Bergoglio il restauratore, l’amore cristiano e l’etica del dolore di M.Riccio

Mario Riccio, Consulta di Bioetica sezione di Milano
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Il Papa è malato? O meglio è portatore di un piccolo tumore cerebrale benigno e, per quanto appare, al momento fortunatamente asintomatico? Probabilmente non lo sapremo mai. Certo è difficile – anche al netto delle smentite ufficiali – che un gruppo editoriale si avventuri nella pubblicazione di una falsa notizia per di più su un tema – la salute personale di un personaggio pubblico di tale caratura – che potrebbe condurre in rovina non solo di immagine ma soprattutto economica lo stesso editore all’esito di una causa giudiziaria, unica azione che potrebbe chiarire la vicenda. Ma il Vaticano non promuoverà mai una azione legale, ovviamente adducendo nobili motivazioni di totale distacco dalle volgari cose terrene.

Ma non è questo che ci interessa. Nello stesso giorno della pubblicazione di quella notizia, il Papa -nel corso dell’udienza del mercoledì- ha invece indicato un precetto assai importante in materia bioetica. Ha detto testualmente : «Portare con gioia la croce della sofferenza della malattia», parlando del suo predecessore Karol Wojtyla, di cui tutti noi ricordiamo l’evoluzione della patologia e le decisioni assunte – invero assai discusse e a tratti apparse ondivaghe – alla fine della sua vita. Ora, quanto detto da papa Francesco ci è stato poco o per niente sottolineato dai mass media, travolti invece dalle considerazioni della notizia sul suo stato di salute. A prescindere che potrebbe invece essere interpretato come un chiaro messaggio sulla sua stessa attuale condizione, è importante la valutazione del contenuto, peraltro assai esplicito. La sofferenza che spesso si accompagna alla malattia, lungi dal dover essere maledetta, allontanata, rifiutata, combattuta “deve essere portata con gioia”. Si noti appunto l’uso del verbo portare e non di sopportare. La differenza non è certo casuale ne irrilevante, peraltro utilizzata nella stesura di un testo scritto e non frutto di un improvvisato discorso a braccio. La malattia può sempre comportare,purtroppo, una quota pur residua di sofferenza,al netto di tutte le possibilità terapeutiche attuali anche e soprattutto in campo antalgico-palliativo. Il verbo sopportare, se fosse stato utilizzato, poteva fare riferimento a questa quota residua,diciamo così, incomprimibile. Quella quota di sofferenza che la medicina non riesce comunque ad eliminare,pur avendoci provato,sopportiamola con gioia e non lamentiamocene.

Ma qui si parla di “portare” che vuole significare che il dolore legato alla malattia sia di per se un valore buono, positivo, espiatorio. Pertanto non è considerata l’idea di tentarne pertanto la riduzione se non l’eliminazione, ma addirittura è da esibire, mostrare, vantare cioè appunto da portare con gioia come avrebbe fatto, secondo papa Francesco, il santo Wojtyla. È un ritorno all’etica del dolore osservata fino a metà del secolo scorso, a voler essere indulgenti. Cioè fino alle famose parole di Pio XII che nel 1956 disse che il dolore nella malattia doveva essere abolito perché non era un valore positivo, buono, né utile in alcun modo ad un cristiano. Evidentemente invece nella interpretazione di Bergoglio la malattia non è un evento legato alla ineluttabile caducità, fisicità dell’organismo, ma diventa un banco di prova, una sfida che ci viene offerta per verificare la nostra capacità di sopportare quanto il destino ci assegna. Se saremo capaci di affrontare questo dolore con gioia, forse potremo anche noi aspirare alla beatitudine. Cosa penserà allora un malato se, pur credente, ha scelto di affidarsi alle cure palliative e pertanto di combattere la sofferenza legata all’evoluzione della sua malattia? E un malato, purtroppo alla fine dei suoi giorni, che magari ha deciso di scegliere per sé la sedazione palliativa o terminale che prevede l’abolizione quasi completa della coscienza appunto per abolire del tutto le residue sofferenze?
Papa Bergoglio appare sempre più combattuto tra slanci di apparente apertura verso la modernità e la necessità di accontentare la parte più conservatrice delle gerarchie vaticane che evidentemente sono al momento – al netto dell’apparenza mediatica – prevalenti.