Se il gioco si fa duro, i duri fanno le regole di A.Gizzi

Adriano Gizzi
www.confronti.net

Dopo aver fatto approvare la legge elettorale a colpi di fiducia, contro tutte le opposizioni e una parte del proprio stesso partito, Renzi affronta ora la lunga battaglia per far passare anche le riforme costituzionali, a cominciare dal ridimensionamento del Senato che diventerà organo di rappresentanza delle istituzioni territoriali.

Chi fa le porzioni della torta non deve scegliere per primo la fetta: lo prevede una regola elementare di buon senso, proprio per evitare che poi possa scegliere per sé la più grande. Così dovrebbe essere anche per le regole del gioco democratico. Non solo per correttezza nei confronti degli avversari, ma perché anche chi stabilisce le regole ha interesse a evitare che venga dato troppo potere al vincitore delle elezioni, sapendo che quello stesso potere che oggi è nelle mani di uno domani potrebbe finire nelle mani di un altro. «Er popolo è boja e cambia gabbana: stasera t’onora, domani te sbrana», ammoniva una canzone di un vecchio film di Luigi Magni.

Tutti ripetono sempre che le leggi elettorali andrebbero votate con la più ampia maggioranza possibile, poi però questo non succede mai. Non è accaduto il 4 maggio con l’Italicum, approvato definitivamente dalla Camera con 334 voti a favore, 61 contrari e quasi tutti i deputati delle opposizioni fuori dall’aula. 334 voti potrebbero sembrare pochi, ma il costituzionalista Stefano Ceccanti (lo abbiamo intervistato in questo stesso servizio) ha fatto notare che in realtà le altre leggi elettorali sono state approvate con maggioranze ancora inferiori: 323 voti per il cosiddetto «porcellum», 287 per la legge Mattarella per l’elezione della Camera e addirittura solo 248 per quella che serviva ad eleggere il Senato.

Il Partito democratico, che alle elezioni del 2013 con un quarto dei voti aveva ottenuto quasi la metà dei seggi (legittimamente, s’intende, grazie al premio di maggioranza previsto dal porcellum), ha sempre detto di non voler abusare della propria posizione dominante. Per questo motivo, Renzi aveva tentato – con il famigerato patto del Nazareno – di approvare la legge elettorale almeno con una parte delle opposizioni (quella guidata da Berlusconi, che al momento appariva più disponibile al dialogo… o allo scambio), ma poi quando l’accordo è venuto meno non si è perso d’animo ed è andato avanti comunque, con chi ci stava. Più o meno la maggioranza «crescente» che appoggia il suo governo, ma con decine di parlamentari del Pd che hanno finito per votare contro, aprendo una frattura politica che pesa ancora molto.

Dal porcellum all’Italicum, passando per il consultellum

Dopo la sentenza della Corte costituzionale che a dicembre 2013 aveva dichiarato illegittime alcune parti del porcellum, l’approvazione di una nuova legge elettorale si era resa necessaria. Ma la sentenza della Consulta aveva in un certo senso già prodotto una legge, il cosiddetto «consultellum», che poi non è altro che il porcellum depurato delle parti che aveva dichiarato illegittime: in particolare il premio di maggioranza troppo distorsivo, perché attribuito senza alcuna soglia minima, e il fatto che le liste bloccate composte di molti nomi rendessero praticamente impossibile per l’elettore conoscere i candidati che votava.

Anche se il Parlamento ha dato il via libera all’Italicum, c’è una «clausola di salvaguardia» che ne fissa l’entrata in vigore a luglio 2016. Nel caso in cui si dovesse andare al voto prima, la legge vigente sarebbe appunto il consultellum: un proporzionale con soglia di sbarramento al 4% e senza alcun premio di maggioranza per chi arriva primo. Questa clausola è stata inserita per dare il tempo al Parlamento di approvare la riforma costituzionale (il ddl Boschi) che, tra le altre cose, prevede il superamento del bicameralismo paritario. Con la trasformazione del Senato in organo di rappresentanza delle istituzioni territoriali (sarà composto da 100 membri: 74 consiglieri regionali e 21 sindaci, tutti decisi dai consigli regionali, più i cinque senatori a vita di nomina presidenziale), resterà infatti alla sola Camera dei deputati la titolarità del rapporto di fiducia. In parole povere, al governo basterà avere la fiducia della Camera e quindi – grazie al premio di maggioranza previsto dall’Italicum – il partito vincente potrà governare da solo, senza bisogno di alleati.

Ma per vedere approvata la riforma costituzionale Renzi dovrà pazientare ancora molto. Il Senato – dove la maggioranza di governo è molto più traballante, soprattutto tenendo conto della minoranza del Pd – si appresta ad esaminare di nuovo il ddl Boschi. La prima volta l’aveva approvato nell’estate del 2014, ma siccome poi la Camera l’ha modificato, questa nuova lettura sarà considerata come se fosse la prima. Un particolare non da poco, considerando che le leggi di riforma costituzionale necessitano di una doppia approvazione sia da parte della Camera sia da parte del Senato dello stesso testo: ogni ramo del Parlamento – prevede l’articolo 138 della Costituzione – si deve pronunciare due volte (a distanza minima di tre mesi), per un totale di quattro passaggi parlamentari. Ma se c’è una modifica, anche piccolissima, si riparte da zero.

Secondo le speranze del governo, il Senato dovrebbe a breve approvare il testo già licenziato a marzo dalla Camera, per poi procedere alla seconda votazione della Camera a ottobre e alla seconda del Senato entro dicembre. Per riuscire a chiudere tutto entro la fine dell’anno, però, occorre appunto che non ci siano modifiche. Ma Renzi, dopo la prova di forza dell’Italicum, si è mostrato molto più disponibile al dialogo verso la minoranza del proprio partito, consapevole del fatto che in Senato la strada è più in salita. Come si fa, però, a immaginare delle modifiche senza che il conteggio delle quattro votazioni torni inesorabilmente al punto di partenza? In ogni caso, essendo escluso che le due camere approvino il testo a maggioranza di due terzi dei componenti, lo stesso articolo 138 prevede la possibilità di un referendum confermativo. E sarà lì che si giocherà la battaglia finale.

Oltre all’eliminazione della competenza legislativa concorrente tra Stato e Regioni, con la correzione della riforma del titolo V della Costituzione (quella voluta dal centro-sinistra nel 2001, nella speranza di «disinnescare» le spinte secessioniste), la riforma costituzionale introduce lo statuto delle opposizioni, stabilisce che la funzione legislativa sia esercitata collettivamente dalle due Camere solo in materia costituzionale ed elettorale (oltre che su altre questioni di grande rilevanza), introduce in Costituzione il principio dell’equilibrio di rappresentanza tra donne e uomini e abbassa il quorum che consente a un referendum abrogativo di essere considerato valido. Fino ad ora è necessario che alla consultazione partecipi almeno la metà degli aventi diritto al voto, mentre con la riforma sarà sufficiente – ma solo nel caso in cui siano state raccolte 800mila firme – che partecipi la maggioranza degli elettori che avevano votato alle ultime elezioni politiche. Infine, si alza il quorum per l’elezione del presidente della Repubblica: dal quarto scrutinio servirà la maggioranza dei tre quinti dell’assemblea (deputati più senatori) e dal settimo in poi la maggioranza dei tre quinti dei votanti.

Governabilità e rappresentatività: due esigenze difficili da conciliare

La legge elettorale appena approvata è partita dal principio che si dovesse seguire la linea tracciata dalla Corte costituzionale, senza però rinunciare al premio di maggioranza che assicura la «governabilità». Come si sa, nessuna legge elettorale può garantire allo stesso tempo il massimo della rappresentatività e il massimo della governabilità. Con il proporzionale della cosiddetta prima Repubblica la rappresentanza era altissima e la governabilità bassissima. Con il porcellum, limitatamente alla Camera, avevamo il massimo della governabilità (almeno in teoria) ma anche un livello basso di rappresentanza, con distorsioni notevoli nel rapporto tra voti e seggi ottenuti.

L’Italicum prevede una soglia di sbarramento del 3% e non consente più le coalizioni: per ottenere il premio di maggioranza di 340 seggi su 630 una lista deve ottenere da sola almeno il 40% dei voti. Se nessuno ce la fa, si va al ballottaggio tra i primi due partiti. Neanche al secondo turno sono previste alleanze, quindi chi si presenta in contrapposizione al primo turno non può coalizzarsi dopo. Per i sostenitori della legge si tratta di un elemento di chiarezza per evitare il rischio di contrattazioni o accordi poco trasparenti tra un turno e l’altro. Il fatto che Forza Italia sia stata ampiamente superata dalla Lega nord (sia nei sondaggi sia in varie elezioni amministrative) ha inciso non poco nella decisione di Berlusconi di far saltare il patto del Nazareno. Con i nuovi rapporti di forza all’interno del centro-destra, solo una coalizione potrebbe permettere di competere con il Pd per la conquista del primo posto o almeno per l’accesso al ballottaggio. Con l’Italicum, dove ogni lista si presenta da sola, Forza Italia rischia di arrivare quarta e di essere quindi fuori dai giochi. Si contenderebbero il secondo posto (e quindi la possibilità di sfidare il Pd al secondo turno) la Lega e il Movimento 5 stelle.

Qualcuno è arrivato a paragonare questo premio di maggioranza alla cosiddetta «legge truffa» del 1953 o addirittura alla legge Acerbo voluta da Mussolini. In realtà, la legge truffa prevedeva un premio di maggioranza (quasi due terzi dei seggi) a chi superava il 50% dei voti. L’effetto distorsivo era quindi attenuato, perché non si trasformava una minoranza di voti in maggioranza di seggi (come invece faceva il porcellum e come farà l’Italicum), ma ci si limitava a rafforzare ulteriormente una maggioranza che già era tale di per sé. Poi alle elezioni del ’53 il premio di maggioranza non scattò per un soffio e subito dopo la legge venne abrogata.

La legge Acerbo, applicata nelle elezioni del 1924, regalava i due terzi dei seggi alla lista vincente anche solo con un quarto dei voti. Qui l’effetto distorsivo era grandissimo, anche se poi il «listone» (promosso dal governo Mussolini con l’appoggio di esponenti della destra liberale e cattolica) ottenne quasi i due terzi dei voti, quindi non ebbe bisogno del premio in seggi. Con quali metodi poi questa maggioranza schiacciante fosse stata ottenuta, lo spiegò bene Giacomo Matteotti in Parlamento e il fatto che poco dopo venisse barbaramente ucciso lascia pensare che le intimidazioni e i brogli che aveva denunciato non fossero sue fantasie.

Il bonus di seggi attribuiti dall’Italicum al partito vincente è quindi molto meno «premiante» sia rispetto alla legge fascista sia rispetto al porcellum. Le accuse di deriva fascista riferite all’Italicum sono esagerate e rischiano di produrre il solito «effetto al lupo al lupo»: banalizzando il termine fascismo si rischia che poi, se dovesse davvero ripresentarsi quel pericolo, nessuno crederebbe più alle grida di allarme. Ma i rischi – obiettano i critici – non deriverebbero solo dalla legge in sé, quanto dal combinato disposto tra Italicum e abolizione del bicameralismo perfetto, che attribuirebbe a un partito che al primo turno ha ottenuto anche solo il 30% (o meno) la possibilità di controllare la Presidenza della Repubblica e in parte anche la Corte costituzionale (su questo, si veda l’intervista a Giulio Ercolessi più avanti).

Un Parlamento di «nominati»?

Ma le critiche più diffuse, quelle che si possono ascoltare anche al bar (dove raramente si disquisisce di norme per l’elezione dei giudici costituzionali), si riferiscono ai capilista bloccati. Il cittadino comune vuole sapere se può scegliere davvero chi vota e l’espressione delle preferenze – a torto o a ragione, questo è un altro discorso – viene generalmente vista come la prova che l’elettore sta decidendo direttamente quali persone mandare in Parlamento. L’Italicum ha scelto una soluzione di compromesso: in ognuno dei cento collegi plurinominali in cui è diviso il territorio nazionale, ogni partito presenta un capolista «bloccato» (che viene cioè eletto automaticamente, ovviamente a patto che quella lista ottenga i voti sufficienti per eleggerlo) e poi in media altri cinque candidati che si contendono le preferenze degli elettori. Apparentemente, potrebbe sembrare una «modica quantità» di nominati, ma in realtà solo il partito vincente (con 340 seggi assicurati dal premio di maggioranza) riuscirà ad eleggere almeno 240 deputati con le preferenze: la maggior parte degli altri partiti li eleggeranno quasi solo tra i capilista bloccati. Non si può sapere quanti saranno i nominati, ma le previsioni più caute parlano di una metà dei deputati e qualcuno arriva a ipotizzare due terzi.

A Italicum ormai approvato, ci sono solo due modi per limitare il più possibile l’impatto dei nominati. Il primo è far scegliere i nomi dei capilista attraverso le primarie, il secondo invece prevede un escamotage tecnico: le liste che intendono eleggere quasi tutti i propri deputati solo con le preferenze hanno la possibilità di presentare solo dieci capilista in tutto, candidandone ognuno in dieci collegi diversi, così come previsto dall’Italicum. Ogni lista avrà solo dieci persone nominate e tutti gli altri deputati verranno dal risultato delle preferenze espresse dagli elettori: così la Camera avrebbe sì e no un 10% di nominati.

L’Italicum poi prevede anche delle «quote rosa», garantendo che i capilista dello stesso sesso non superino i 3/5 del totale in ciascuna circoscrizione, e l’elettore può esprimere una o due preferenze (in questo caso, deve essere per due candidati di sesso diverso). L’ex esponente del Pd Pippo Civati ha già annunciato che promuoverà un referendum sull’Italicum per abolire i capilista bloccati e il ballottaggio, in modo tale che se nessuna lista raggiunge il 40% dei voti la ripartizione dei seggi diventa proporzionale per tutti.

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Non aprire la strada ad avventure autoritarie

intervista a cura di Adriano Gizzi
www.confronti.net

Formatosi politicamente nella sinistra liberale, nella Lega per il divorzio e nel Movimento federalista europeo, Giulio Ercolessi è stato segretario del Partito radicale nel 1973-74. All’inizio degli anni ’80 ha abbandonato la politica attiva, intensificando però la sua attività pubblicistica. Instancabile «globetrotter» del pensiero liberale, in questi decenni ha partecipato come relatore a centinaia di incontri e convegni, scrivendo articoli e saggi – con il proprio nome o utilizzando uno pseudonimo – per riviste quali Critica liberale (di cui ha anche codiretto il supplemento «Gli Stati Uniti d’Europa»), MicroMega, Lettera Internazionale e Confronti. Tra i suoi libri, ricordiamo L’Europa verso il suicidio? Senza Unione federale il destino degli europei è segnato (Dedalo, 2009) e soprattutto Sfascismo costituzionale. Come uscire vivi da un azzardo politico temerario. Una proposta liberale, appena pubblicato per Aracne editrice. Ercolessi è anche membro del board del Forum liberale europeo (Elf), l’organizzazione che riunisce i circa quaranta centri di studi politici europei facenti capo all’Alde (il variegato partito dei liberali al Parlamento europeo).

Sfascismo costituzionale

In un’epoca in cui il mito della «governabilità» – o «del fare», per dirla alla Renzi – implica l’esaltazione del potere e del suo esercizio efficace, lei sceglie invece di porre l’accento sui rischi dell’eccesso di potere e della «tirannide della maggioranza», da cui ci mettevano in guardia Tocqueville e Mill…

I media e l’attuale classe politica italiana, dopo i vent’anni berlusconiani di intensa diseducazione civica di massa, hanno perso la consapevolezza dell’intrinseca fragilità della democrazia liberale. Hanno dimenticato che basta pochissimo per avviare processi di regressione e imbarbarimento collettivo. Hanno dimenticato che il potere politico tende quasi sempre, quasi fisiologicamente, a non rispettare i propri limiti. Hanno dimenticato la lezione della barbarie totalitaria del XX secolo. Hanno dimenticato che l’Italia è stata fascista. Che all’inizio pochi avevano riconosciuto e compreso che cosa sarebbe stato il fascismo. E tutto questo avviene proprio quando in tutta Europa spuntano come funghi nuovi movimenti populisti, autoritari, nazionalisti, razzisti e xenofobi. Anche di questi, pochi oggi riconoscono davvero la pericolosità e i possibili sviluppi.

Quali sono i rischi per la democrazia e le libertà costituzionali che deriverebbero dall’approvazione di questa riforma costituzionale voluta dal governo? E la riforma elettorale appena approvata è davvero un pericolo?

Le due riforme combinate metterebbero nelle mani della sola maggioranza che vincesse le elezioni politiche e qualche elezione regionale tutte le garanzie delle libertà costituzionali e le regole del gioco. A qualunque maggioranza governativa basterebbe pochissimo per raggiungere tutti i quorum previsti dalla Costituzione a loro tutela. Cambiare la Costituzione – cioè l’identità civile del paese – diventerebbe quasi altrettanto facile quanto approvare leggi ordinarie o votare la fiducia. Qualunque futuro ciarlatano carismatico di cui si invaghissero, anche per una sola stagione, i nostri concittadini – come è già successo, e più di una volta – diventerebbe padrone quasi assoluto dell’Italia. Sarebbe come abolire la rigidità della Costituzione, come tornare a una costituzione non rigida, quale era lo Statuto Albertino, che si poteva modificare con leggi ordinarie successive e che quindi non fu di ostacolo all’instaurazione della dittatura. È un po’ come se si decidesse di disdire tutte le assicurazioni stipulate dopo la caduta del fascismo contro il rischio del ritorno a un regime autoritario.

Nella prefazione a «Sfascismo costituzionale», sir Graham Watson (presidente dell’Alleanza dei liberali e democratici per l’Europa) scrive di aver cominciato a dubitare di Renzi quando ha appreso che aveva ingaggiato come suo stretto consigliere un ex spin doctor di Berlusconi. C’è dunque una continuità tra i due personaggi?

Temo proprio di sì. C’è nell’ideologia costituzionale, nello stile di comando, in una certa antropologia politica, che rendono il Pd personale di Renzi sempre più omologato al modello berlusconiano. È il trionfo (quasi) postumo di Berlusconi. E anche del suo – chiamiamolo così – modello di etica pubblica (grottesche caratteristiche personali a parte, ovviamente). È davvero imbarazzante, ma pare che a molti nostri concittadini i leader politici piacciano proprio così: bulli, maneschi, sbruffoni, maleducati e prepotenti come il marchese del Grillo interpretato da Alberto Sordi.

Il governo conta di approvare definitivamente la riforma costituzionale entro la fine dell’anno. Ci riuscirà? E, in tal caso, che possibilità ci sono di una vittoria del «no» nel referendum costituzionale?

Non so se ce la farà, ma Renzi ha in comune con Berlusconi anche un’altissima propensione al rischio. Se sarà approvata, spero che contro questa riforma costituzionale si formi un ampio schieramento referendario «ciellenistico» (sul modello del Cln, il Comitato di liberazione nazionale che durante la Resistenza comprendeva forze politiche molto diverse tra loro, ma unite nella lotta contro il fascismo, ndr). Non perché Renzi sia lui un potenziale dittatore – è solo un insipiente apprendista stregone che probabilmente non capisce neppure le conseguenze potenziali di quel che sta facendo – ma perché queste riforme, se approvate, potrebbero durare molto più di lui e aprire la strada a qualunque avventura autoritaria futura. Come in Ungheria, se non peggio. E forse prima di quel che si possa immaginare. Temo però che il risultato dipenderà più dall’eventuale logoramento della leadership di Renzi, o dalla soddisfazione o meno per l’andamento dell’economica, che da altro, perché pare che capire il contenuto della riforma sia difficilissimo per gli stessi parlamentari, a giudicare dai loro comportamenti e dichiarazioni.

Se – come scrive – la tendenza generale della politica italiana è sempre più verso l’affidamento di tutti i poteri al cosiddetto «uomo solo al comando», quali diritti rimangono alle minoranze?

L’idea primitiva che sottostà a queste riforme è che la democrazia consista nell’eleggere ogni cinque anni un capataz – e un po’ di yes-men e yes-women ai suoi ordini – e dargli carta bianca assoluta, anche se dovesse rivelarsi fin da subito un incapace, un delinquente o un citrullo, bravo solo a fare campagne elettorali. In questa visione, le minoranze sono solo un intralcio da rottamare, e la democrazia rappresentativa di fatto non serve più. Tanto meno le piccole minoranze che non possono essere rappresentate da nessuno dei due o tre partiti maggiori. Ma se si impedisce a una minoranza di fare con qualche possibilità di successo le sue prove, le due o tre forze maggiori diventano un oligopolio inscalfibile. La sola possibilità che sorga qualche proposta nuova diventano le esplosioni di rabbia incontenibile, inevitabilmente demagogiche.

Nel suo libro avanza anche delle proposte alternative di riforma che non mettano in pericolo il sistema dei freni e contrappesi costituzionali. Ce ne può accennare?

Per salvaguardare la stabilità di governo senza compromettere le garanzie costituzionali si potrebbe pensare a una sola Camera, delle dimensioni di quella attuale, cioè di 630 membri, ed eleggerne 530 con un sistema maggioritario e 100 con proporzionale pura (questi ultimi si potrebbero chiamare «senatori», in omaggio alla tradizione). Nei casi in cui la Costituzione prevede maggioranze qualificate – e solo in questi – (modifiche della Costituzione, elezione del Presidente e dei giudici costituzionali, ecc.) i «senatori» voterebbero separatamente dagli altri, e la maggioranza qualificata dovrebbe essere raggiunta sia fra tutti i parlamentari sia fra i «senatori». In questo modo chi vincesse una semplice tornata elettorale generale potrebbe sì governare e attuare il suo programma di legislatura, ma non potrebbe cambiare unilateralmente le regole del gioco a proprio vantaggio né violare diritti e libertà costituzionali o eleggere in solitudine gli organi di garanzia. Inoltre, nuove proposte politiche potrebbero fare le proprie prove, inizialmente, nell’arena proporzionale, al riparo dallo spauracchio della dispersione del voto. Divenute abbastanza credibili, potrebbero cercare di scalzare una delle posizioni dominanti. Infine, si risparmierebbe molto di più anche sui «costi della politica» visibile, che sembrano ossessionare gli italiani molto più di quelli, ben più sostanziosi, della politica occulta e della corruzione.