La verità? È un anagramma di A.Esposito

Alessandro Esposito
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Di recente ho preso parte ai colloqui per il dialogo interreligioso istituiti dal municipio presso cui risiedo. In quest’occasione uno dei miei interlocutori ha sostenuto la sua personale visione relativa ai fondamenti del suddetto dialogo. Suo mentore e fonte d’ispirazione è il teologo gesuita Jaques Dupuis (1923 – 2004), già docente dell’Università Gregoriana.

Non tutti sono tenuti a conoscere l’autore ed il suo pensiero, per cui riepilogo per sommi capi le sue tesi in ordine al dialogo interreligioso. Nel suo testo Il cristianesimo e le religioni. Dallo scontro all’incontro (Queriniana, Brescia, 2001) il noto cattedratico propone di fondare detto dialogo su presupposti che egli definisce “aperti” e che consistono, in estrema sintesi, nell’irrefrenabile impulso della reductio ad unum che caratterizza l’impostazione cattolica della questione.

Provo a chiarire quanto espresso: le altre religioni rappresentano il luogo storico della presenza incompleta (sic!) della verità, la quale, naturalmente, si esprime nella sua pienezza solamente nell’evento rivelativo rappresentato dal cristo e testimoniato dai resoconti neotestamentari (in particolare, aggiungo io, nella loro versione paolina e giovannea, dove il Gesù storico scompare, per lasciare il posto ad un cristo fortemente teologizzato). Ecco perché le tradizioni distinte da quella cristiana assumono valore e dignità solamente in rapporto a quest’ultima, della quale costituiscono una sorta di complemento, per giunta imperfetto e in tutto e per tutto ad essa subordinato.

Ma questo, sebbene possa sembrare incredibile, è il meno: ciò che mi lascia interdetto ed incredulo è la convinzione che le tesi testé esposte vengano considerate da chi le illustra e le difende progressiste, persino pericolosamente confinanti con l’eterodossia. Nemmeno l’ombra di un sospetto circa la loro profonda natura conservatrice e solamente pseudo innovativa.

Certo, in passato prevaleva il paradigma cosiddetto esclusivista, che regnò praticamente incontrastato dal concilio di Nicea (313 e.v.) sino al Vaticano II (conclusosi nel 1965), secondo il quale ogni tradizione diversa da quella cristiana era fonte di errore e di perdizione: è chiaro che, rispetto all’oscurantismo assoluto di questa tesi, qualsiasi altra non può che apparire progressista.

In verità, però, il modello proposto da Dupuis, che l’autore stesso, ricorrendo ad un ossimoro, definisce pluralismo inclusivista, rimane prigioniero dello schema secondo cui l’altro va ricondotto a me: la scusa è quella della comprensione dell’alterità, la realtà è quella del suo annullamento mediante l’omologazione. Comprendo il tuo pensiero nella misura in cui lo riconduco ai miei parametri: e, in questo modo, dico d’includerti (mentre in realtà ti assorbo). L’altro esiste in funzione di me: pertanto, cessa di essere alter, con tutte le possibilità di alterazione del mio pensiero e della mia sensibilità che il suo effettivo riconoscimento comporterebbe.

A questo pluralismo di facciata l’altro e le sue prospettive non interessano: sono deviazioni da ricondurre sulla retta via, l’unica ed indefettibile. Il cuore di un dissenso insanabile, in ultima istanza, può essere tradotto nella prospettiva, giocosa eppure significativa, della risoluzione di un anagramma. Gli strenui sostenitori del paradigma inclusivista, leggono nell’espressione la verità l’aggettivo rivelata. Peccato che non si accorgano che con gli stessi caratteri è possibile formare anche l’aggettivo relativa: personalmente, propendo per questa seconda opzione.