Ascoltando il grido dei poveri e della Terra. L’“ecologia integrale” di papa Francesco di C.Fanti

Claudia Fanti
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Per la destra statunitense e non solo, per i negazionisti del cambiamento climatico, per le grandi imprese del settore energetico e più in generale per tutti coloro a cui le preoccupazioni ambientali appaiono nient’altro che un intralcio sulla via del “progresso”, l’enciclica Laudato si’ di papa Francesco sulla cura della casa comune, presentata oggi, 18 giugno, nell’Aula Nuova del Sinodo in Vaticano, è sicuramente motivo di profondo fastidio (e non è un caso che Sandro Magister, il vaticanista dell’Espresso noto per la sua ostilità al papa, abbia deciso di rendere pubblica il 15 giugno una bozza del testo ancora sotto embargo, cercando così di depotenziarne la portata, con la conseguente sospensione a tempo indeterminato del suo accredito da parte della Sala Stampa della Santa Sede). Con il suo incipit ripreso dal Cantico delle Creature di San Francesco – per ricordare «che la nostra casa comune è anche come una sorella, con la quale condividiamo l’esistenza, e come una madre bella che ci accoglie tra le sue braccia» – l’enciclica rivolge un pressante invito «a rinnovare il dialogo sul modo in cui stiamo costruendo il futuro del pianeta», denunciando il fatto che «molti sforzi per cercare soluzioni concrete alla crisi ambientale sono spesso frustrati non solo dal rifiuto dei potenti, ma anche dal disinteresse degli altri», da atteggiamenti, presenti anche fra i credenti, che «vanno dalla negazione del problema all’indifferenza, alla rassegnazione comoda, o alla fiducia cieca nelle soluzioni tecniche». Un «comportamento evasivo» con cui «l’essere umano si arrangia per alimentare tutti i vizi autodistruttivi: cercando di non vederli, lottando per non riconoscerli, rimandando le decisioni importanti, facendo come se nulla fosse». Così, rispondendo indirettamente a chi reagisce agli allarmi sulla crisi ambientale con accuse di catastrofismo e attacchi ai “profeti di sventure”, il papa afferma che «le previsioni catastrofiche ormai non si possono più guardare con disprezzo e ironia», in quanto «il ritmo di consumo, di spreco e di alterazione dell’ambiente ha superato le possibilità del pianeta, in maniera tale che lo stile di vita attuale, essendo insostenibile, può sfociare solamente in catastrofi, come di fatto sta già avvenendo periodicamente in diverse regioni».

L’allarme sul riscaldamento globale. Piove sempre sul bagnato

In linea con tutte le previsioni della vigilia, l’enciclica accoglie le conclusioni della quasi totalità della comunità scientifica riguardo al fatto che «la maggior parte del riscaldamento globale degli ultimi decenni è dovuta alla grande concentrazione di gas serra emessi soprattutto a causa dell’attività umana», respingendo così l’invito dei settori conservatori, particolarmente negli Stati Uniti, a limitarsi a considerazioni morali, senza intervenire in questioni scientifiche e politiche. E rilancia con forza l’allarme degli scienziati: «Se la tendenza attuale continua, questo secolo potrebbe essere testimone di cambiamenti climatici inauditi e di una distruzione senza precedenti degli ecosistemi, con gravi conseguenze per tutti noi», e specialmente per i poveri, i quali, senza «altre disponibilità economiche e altre risorse che permettano loro di adattarsi agli impatti climatici o di far fronte a situazioni catastrofiche», si vedono oltretutto «obbligati a migrare con grande incertezza sul futuro della loro vita e dei loro figli». Eppure, denuncia il papa, «molti di coloro che detengono più risorse e potere economico o politico sembrano concentrarsi soprattutto nel mascherare i problemi o nasconderne i sintomi, cercando solo di ridurre alcuni impatti negativi di cambiamenti climatici», benché molti sintomi indichino «che questi effetti potranno essere sempre peggiori se continuiamo con gli attuali modelli di produzione e di consumo». Perciò, afferma, «è diventato urgente e impellente lo sviluppo di politiche affinché nei prossimi anni l’emissione di anidride carbonica e di altri gas altamente inquinanti si riduca drasticamente», ad esempio sostituendo «progressivamente e senza indugio» i combustibili fossili (sorprende tuttavia l’assenza di qualsiasi riferimento al fracking) e sviluppando fonti di energia rinnovabile (ma anche affinché si programmi un’agricoltura sostenibile e diversificata, si promuova una gestione più adeguata delle risorse forestali e marine, si assicuri a tutti l’accesso all’acqua potabile).

Con i riflettori puntati sulla decisiva Conferenza sul clima di Parigi del prossimo dicembre, l’enciclica non poteva non soffermarsi sui progressi «deplorevolmente molto scarsi» dei negoziati internazionali, bloccati di fatto dalle «posizioni dei Paesi che privilegiano i propri interessi nazionali rispetto al bene comune globale», evidenziando una «mancanza di coscienza e di responsabilità» di cui dovranno render conto a «quanti subiranno le conseguenze che noi tentiamo di dissimulare». E prosegue: «Alcune delle strategie per la bassa emissione di gas inquinanti puntano alla internazionalizzazione dei costi ambientali, con il pericolo di imporre ai Paesi con minori risorse pesanti impegni sulle riduzioni di emissioni, simili a quelli dei Paesi più industrializzati», aggiungendo in tal modo «nuova ingiustizia sotto il rivestimento della cura per l’ambiente». Anche in questo caso, commenta il papa, «piove sempre sul bagnato». Da qui il richiamo al principio delle responsabilità comuni ma differenziate, considerando che «i Paesi che hanno tratto beneficio da un alto livello di industrializzazione, a costo di un’enorme emissione di gas serra, hanno maggiore responsabilità di contribuire alla soluzione dei problemi che hanno causato».

Debito estero e “debito ecologico”

E sulle responsabilità dei Paesi industrializzati il papa è assai chiaro: se il debito estero dei Paesi poveri «si è trasformato in uno strumento di controllo», si continua a ignorare invece il “debito ecologico” contratto dal Nord del mondo: «In diversi modi, i popoli in via di sviluppo, dove si trovano le riserve più importanti della biosfera, continuano ad alimentare lo sviluppo dei Paesi più ricchi a prezzo del loro presente e del loro futuro». Il papa denuncia l’operato delle multinazionali, che fanno nei Paesi poveri quello che non è loro permesso nel cosiddetto primo mondo e che, «quando cessano le loro attività e si ritirano, lasciano grandi danni umani e ambientali, come la disoccupazione, villaggi senza vita, esaurimento di alcune riserve naturali, deforestazione, impoverimento dell’agricoltura e dell’allevamento locale, crateri, colline devastate, fiumi inquinati e qualche opera sociale che non si può più sostenere».

In questo quadro, l’enciclica prende chiaramente posizione rispetto ai conflitti ambientali scatenati praticamente in tutto il pianeta da progetti ecologicamente insostenibili: «In ogni discussione riguardante un’iniziativa imprenditoriale si dovrebbe porre una serie di domande, per poter discernere se porterà ad un vero sviluppo integrale: per quale scopo? Per quale motivo? Dove? Quando? In che modo? A chi è diretto? Quali sono i rischi? A quale costo? Chi paga le spese e come lo farà? In questo esame ci sono questioni che devono avere la priorità. Per esempio, sappiamo che l’acqua è una risorsa scarsa e indispensabile, inoltre è un diritto fondamentale che condiziona l’esercizio di altri diritti umani. Questo è indubitabile e supera ogni analisi di impatto ambientale di una regione».

La proposta di un’ecologia integrale. Grido della terra e grido dei poveri

È chiaro, tuttavia, che papa Francesco va oltre le denunce puntuali relative alla crisi ambientale e al cambiamento climatico, avanzando la proposta di un’«ecologia integrale» – uno dei concetti chiave del documento – basata sul riconoscimento che la natura non è «qualcosa di separato da noi» o «una mera cornice della nostra vita»: «Siamo parte di essa e ne siamo compenetrati». Di modo che «non ci sono due crisi separate, una ambientale e un’altra sociale, bensì una sola e complessa crisi socio-ambientale»: «Oggi non possiamo fare a meno di riconoscere che un vero approccio ecologico diventa sempre un approccio sociale, che deve integrare la giustizia nelle discussioni sull’ambiente, per ascoltare tanto il grido della terra quanto il grido dei poveri». Un concetto, quello dell’ecologia integrale, che ruota su alcuni assi portanti che attraversano l’intera enciclica: oltre all’«intima relazione tra i poveri e la fragilità del pianeta», «la convinzione che tutto nel mondo è intimamente connesso»; «la critica al nuovo paradigma e alle forme di potere che derivano dalla tecnologia»; «l’invito a cercare altri modi di intendere l’economia e il progresso»; «il valore proprio di ogni creatura»; «la grave responsabilità della politica internazionale e locale»; «la cultura dello scarto e la proposta di un nuovo stile di vita». Né può mancare un dialogo intenso e produttivo con la scienza, nella convinzione che, «se si vuole veramente costruire un’ecologia che ci permetta di riparare tutto ciò che abbiamo distrutto, nessun ramo delle scienze e nessuna forma di saggezza può essere trascurata».

Contro il mito della crescita infinita. Ridefinire il progresso

Soffermandosi sulla «radice umana della crisi ecologica», il papa mette esplicitamente in discussione l’idea di «una crescita infinita o illimitata, che ha tanto entusiasmato gli economisti, i teorici della finanza e della tecnologia», smascherando «la menzogna circa la disponibilità infinita dei beni del pianeta, che conduce a “spremerlo” fino al limite e oltre il limite». Come pure denuncia l’onnipotenza del paradigma tecnocratico, con il «relativismo pratico» che l’accompagna, «in cui tutto diventa irrilevante se non serve ai propri interessi immediati»: di fronte a un’immensa crescita tecnologica non adeguatamente accompagnata da uno sviluppo in termini di responsabilità, di valori e di coscienza, diventa impossibile «ignorare che l’energia nucleare, la biotecnologia, l’informatica, la conoscenza del nostro stesso Dna e altre potenzialità che abbiamo acquisito ci offrono un tremendo potere. Anzi, danno a coloro che detengono la conoscenza e soprattutto il potere economico per sfruttarla un dominio impressionante sull’insieme del genere umano e del mondo intero».

Se allora «nessuno vuole tornare all’epoca delle caverne», è però indispensabile «pensare pure a rallentare un po’ il passo, a porre alcuni limiti ragionevoli e anche a ritornare indietro prima che sia tardi», senza con ciò negare «la creatività umana e il suo sogno di progresso», ma piuttosto incanalando «tale energia in modo nuovo». Significativo, in questo quadro, il fatto che l’enciclica utilizzi il concetto di decrescita, benché appena accennato, respingendo anche la mistificazione della “crescita sostenibile”: di fronte al comportamento di coloro che consumano e distruggono sempre più, mentre altri «non riescono a vivere in conformità alla propria dignità umana», è arrivata l’ora, scrive il papa, «di accettare una certa decrescita in alcune parti del mondo procurando risorse perché si possa crescere in modo sano in altre parti». Né «basta conciliare, in una via di mezzo, la cura per la natura con la rendita finanziaria, o la conservazione dell’ambiente con il progresso. Su questo tema le vie di mezzo sono solo un piccolo ritardo nel disastro. Semplicemente si tratta di ridefinire il progresso», evidenziando come «il discorso della crescita sostenibile» diventi «spesso un diversivo e un mezzo di giustificazione che assorbe valori del discorso ecologista all’interno della logica della finanza e della tecnocrazia». (Una posizione, questa, che va decisamente oltre ciò che il card. Peter Turkson, incaricato di coordinare i lavori dell’enciclica, aveva affermato in occasione della presentazione del rapporto della Global Commission on the Economic and Climate, rispetto alla possibilità di tenere insieme le due dimensioni della crescita economica e della sostenibilità ecologica).

In quest’ottica, non basta «una serie di risposte urgenti e parziali ai problemi che si presentano riguardo al degrado ambientale, all’esaurimento delle riserve naturali e all’inquinamento», ma serve «una profonda conversione interiore»: «uno sguardo diverso», un pensiero, una spiritualità, uno stile di vita «profetico e contemplativo». E anche un cambiamento dei comportamenti personali – di cui l’enciclica fa svariati esempi -, che ha pure il merito di esercitare pressioni su chi detiene il potere politico ed economico (per esempio smettendo di acquistare certi prodotti): «Non bisogna pensare che questi sforzi non cambieranno il mondo. Tali azioni diffondono un bene nella società che sempre produce frutti al di là di quanto si possa constatare, perché provocano in seno a questa terra un bene che tende sempre a diffondersi, a volte invisibilmente. Inoltre, l’esercizio di questi comportamenti ci restituisce il senso della nostra dignità, ci conduce a una maggiore profondità esistenziale, ci permette di sperimentare che vale la pena passare per questo mondo». E non sorprende allora il richiamo alla Carta della Terra (tanto cara al teologo della liberazione Leonardo Boff, che ha anche partecipato alla sua stesura e che la definisce come il documento più importante del principio del XXI secolo), di cui il papa rilancia la «preziosa sfida»: «Come mai prima d’ora nella storia, il destino comune ci obbliga a cercare un nuovo inizio (…). Possa la nostra epoca essere ricordata per il risveglio di una nuova riverenza per la vita, per la risolutezza nel raggiungere la sostenibilità, per l’accelerazione della lotta per la giustizia e la pace, e per la gioiosa celebrazione della vita».

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Per una corretta interpretazione della Genesi. La teologia della creazione nell’enciclica “Laudato si’”

Claudia Fanti
Adista Notizie n° 23 del 27/06/2015

Com’era facilmente prevedibile, l’enciclica Laudato si’ di papa Francesco sulla cura della casa comune (v. notizia precedente) non stravolge la visione tradizionale della Chiesa sul rapporto tra essere umano e natura ripresa dalla Genesi, che pone l’essere umano al centro del mondo naturale, con la responsabilità di prendersene cura. Una lettura, questa, che – da quando, nel 1967, Lynn White, studioso statunitense di storia medievale, definì il cristianesimo come la religione più antropocentrica del mondo – si è spesso attirata l’accusa di cadere in un eccessivo antropocentrismo, presentando l’essere umano come “signore della creazione”, con il compito di soggiogare la natura e di domarla a suo piacere, e ponendo l’universo semplicemente al suo servizio. Una visione a cui è stata ricondotta, anche, la responsabilità di aver alienato l’essere umano dall’ambiente, in quanto l’unico “a immagine e somiglianza di Dio”, dunque non realmente naturale, e di aver separato in maniera netta Dio dalla natura, spogliando questa di ogni sacralità e in tal modo svalutandola e riducendola a una materialità inerte, senza alcuna rilevanza salvifica.

Anche a giudizio del papa «il pensiero ebraico-cristiano ha demitizzato la natura», in quanto, «senza smettere di ammirarla per il suo splendore e la sua immensità, non le ha più attribuito un carattere divino». Ma in ciò egli vede, al contrario, un’ulteriore sottolineatura del «nostro impegno nei suoi confronti»: «Un ritorno alla natura non può essere a scapito della libertà e della responsabilità dell’essere umano, che è parte del mondo con il compito di coltivare le proprie capacità per proteggerlo e svilupparne le potenzialità». Come pure il papa riconosce all’essere umano, «benché supponga anche processi evolutivi», «una novità non pienamente spiegabile dall’evoluzione di altri sistemi aperti», «una singolarità che trascende l’ambito fisico e biologico»: «La novità qualitativa implicata dal sorgere di un essere personale all’interno dell’universo materiale presuppone un’azione diretta di Dio, una peculiare chiamata alla vita e alla relazione di un Tu a un altro tu».

Tuttavia papa Francesco respinge le critiche di chi ritiene «che, a partire dal racconto della Genesi che invita a soggiogare la terra, verrebbe favorito lo sfruttamento selvaggio della natura presentando un’immagine dell’essere umano come dominatore e distruttore». È, vero, ammette, che «una presentazione inadeguata dell’antropologia cristiana ha finito per promuovere una concezione errata» della relazione tra essere umano e natura, trasmettendo «un sogno prometeico di dominio sul mondo», ma, afferma, «l’interpretazione corretta del concetto dell’essere umano come signore dell’universo è quella di intenderlo come amministratore responsabile». Cosicché la giustificazione del dominio dispotico dell’essere umano sul Creato non è stata altro che un’infedeltà «al tesoro di sapienza che avremmo dovuto custodire», quell’invito rivolto dai testi biblici a proteggere e curare il giardino del mondo: «Ogni comunità può prendere dalla bontà della terra ciò di cui ha bisogno per la propria sopravvivenza, ma ha anche il dovere di tutelarla e garantire la continuità della sua fertilità per le generazioni future. In definitiva, “del Signore è la terra” (Sal 24,1), a Lui appartiene “la terra e quanto essa contiene” (Dt 10,14). Perciò Dio nega ogni pretesa di proprietà assoluta: “Le terre non si potranno vendere per sempre, perché la terra è mia e voi siete presso di me come forestieri e ospiti” (Lv 25,23)». E anzi «il modo migliore per collocare l’essere umano al suo posto e mettere fine alla sua pretesa di essere un dominatore assoluto della terra, è ritornare a proporre la figura di un Padre creatore e unico padrone del mondo, perché altrimenti l’essere umano tenderà sempre a voler imporre alla realtà le proprie leggi e i propri interessi».

In ogni caso, se, per usare le parole della religiosa francescana Ilia Delio (v. Adista Documenti n. 22/15), «i principi di base cui si richiama il papa per risolvere la crisi ambientale, specialmente quello dell’essere umano fatto a immagine di Dio, sono gli stessi principi che, in un certo senso, hanno provocato la crisi», l’enciclica opera uno sforzo evidente per superare gli aspetti più anti-ecologici della tradizione giudaico-cristiana: sia riconoscendo agli altri esseri viventi un valore proprio di fronte a Dio («Insistere nel dire che l’essere umano è immagine di Dio non dovrebbe farci dimenticare che ogni creatura ha una funzione e nessuna è superflua»); sia ricordando «che noi stessi siamo terra» («Il nostro stesso corpo è costituito dagli elementi del pianeta, la sua aria è quella che ci dà il respiro e la sua acqua ci vivifica e ristora»); sia abbracciando una visione olistica, in cui tutto è intimamente connesso, tutto è in relazione, tutti gli esseri formano «una sorta di famiglia universale»: «Dio ci ha unito tanto strettamente al mondo che ci circonda, che la desertificazione del suolo è come una malattia per ciascuno, e possiamo lamentare l’estinzione di una specie come fosse una mutilazione». E tutto è destinato a raggiungere la pienezza di Dio: «Lo scopo finale delle altre creature non siamo noi. Invece tutte avanzano, insieme a noi e attraverso di noi, verso la meta comune, che è Dio, in una pienezza trascendente dove Cristo risorto abbraccia e illumina tutto». Anche se, precisa il papa, «questo non significa equiparare tutti gli esseri viventi e togliere all’essere umano quel valore peculiare che implica allo stesso tempo una tremenda responsabilità. E nemmeno comporta una divinizzazione della terra, che ci priverebbe della chiamata a collaborare con essa e a proteggere la sua fragilità». Cosicché il papa prende le distanze dall’«ossessione di negare alla persona umana qualsiasi preminenza» conducendo «una lotta per le altre specie che non mettiamo in atto per difendere la pari dignità tra gli esseri umani». Né quello che il papa definisce come «un antropocentrismo deviato» può lasciare il posto «a un “biocentrismo”, perché ciò implicherebbe introdurre un nuovo squilibrio, che non solo non risolverà i problemi, bensì ne aggiungerà altri».

Quel che è certo, comunque, e che seppure l’enciclica non riconosce la relativa povertà di riferimenti ecologici nella teologia e nella dottrina cristiane (non è un caso, per esempio, che i comandamenti ignorino totalmente la natura), la grande importanza che assume per il papa il tema ambientale, straordinariamente evidenziata da quest’enciclica, sta contribuendo in maniera rilevante a diffondere una coscienza ambientale all’interno della Chiesa e non solo.

Se nessuna novità era possibile attendersi rispetto all’aborto, la cui giustificazione è ritenuta incompatibile con la difesa della natura («Non appare praticabile un cammino educativo per l’accoglienza degli esseri deboli che ci circondano, che a volte sono molesti o importuni, quando non si dà protezione a un embrione umano benché il suo arrivo sia causa di disagi e difficoltà»), qualcosa in più ci si poteva aspettare forse riguardo al tema delle politiche di controllo della natalità, su cui invece l’enciclica non mostra aperture: secondo papa Francesco, infatti, «la crescita demografica è pienamente compatibile con uno sviluppo integrale e solidale», in maniera che «incolpare l’incremento demografico e non il consumismo estremo e selettivo di alcuni è un modo per non affrontare i problemi». E ciò dimostra quanto fossero strumentali le polemiche, da parte degli oppositori di papa Francesco, sulla collaborazione alla stesura dell’enciclica di uno dei fautori della riduzione dei tassi di natalità come l’economista Jeffrey Sachs.

Un ultimo accenno merita infine la questione degli organismi geneticamente modificati, rispetto a cui esistevano forti aspettative da parte dei movimenti contadini (non a caso, nell’aprile del 2014, otto scienziati di diversi continenti vicini a Via Campesina avevano inviato a papa Francesco un documento sugli Ogm elaborato collettivamente, dal titolo “Perché le coltivazioni transgeniche rappresentano una minaccia ai contadini, alla sovranità alimentare, alla salute e alla biodiversità nel pianeta”, chiedendo il suo aiuto rispetto a tale questione). Ma una condanna netta non è arrivata. Di certo, scrive il papa, se è vero che «non disponiamo di prove definitive circa il danno che potrebbero causare i cereali transgenici agli esseri umani, e in alcune regioni il loro utilizzo ha prodotto una crescita economica che ha contribuito a risolvere alcuni problemi, si riscontrano significative difficoltà che non devono essere minimizzate», come «una concentrazione di terre produttive nelle mani di pochi», la «tendenza allo sviluppo di oligopoli nella produzione di sementi e di altri prodotti necessari per la coltivazione» o la distruzione della «complessa trama degli ecosistemi», che, diminuendo la diversità nella produzione, «colpisce il presente o il futuro delle economie regionali». In questo quadro, evidenziando la necessità di «assicurare un dibattito scientifico e sociale che sia responsabile e ampio», il papa sceglie di non chiudere il discorso: «Quella degli Ogm è una questione di carattere complesso, che esige di essere affrontata con uno sguardo comprensivo di tutti i suoi aspetti, e questo richiederebbe almeno un maggiore sforzo per finanziare diverse linee di ricerca autonoma e interdisciplinare che possano apportare nuova luce».