Il sogno di una civiltà planetaria. Per non abbandonare la speranza di C.Fanti

Claudia Fanti
Adista Documenti n. 38 del 01/11/2014

È la causa per la quale ha lavorato tutta la vita: «quella dei poveri che gridano giustizia e liberazione» e «quella della Terra che distruggiamo sistematicamente da diversi secoli a questa parte». Ed è a questa causa che il teologo brasiliano Leonardo Boff, uno dei padri della Teologia della Liberazione, dedica le riflessioni raccolte nel piccolo libro, intenso e vibrante, Liberare la Terra. Un’ecoteologia per un domani possibile, appena pubblicato dalla Emi per la collana “Segni dei tempi”, (pp. 64, euro 5). Un piccolo libro (ma anche una grande idea regalo) che non nasconde nulla delle tante minacce di distruzione lanciate contro Gaia, il pianeta vivente che è la nostra casa comune, ma che pure è attraversato dalla prima all’ultima pagina da un soffio di speranza: la speranza che le sofferenze attuali non siano «i momenti che precedono la morte, ma i segni di una nuova nascita».

Per Boff, insomma, malgrado la realtà senza ritorno del riscaldamento climatico, «il caos attuale è creatore e generatore di numerose possibilità», l’annuncio di un’epoca nuova, di «un livello più elevato nella storia dell’umanità sul piano planetario», per raggiungere il quale, scrive, «gli spiriti e i cuori hanno bisogno di unirsi in una passione comune e in un amore incommensurabile per l’umanità e per la Terra». Vale a dire, per quell’unica entità indivisibile Terra-umanità che gli astronauti, per primi, hanno colto, con emozione e reverenza, guardando il nostro pianeta azzurro e bianco dallo spazio esterno: «Il primo e il secondo giorno – ha commentato uno di loro, Salman al-Saud – indicavamo col dito il nostro Paese; al terzo e quarto, il nostro continente; al quinto giorno, avevamo coscienza solo della Terra come un tutto». È di questa coscienza, di un cammino che passa «attraverso la cura, la sostenibilità e la responsabilità collettiva», che sarà intessuta la nuova civiltà dell’Era della Terra, sulla cui porta, al contrario di quanto è scritto su quella dell’Inferno dantesco, si leggerà, in tutte le lingue esistenti: «Non abbandonate mai la speranza, voi che entrate». Il futuro, conclude Boff, «passa per questa utopia. Già luccicano i primi albori».

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RIASCOLTIAMO I PROFETI

Leonardo Boff

Il profeta, in senso biblico, non è in primo luogo quello che prevede il futuro. È colui che analizza il presente, identifica tendenze – generalmente devianti -, ammonisce e perfino minaccia. Annuncia il giudizio di Dio sul corso presente della storia e fa promesse di liberazione dalle calamità.

A partire dalle tendenze che capta, fa previsioni per il futuro. In fondo, afferma: «Se continuerà questo tipo di comportamenti da parte dei dirigenti del popolo, fatalmente succederanno disgrazie». Le sciagure sono conseguenze della violazione delle leggi sacre. E a questo punto i profeti proiettano scenari drammatici in funzione pedagogica: ricondurre tutti alla ragione e all’osservanza di ciò che è giusto e retto davanti a Dio e alla natura.

Leggendo alcuni profeti dell’Antico Testamento e anche gli avvertimenti di Gesù riguardo ai tempi futuri, è facile che ci vengano in mente gli attuali dirigenti e il loro comportamento irresponsabile di fronte agli scenari che si stanno profilando per la Terra, per la biosfera e per l’eventuale destino della nostra civiltà.

Qualche tempo fa, in alcuni luoghi del Nord del mondo, è stato oltrepassato un limite che doveva essere rispettato a qualsiasi costo: quello delle 400 parti per milione di anidride carbonica nell’atmosfera. Purtroppo ci siamo arrivati. A questo punto, difficilmente il clima riscaldato tornerà indietro. Forse si stabilizzerà alla maniera di un paziente cronico. La temperatura della superficie terrestre aumenterà di circa 2°C o anche di più. Molti organismi viventi non riusciranno ad adattarvisi, perché non possiedono strumenti per minimizzare gli effetti negativi, e finiranno per estinguersi. La desertificazione si accelererà; i raccolti andranno perduti; milioni di persone dovranno abbandonare i propri Paesi a causa del caldo insopportabile e dell’impossibilità di assicurarsi il cibo.

È in relazione a un contesto del genere che leggo il libro del profeta Isaia, vissuto nell’VIII secolo a.C., in uno dei periodi più turbolenti della storia. In quel tempo Israele si trovava schiacciato tra due potenze: l’Egitto e l’Assiria, che si disputavano l’egemonia sul suo territorio. Era invaso a turno dall’una o dall’altra potenza, ed entrambe si lasciavano dietro una scia di devastazione e di morte.

In quel contesto drammatico, Isaia scrive un intero capitolo, il 24, che evoca una serie di disastri ecologici. Le descrizioni assomigliano a quello che potrebbe succedere oggi se le nazioni del mondo non si metteranno d’accordo per creare un’organizzazione che blocchi il riscaldamento globale, specialmente quello improvviso, che importanti scienziati hanno già pronosticato e che potrebbe verificarsi prima della fine del XXI secolo; si rischierebbe allora la decimazione dell’umanità e la distruzione di gran parte della biosfera.

Dobbiamo prendere sul serio i profeti. Essi decifrano tendenze da un punto di vista che oltrepassa lo spazio e il tempo. Perciò i loro avvertimenti possono riguardare anche la nostra generazione. Trascrivo qualche versetto di Isaia 24 come ammonimento e materia di riflessione: «Avverrà lo stesso […] al creditore come al debitore. Sarà tutta devastata la terra. […] La terra è stata profanata dai suoi abitanti, perché hanno trasgredito le leggi, hanno disobbedito al decreto, hanno infranto l’alleanza eterna. Per questo la maledizione divora la terra, e i suoi abitanti ne scontano la pena [..:] A pezzi andrà la terra, in frantumi si ridurrà la terra, rovinosamente crollerà come un ubriaco, vacillerà come una tenda […] Arrossirà la luna, impallidirà il sole […]».

Gesù, l’ultimo e il massimo dei profeti, avverte: «Si solleverà infatti nazione contro nazione e regno contro regno; vi saranno carestie e terremoti in vari luoghi» (Mt 24,7). «[…] gli uomini moriranno per la paura e per l’attesa di ciò che dovrà accadere sulla terra. Le potenze dei cieli infatti saranno sconvolte» (Lc 21,25-27).

Non si sono forse viste scene simili con gli tsunami del Sudest asiatico e a Fukushima in Giappone? E con i grandi tornadi e tifoni come «Katrina» o «Sandy» negli Stati Uniti e in altri luoghi del pianeta? La gente non è rimasta sgomenta di fronte alle devastazioni e alle distese di cadaveri? Queste catastrofi non succedono per caso, ma avvengono perché abbiamo rotto l’alleanza sacra tra la Terra e i suoi cicli. Sono segni e analogie che ci richiamano alla responsabilità.

Curiosamente, nonostante tutti gli scenari di distruzione, la parola profetica termina sempre con accenti di speranza. Dice il profeta Isaia: «[Dio] strapperà su questo monte il velo che copriva la faccia di tutti i popoli […] Il Signore Dio asciugherà le lacrime su ogni volto […] E si dirà in quel giorno: Ecco il nostro Dio; in lui abbiamo sperato perché ci salvasse» (Is 25,7.9). E Gesù conclude promettendo: «Quando cominceranno ad accadere queste cose, risollevatevi e alzate il capo, perché la vostra liberazione è vicina» (Lc 21,28).

Dopo queste parole profetiche, ogni commento sarebbe fuori luogo, tranne un silenzio dolente e meditativo.

Però guardiamo alla nostra epoca. Il 15 settembre 2008 si è verificata l’esplosione della bolla economico-finanziaria di Wall Street, e dopo poco più di una settimana, il 23 settembre, è arrivato quello che è stato chiamato l’Earth Overshoot Day, cioè il «giorno del superamento delle capacità naturali della Terra». Si tratta del momento dell’anno in cui il consumo delle risorse del pianeta da parte del genere umano supera le naturali capacità di recupero del sistema terrestre. Nel 2008 l’umanità consumava il 30% in più di quello che la Terra poteva produrre. L’attuale ritmo di sfruttamento della Terra è chiaramente insostenibile. Stiamo consumando le nostre riserve di cibo, acqua e materie prime e non possiamo continuare così, perché non ci sono più i mezzi per coprire i nostri debiti ecologici.

Questa notizia assai allarmante ha ricevuto scarsa eco nella stampa internazionale, contrariamente a quanto è avvenuto con la crisi economico-finanziaria che tuttora occupa le prime pagine dei quotidiani e costituisce il soggetto principale dei telegiornali.

La diminuzione delle risorse e dei servizi della Terra obbliga a porre la domanda vera: che cosa è più importante, risolvere i problemi dell’umanità o salvare il sistema economico e finanziario dominante? I 20 Paesi più ricchi del mondo (G20), quando si riuniscono, pretendono di salvare il sistema con controlli e correzioni, in modo che tutto torni come prima. La maggioranza dei Paesi poveri e in via di sviluppo, invece, si preoccupa per il futuro della vita e della biosfera. Se non si risolverà questo problema, la crisi ritornerà sotto forma di tragedia collettiva.

Nel 1961 ci bastava la metà delle risorse della Terra per rispondere ai bisogni dell’umanità in quell’anno. Nel 1981 era necessaria tutta la Terra. Nel 1995 abbiamo superato del 10% la sua capacità di produzione e questo era ancora sopportabile. Nel 2008 abbiamo oltrepassato il limite del 30% e la Terra ci dà segnali inequivocabili che sta perdendo dei colpi.

Se si mantiene la crescita del Prodotto interno lordo (Pil) mondiale tra il 2 e il 3% all’anno, come previsto, nel 2050 avremo bisogno, per i nostri consumi, delle risorse di due pianeti Terra… cosa evidentemente impossibile! Ma non arriveremo a tanto.

Ciò significa che non possiamo più produrre come prima. L’attuale modo di produzione capitalista è partito dal falso presupposto che la Terra è una fonte sicura dalla quale possiamo attingere risorse all’infinito per produrre ricchezze con il minor investimento possibile e nel minor tempo possibile.

Oggi, invece, ci rendiamo conto che la Terra è un piccolo pianeta, vecchio e limitato, che non sopporta più progetti di sfruttamento illimitati. Dobbiamo cambiare modello di produzione e assumere altre abitudini di consumo. Dobbiamo produrre in funzione dei bisogni dell’umanità, in armonia con la Terra, rispettandone i limiti, in uno spirito di equità e di solidarietà con le generazioni future. Questo richiede un nuovo paradigma di civiltà, diverso da quello che predomina oggi, e più globalizzato.

Come ha affermato Eric Hobsbawm nell’ultima pagina del suo Il secolo breve, il nostro mondo corre il doppio rischio di esplodere e di implodere. Deve cambiare. Se non rinunceremo alla nostra negligenza, l’alternativa per un cambiamento della società si dimostrerà impossibile.