La scuola autoritaria di Renzi di A.Cannatà

Angelo Cannatà
www.micromega.net

Adesso che la scuola non è sotto i riflettori un punto merita d’essere approfondito. Tra i provvedimenti approvati alla Camera c’è l’articolo sul cosiddetto preside-sceriffo. È il più contestato: no al preside autoritario, giudice, padre-padrone. Slogan. Cosa c’è dietro queste parole? È il caso di vedere più da vicino: in gioco c’è (anche) il problema – enorme nell’universo scolastico – della valutazione.

Si contesta la chiamata diretta dei docenti dall’albo territoriale, è vero, e l’alta discrezionalità dei dirigenti (saltano punteggi, graduatorie, titoli), ma quel che brucia di più è la valutazione. Fa problema. Gli insegnanti non vogliono essere valutati? Stupidaggini. Per decenni si è discusso di valutazione degli alunni, dibattiti e biblioteche intere (l’espressione va presa alla lettera), dicono la delicatezza del tema. Oggi – è questo il punto – si legifera sulla valutazione dei docenti e si “risolve” con una commissione, pronta per l’uso, composta da: preside, due insegnanti, un genitore e uno studente. Assurdo.

Se valutare un alunno è difficile: occorre sapere chi sono gli studenti; in che modo affrontano l’apprendimento; come procedono nel percorso formativo; quali risultati conseguono; insomma, se giudicare significa “valutazione d’ingresso, formativa, sommativa”… cosa comporta valutare un docente?

Il silenzio su questo punto lascia perplessi. I docenti non sanno su cosa e come, con quali criteri e modalità, verranno valutati. Sanno solo chi emetterà la sentenza. Sono preoccupati? La domanda è un’altra: perché non dovrebbero preoccuparsi? In assenza di criteri oggettivi l’ermeneutica dilaga, intrisa di soggettività, arroganze, interessi, piccinerie: la ministra sa quali meccanismi di potere scattino, già oggi, tra un supplente e il suo preside? Regoliamo il rapporto dirigenti-prof, con criteri oggettivi che riducano il margine di simpatia/antipatia (del preside) e di servilismo-cortigianeria (dei docenti). È puro buon senso. Quel che preoccupa è l’anarchia, l’assenza di paletti in una materia così delicata. Proprio perché titolare di libertà e potere di giudizio, il dirigente deve avere dei limiti entro i quali esercitare questa libertà.

Il dirigente giudicherà docenti con personalità definite; ognuno richiede attenzione specifica. Non è facile: cosa si andrà a valutare? Le conoscenze disciplinari? In realtà l’ha già fatto l’università, il concorso, l’abilitazione; il carattere? È materia degli psicologi; l’abilità didattica? Allora in commissione ci vuole l’esperto di pedagogia (altro che alunni e genitori). Infine. Si valuta l’ideologia del docente? È una domanda interessante. Nessuno lo ammetterà mai, ma un preside di destra – per fare un esempio – non chiamerà mai un docente di sinistra potendo optare per una scelta diversa. Verso che tipo di scuola stiamo andando? Si dice: il docente non deve avere un’ideologia: è un’affermazione azzardata. Porta dritti al pensiero unico dell’ideologia dominante.

Insomma, sono temi complessi, richiedono giudizio. Molti libri hanno segnato, negli anni, il dibattito sulla valutazione degli alunni (cfr. Benedetto Vertecchi, Valutazione formativa). Urge in Italia una discussione (anche) sulla valutazione dei docenti. Capire come e su cosa e da chi verranno valutati. Spero ci sia la volontà politica per una revisione della legge.

Non si può dare libertà di valutazione al preside, lasciandolo solo (inesperto tra inesperti) nel difficile ruolo di giudice; preoccupa che una cosa così evidente non venga compresa. Nei Paesi dove la valutazione dei docenti funziona, non è il preside (con la sua commissione scolastica) che decide: c’è un sistema ispettivo nato da un confronto con i docenti; c’è la terzietà dei giudici. La riforma non va bene. Il preside nella sua scuola, con le sue idee, valuta i suoi docenti. È troppo. Non c’è ombra di oggettività. Ho trent’anni d’esperienza. I presidi. Alcuni bravi. Molti, miracolati da una raccomandazione, fanno disastri.

È sparita ogni forma di reale collegialità nelle scuole, non si ha ancora la forza di eliminarla, ma ci si muove in quella direzione; il Premier sa cosa sta costruendo e dove vuole arrivare. Stiamo tornando indietro: Althusser – non senza qualche ragione – parlava della scuola come apparato ideologico di Stato. Nelle fabbriche i sindacati non contano più (Marchionne docet); nei partiti comanda il Capo; perché nelle scuole non dovrebbe decidere tutto il preside? C’è un clima autoritario nel Paese. Questo presepe non mi piace.

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La scuola del nuovismo realizzato

Elettra Deiana
www.elettradeiana.it

Chiesi al mio professore di Storia e Filosofia perché dicesse cose così diverse da quelle che avevo sentito dire sullo stesso argomento di storia romana dalla professoressa di Greco e Latino. Lui si congratulò con me perché avevo capito bene la diversità del loro giudizio e poi mi spiegò con grande semplicità che lui e la collega la pensavano diversamente su varie cose e che questo era un bene anche per noi, perché, se avessimo messo la necessaria attenzione a seguire le lezioni in classe e a capire le argomentazioni degli insegnanti, avremmo imparato molto più facilmente a pensare con la nostra testa.

Era un’altra fase della storia nazionale, colma di richiami positivi per chi guardava alla Costituzione come a una grande bussola dell’agire pubblico.

La riforma della scuola voluta dal governo Renzi porta a compimento un percorso negativo già avviato ormai da molti anni, mal contrastato o in qualche misura anche accettato e spesso legittimato dalla sinistra, ben prima che spuntasse l’astro della leadership renziana. La riforma che la Camera ha approvato in prima lettura in questi giorni è infatti segnata senza infingimenti da una chiara concezione neoliberista della spesa pubblica, visibile nel rapporto tra pubblico e privato, che è a vantaggio del secondo; nel disinvestimento sulla dimensione democratica e partecipativa alle scelte, da parte di tutti ma soprattutto da parte delle nuove generazioni; nel ruolo compiutamente manageriale del super dirigente, a cui vengono attribuiti poteri fuori misura rispetto al personale docente, e in molto altro.

Si è affermata una concezione ormai diventata dominante, che è comune a molti governi dell’Ue ma che in Italia produce – e peggio produrrà con la riforma Giannini – frutti particolarmente avvelenati per tutto quello che riguarda questo settore. Scuola, formazione, ricerca: da una parte nicchie del privilegio, dall’altra lande senza futuro. La proposta del cinque per mille, cartina di tornasole di questa impostazione, bocciata alla Camera verrà riproposta quanto prima: così ha assicurato la ministra Giannini.

Cancellare via via la memoria della scuola della Costituzione: questa la partita che si è giocata per i lunghi anni, in cui la scuola pubblica andava deperendo e su cui alla fine è intervenuto Renzi. Ma, occorre dirlo, il premier non può proprio vantare il primato dell’idea e della sfida su questa partita. Il terreno era già stato ampiamente smosso. Può solo dire, se riuscirà a far approvare la legge anche al Senato, di aver vinto una partita sicuramente decisiva per il suo punteggio di realizzatore del nuovismo.

Giustamente, dal suo punto di vista, Maria Stella Gelmini, già ministra della Scuola per l’ultimo governo Berlusconi, ha dichiarato che l’attuale premier porta a compimento la proposta di riforma che lei stessa e il suo governo avevano vanamente cercato di far passare.

Con semantica di altri tempi, anche alla luce delle dichiarazioni di Gelmini, il frutto avvelenato che reca il nome della ministra Giannini dovrebbe essere chiamato controriforma. Ma – lo sappiamo – anche la semantica, come la storia è ridefinita da chi vince e quindi ufficialmente quella di Stefania Giannini è una riforma, anzi, come da mantra renziano , è una delle riforme che gli italiani chiedevano e aspettavano da vent’anni.

La nuova legge intende negare e cancellare definitivamente quel che resta del grande percorso riformista, avviato in Italia dalla fine degli anni Sessanta del secolo scorso, per dare compimento all’ispirazione della Carta. Con quel percorso si intese infatti colmare il gap esistente tra il dettato costituzionale e la realtà della scuola pubblica così come era arrivata nel secondo dopoguerra: classista e discriminatoria, ancorché pubblica. E grandi passi avanti furono compiuti, punti di eccellenza furono conquistati – soprattutto nella fascia primaria dell’istruzione – e la scuola negli anni Settanta si aprì alla partecipazione democratica e all’innovazione culturale, favorendo l’emancipazione culturale e quindi economico-sociale – perché allora le cose stavano insieme – dei settori della popolazione meno favoriti economicamente. Per la sinistra era motivo d’orgoglio quell’“anche l’operaio vuole il figlio dottore” che invece innervosiva assai i benpensanti di allora. Ma poi il percorso si bloccò e i frutti si dispersero, per gli intoppi continui di spesa, di visione strategica e di abbandono politico e sempre più programmatico della centralità della scuola pubblica. Che fu messa sotto scacco con sempre maggiore insistenza dalle scuole private e dai compromessi politici delle classi dirigenti, sempre meno costituzionalmente vincolate.

Si andò poi in netta controtendenza con l’affermarsi negli anni Ottanta, in Europa e in gran parte del mondo occidentale, di quell’ideologia di natura aziendalista e tecnocratica che spinse verso un radicale mutamento della concezione della scuola e della formazione, depotenziandone sempre più il richiamo alla logica costituzionale. La scuola pubblica infatti in modo diretto, meglio di qualsiasi altro dettato della Costituzione, metteva in chiaro – uso un tempo del passato per essere più chiara – il senso e il valore della dimensione sociale della democrazia e la forza operativa – morale e di civiltà – di quello straordinario articolo 3 della Costituzione, che, nel secondo comma, attribuiva alla Repubblica il compito di rimuovere gli ostacoli di ordine sociale e economico “che inibiscono il pieno sviluppo della persona umana, limitando di fatto la libertà e l’uguaglianza dei cittadini”. Che cosa di più pertinente per questo compito repubblicano della scuola pubblica? Che cosa di più funzionale a promuovere la consapevolezza dei diritti che discendono dall’essere cittadino e cittadina della Repubblica? Niente, a mio parere. Il tutto poi accompagnato dalla libertà di insegnamento, pensata non solo come diritto di chi insegna ma, come è stato per intere generazioni di ragazze e ragazzi, palestra di libertà innanzitutto per loro.

Una scuola così non serve più nell’epoca in cui la tutela dei diritti costituzionali ha perso smalto e la questione sociale diventa di nuovo solo materia di benevolenza del sovrano, che se la sbriga, con l’occhio al consenso elettorale, con l’elargizione dei suoi bonus, mentre passa ormai come legittima l’idea che chi è dotato di fortuna familiare è bene che goda del privilegio di dispendiose scuole private sorrette anche dalla benevolenza finanziaria del sovrano. E le scuole dell’abbandono affondino perché non servono a nulla o a poco.

La La crisi finanziaria, dal 2008 in poi, ha accentuato tutti i lati negativi, soprattutto per quanto riguarda la concezione e la gestione dei servizi pubblici nella quale è stata inserita in modo acritico anche l’istituzione scolastica. Una parte dei paesi europei è andata verso un rafforzamento della rete dei controlli di gestione e di qualità applicando le teorie toyotiste della customer satisfaction e della sovranità del consumatore. La scuola deve piacere alle famiglie, insomma. Da qui l’autonomia scolastica interpretata come modellistica di enti autonomi in concorrenza tra loro con un controllo esterno gestito o delegato dallo Stato al fine di garantire standard minimi nel sistema generale di istruzione. La riforma di Luigi Berlinguer si mosse in questo solco, e il progetto Aprea ne fu la logica continuazione. Governi diversi ma orientamenti analoghi su questo decisivo capitolo.

Che la scuola pubblica, nonostante tutto, continui a essere una fucina di intelligenza sociale e di esperienza umana del sapere e dei saperi lo dimostra la grande mobilitazione con cui ha risposto e ha tenuto botta al progetto del Governo.

Ma forse proprio per questo, per questo non stare al nuovo che avanza di un settore così importante, il premier Renzi vorrà mettercela tutta per silenziare l’opposizione in Senato. Ha già dalla sua parte il Presidente Gasso che, contro ogni logica istituzionale, non ha accolto la richiesta della Senatrice De Petris di permettere che una senatrice del gruppo misto partecipi ai lavori della Commissione Istruzione.