente equivalente a quella ortodossa, seppure su base diversa.

6.Un possibile scambio di doni
C’è tuttavia qualcosa che la Chiesa cattolica potrebbe e dovrebbe recepire dall’esperienza della Chiesa ortodossa, almeno nell’ipotesi che voglia conservare una dottrina etica cristiana bimillenaria: le nuove unioni dovrebbero essere pubblicamente (liturgicamente) riconosciute dalla Chiesa come validamente costituite, come accade nelle Chiese ortodosse. Se la Chiesa cattolica accettasse la liceità dell’esercizio della sessualità da parte di coppie l’unione delle quali non avesse un riconoscimento ecclesiale, opererebbe una grande rivoluzione etico-culturale giacché legherebbe la legittimità della comunione sessuale non al matrimonio ecclesialmente riconosciuto ma all’affetto di tipo coniugale tra due persone.

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[1] “La domanda se i divorziati possano fare la Comunione dovrebbe essere capovolta. Come può la Chiesa arrivare in aiuto con la forza dei sacramenti a chi ha situazioni familiari complesse?” Carlo Maria Martini. Dall’intervista di P. G. Sporschill e Federica Radice al Cardinale ( agosto 2012), apparsa sul “Corriere della Sera” il 1 settembre 2012 con il titolo “Chiesa indietro di 200 anni”.