Una foto, quella foto di I.Dominijanni

Ida Dominijanni
www.huffingtonpost.it

L’immagine al posto della cosa. Il primo comandamento del regime della visibilità assoluta ha fatto davvero molti proseliti, se il dibattito sull’opportunità di pubblicare la foto del corpo senza vita del bimbo sulla riva di Bodrum ha rapidamente sopravanzato il dibattito sui fatti che quella foto restituisce. Ma lo scandalo non è la foto, è il cadavere; non è averla pubblicata, è disquisire dell’etica della comunicazione invece, o prima, che dell’etica della guerra e della spietatezza delle politiche sui migranti.

Leggo le motivazioni pro e contro la pubblicazione di quell’immagine scritte dai direttori di giornali italiani e stranieri, scorro su Facebook centinaia di post pro e contro scritti da chiunque. Ci sono da un lato molte buone intenzioni pedagogiche: quella foto squarcia un brandello di realtà, allerta il sonno della ragione, scuote le coscienze, può dare fastidio solo a chi non vuole vedere quello che accade.

Dall’altro lato molte preoccupazioni altrettanto pedagogiche, e più o meno consciamente difensive: quella foto è sciacallaggio mediatico, pornografia della morte, abuso irrispettoso di minore e di cadavere; non serve a sensibilizzare chi alza muri, fornisce solo un alibi compassionevole a chi non regge il peso della colpa; esaspera la ridondanza di immagini che accompagna come un’arma di distrazione di massa la tragica odissea dei migranti; alimenta la catena del voyeurismo che dall’ossessione del selfie al consumo macabro della morte non risparmia più niente e nessuno.

Ma siamo sicuri? Nella (in)civiltà delle immagini, non tutte le immagini sono uguali, non tutte sono incorniciate allo stesso modo, non tutte si prestano allo stesso consumo; nessuna, probabilmente, ha il potere di educare o di formare chi le guarda, ma ciascuna tocca corde sopite e mute della nostra sensibilità; moltissime si sommano nel flusso indistinto della ridondanza mediatica, ma alcune hanno viceversa il potere di sospenderlo. E questo precisamente è il caso, o almeno così a me pare, della foto di Bodrum.

Da mesi, ormai anzi da anni, siamo quotidianamente investiti da raffigurazioni della cosiddetta “emergenza migranti” che non fanno che alimentare e confermare la percezione più stereotipata e fobica di una invasione massificata e indistinta, aliena e potenzialmente violenta. Foto di barconi stracolmi e vacillanti, foto di carovane che forzano i confini, foto di corpi provati, foto di cadaveri galleggianti senza nome e senza sepoltura, compresi i cadaveri di bambini scaraventati su Internet da una valanga di post, questi sì senza alcuno scrupolo né pudore; foto di occhi che ci guardano sperduti e muti all’arrivo su una terra promessa e ostile. Il messaggio è sempre lo stesso, un’odissea di massa senza nomi e senza storie che preme con la forza inarrestabile della “loro” quantità sulla “nostra” impotenza di spettatori senza qualità.

La foto di Bodrum è l’esatto contrario. C’è un bimbo, solo, riverso su quella riva; potrebbe essersi addormentato con i vestiti ancora addosso, i bambini spesso dormono in quella posizione, invece non si sveglierà mai più; potrebbe essere stato su quella spiaggia a giocare, invece giace lì come un relitto, simbolo incarnato di una condizione umana inerme, esposta e appunto derelitta. Non ci minaccia con la forza anonima di una massa aliena, ci interroga con la potenza singolare e perturbante, direbbe Freud, di qualcosa di familiare che ci si mostra inaspettatamente in una forma straniata. Come pure il militare che lo prende fra le braccia non evoca forze dell’ordine schierate a difesa di un confine, ma al contrario il gesto di pietà di un uomo disarmato che si sporge a soccorso di un altro, un gesto che chiunque di noi, ciascuno e ciascuna di noi, sarebbe chiamato a ripetere dalla tragica odissea dei profughi. Lo scatto della testimone, infine, non consegna la scena al tritacarne mediatico: riconsegna piuttosto quel bimbo al suo nome, alla sua storia, al suo diritto alla sepoltura, e al nostro dovere di riconoscere quel nome, quella storia, quel diritto.

Sono tutte singolari le foto che, come si ricorda in queste ore, hanno cambiato la nostra percezione dei grandi eventi storici. Una era la ragazza vietnamita che scappava nuda dalle bombe al napalm, una la donna rivestita di polvere che emergeva dalle macerie delle Torri gemelle, uno il ragazzo di fronte ai carri di Tienanmen, una l’aguzzina di Abu Ghraib (lo sanno bene gli strateghi della comunicazione dell’Isis, che infatti ci provocano perversamente con la serialità delle decapitazioni individuali). Queste foto ci ricordano che la Storia è fatta di storie, che ogni nostro singolo gesto ne risponde, che la condizione umana, universalmente vulnerabile ed esposta alla violenza dell’altro, si incarna nella vulnerabilità di ciascuno e ciascuna, e la salvezza può venire solo dallo sguardo dell’altro che la raccoglie e dal gesto dell’altro che la accoglie.

Queste foto non si mettono al posto dei fatti, li evocano invece senza scampo; non accompagnano il flusso della pornografia mediatica, lo interrompono invece e lo sospendono. Forse non arrivano a educare la nostra ragione, ma nemmeno ci parlano solo al cuore: si installano nei nostri sensi, aprendoli a quel perturbante da cui ci ostiniamo a difenderli con muri e confini tanto possenti quanto inutili e fragili.

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Se servisse la tua immagine, bambino mio…

La Redazione di Combonifem

Se servisse la tua immagine sulla spiaggia, bambino mio, per scuotere gli animi, far capire l’orrore, aprire le frontiere, organizzare navi che traghettino la disperazione da un lato all’altro del mare, la pubblicheremmo ogni giorno. Passeremmo notti intere a tappezzarne i muri delle città, le ambasciate e le chiese, i palazzi istituzionali e le scuole. Cosicché l’orrore di vederti disteso con quella tua magliettina rossa e pantaloncini blu, quei capelli che sembrano pettinati dalla mano compassionevole del mare, possa cambiare lo scorrere degli eventi, evitare che la tua morte e tantissime altre avvengano ancora.

Se servisse l’immagine di quel tuo sonno eterno, adagiato su un arenile di un’estate in cui il mare è gioia di schiamazzi di bimbi che si rincorrono, di castelli di sabbia, di nuotate e sole, passeremmo le giornate a inviare mail affinché tutti la condividessero quella ultima parte del tuo viaggio, affinché (come già sta accadendo sui social) diventi virale. Ma sai, bambino mio, pochi giorni fa circolavano foto di altri corpicini come il tuo e non è accaduto nulla.

Nulla ha evitato che altri bimbi come te, più fortunati di te, venissero marchiati con dei numeri, riportando alla memoria altre storie e dolori. Nulla ha evitato che si continuino a innalzare i muri, che uomini, donne e minori si rimpallino, come oggetti sgraditi, da un Centro di “accoglienza” a un altro, tra Paesi europei che si puntano il dito l’un l’altro per stabilire a chi tocchi farsi carico di altri numeri…

Oggi, diversi giornali pubblicano la tua foto, i direttori delle testate cercano di giustificare la scelta. Una giustificazione che nasce dall’intima consapevolezza che non è giusto. Dicono che è una foto che scuoterà l’Europa, shoccherà i potenti. Affermano che così non si potrà dire non sapevamo, che non si potrà più far finta di nulla. A noi pare che occorra pietas, che occorra ricordarsi che la morte necessita dignità sempre, che se fossi davvero un bimbo dei “nostri”, se ti vivessimo come tale, sentendo empatia e rispetto nei tuoi confronti, non saresti in prima pagina e non ci sarebbero parole per avvalorare una scelta differente.

Ancora si è convinti che una foto possa scuotere. La verità è che di foto, in questo tempo, ne abbiamo viste tante. E tutte ci hanno straziato il cuore. Tutte, compresa la tua. E ogni volta il senso di vuoto e impotenza, la sensazione di pugno allo stomaco è andata aumentando. Ma sai, bambino mio, niente è cambiato. Sembra che l’asticella dell’esposizione al dolore si possa alzare sempre di più. E la nostra paura è che arrivi un domani in cui esporre un piccolo corpo non provochi più alcun dolore, che l’assuefazione abbracci anche quel che di più caro ha questo mondo: le bambine e i bambini.