L’Italia di fronte alla crisi libica di S.Santangelo

Salvatore Santangelo
www.huffingtonpost.it

Non possiamo negare che siamo rimasti tutti fortemente impressionati dalla crisi libica, dalle drammatiche immagini che arrivano dall’altra sponda del Mediterraneo. Ci sentiamo disorientati e ancor più minacciati perché ci siamo scoperti “frontiera” esposta di un’Europa distratta da altre priorità, in primis dalla crisi Ucraina.

Nel nostro paese, il sentimento diffuso ricorda per molti versi quello dell’inizio del 2011 – nell’imminenza dell’intervento anglo-francese – quando era pressante la spinta ad agire e a fare comunque qualcosa (non a caso Matteo Renzi ha parlato di isteria). Una maggiore prudenza, allora, avrebbe certamente giovato, così come oggi aiuta non impegnarsi in azioni che si possono rivelare azzardate.

In questo scenario così complesso, l’Italia non deve rimanere inerte ma esercitare una maggiore “assertività” in tutti consessi multilaterali: le Nazioni unite in primis, ma anche l’Alleanza atlantica e l’Unione europea.

Deve aumentare il suo sostegno all’azione del rappresentante Onu – lo spagnolo Bernardino Leon – per far dialogare tutte le diverse fazioni, coinvolgendo anche la Senussia (in grado di svolgere un importante ruolo sia politico che culturale e religioso).

Il tutto ricordando che esiste un governo legittimo (perché legittimo è stato riconosciuto dagli osservatori internazionali il voto di giugno) che è quello di Tobruk sostenuto da Zentan e dalle truppe del generale Haftar. Sempre in ambito Onu, l’Italia deve impegnarsi per ottenere una risoluzione urgente in grado di “sterilizzare” il sostegno esterno alle diverse parti in lotta mediante embarghi mirati. Stiamo parlando anche di sorveglianza delle esportazioni di idrocarburi e del controllo delle ingenti riserve finanziarie libiche tuttora all’estero.

Inoltre dovremmo invocare l’articolo IV del Trattato atlantico per “imporre” agli alleati la discussione di un’agenda sulle conseguenze per la sicurezza che il precipitare della situazione in Libia comporterebbe per l’intero fianco sud della Nato. La crisi libica deve essere anche l’occasione per l’Italia per superare finalmente la visione “minimalista” che sta ispirando Triton: i flussi migratori, che non sono un fenomeno né contingente né di breve durata, possono essere gestiti solo con un orizzonte politico di più ampio respiro e con la piena condivisione da parte di tutti i paesi della Ue degli oneri e delle responsabilità di questa drammatica emergenza.

Questa nuova centralità del nostro paese si può raggiungere solo se riusciremo a mettere in campo una politica estera (bi-partisan) lineare e coerente che eviti le sbavature a cui abbiamo recentemente assistito. L’obiettivo finale resta una risoluzione delle Nazioni unite che consenta – quando ce ne saranno le condizioni – l’ingresso in Libia di una forza multinazionale a sostegno delle ricostituite istituzioni libiche.

Tale forza dovrà avere una chiara connotazione araba e africana. Non deve e non può essere l’Italia (o l’Occidente) a gestire militarmente il possibile intervento sul campo proprio per evitare che se ne faccia una lettura neo-coloniale; il nostro paese deve, invece, porsi alla guida di tutte le iniziative politiche e di intelligence possibili.

Qualche dato per capire che cosa significa la destabilizzazione della Libia per il nostro paese: l’Italia è il primo partner commerciale della Libia. Siamo i maggiori acquirenti e i fornitori più importanti. Basti pensare che – solo in queste ultime settimane – il danno subito dalle nostre imprese è stato di almeno 100 milioni di dollari per le commesse in corso (secondo una stima approssimativa della Camera di commercio italo-libica).

Le pmi italiane solo nel 2014, quando già la situazione interna del paese era in gran parte deteriorata, hanno generato export per 3 miliardi. E parliamo di un anno in cui c’è stato un brusco calo delle nostre forniture meccaniche, dei mezzi di trasporto e dei semilavorati. Per non parlare poi dei crediti che le nostre imprese reclamano: a ottobre 2014, ammontavano a più di 650 milioni di dollari.

Per quanto riguarda il delicato fronte degli approvvigionamenti energetici, di fatto l’Eni sta concentrando il suo impegno sulle piattaforme offshore, anche se i suoi pozzi, fino a ora, sono funzionanti. Un dato ulteriore: attraverso Greenstream (il gasdotto che parte dal centro di trattamento di Mellitah e arriva al terminale di Gela) sono transitati lo scorso anno 10 milioni di metri cubi di gas, mentre – prima della crisi del 2011 – erano stati 25 milioni.