Come si decide nella chiesa? di F.DeGiorgi

Fulvio De Giorgi
www.viandanti.org

Come si decide nella Chiesa? Si vota come in Parlamento? I lavori del Sinodo hanno richiamato l’attenzione su un aspetto antico quanto la stessa Comunità ecclesiale. Ma nonostante si tratti di una questione di lunga tradizione, non sempre le idee sono chiare. E si capisce: nei secoli la storia umana ha visto modificarsi i sistemi per le decisioni collettive: sempre meno impositivi da parte di chi detiene più forza e sempre più democratici. Si è visto che invece di spaccare le teste è meglio contarle.

La Regola di san Benedetto

E nella Chiesa? Certo la Chiesa è nella storia umana e accoglie il meglio del progresso umano: ma ha un suo profilo, di comunità religiosa. Merita, dunque, che ci soffermiamo non sulle procedure tecniche e sulle normative giuridiche ma sui principi ideali. Ecco allora che fin dai primi secoli, con la Regola di san Benedetto (scritta nel VI secolo ma impostasi generalmente soprattutto dall’VIII), nelle indicazioni sull’elezione dell’abate – al n. 64 – emerge una visione che poi sarà, dal XII secolo, la via principale per le decisioni ecclesiali: maior et sanior pars, decide la parte maggiore e più saggia della comunità. In un’unica indicazione sono, in realtà, compresi due principi diversi: il principio maggioritario e il principio sanioritario. Nelle decisioni ecclesiali le due parti, idealmente, coincidono: i più saggi sono anche la maggioranza. Ma siccome nella pratica non sempre è così, allora il principio sanioritario integra, conferma e perfeziona quello maggioritario.

Interpretare la voce del Popolo di Dio

Ma cosa si intende con questi due principi, sul piano ecclesiale, che è quello che ora ci interessa (anche in riferimento ai lavori del Sinodo)? Il “principio maggioritario” si riferisce ovviamente ad una decisione che trova l’appoggio del maggior numero dei membri di un consiglio (sia esso un’assemblea comunitaria, un consiglio pastorale, un sinodo, un concilio), ma non significa banalmente che la maggioranza vince. Occorre che l’orientamento maggioritario si formi in un vero spirito ecclesiale e non in uno spirito umano. Ecco perché papa Francesco ha detto ai membri del Sinodo: “il Sinodo non è un parlamento, dove per raggiungere un consenso o un accordo comune si ricorre al negoziato, al patteggiamento o ai compromessi”. Nell’assemblea ecclesiale cioè, tanto più se di Pastori, non si manifestano opinioni collettive, non si formano gruppi strutturati di opinione, correnti organizzate, insomma partiti che ingaggiano un braccio di ferro, contrattano, mirano a spartizioni di potere. Ogni membro è solo davanti alla propria coscienza ed esprime il proprio parere (ed eventualmente il proprio voto) da solo: non in base ai suoi personali convincimenti, non affermando quello che lui pensa o tanto meno quello che è il suo beneficio, ma in base a ciò che, in coscienza, ritiene sia la volontà di Dio, interpretando la voce del suo popolo che lo Spirito gli fa conoscere. È molto diverso.

Recuperare la collegialità

Nell’età moderna, dopo il Concilio di Trento, si è progressivamente affievolito lo stile sinodale e conciliare delle decisioni ecclesiali: i vescovi si vedevano poco, si riunivano non frequentemente (dal XVI secolo si è aspettato il XIX per avere un altro Concilio). Si è così prodotta quella che il beato Rosmini nella sua opera Delle Cinque Piaghe della Santa Chiesa indicava come la “piaga del cuore” e cioè la disunione dei vescovi. Per superarla non c’era che la via della collegialità, della communio hierarchica. L’incontrarsi, il pregare insieme, il dialogo fraterno prevengono la disunione dei vescovi: come si può ben vedere dal lavoro dell’attuale Sinodo. Ma se il male dovesse entrare nel cuore di alcuni e alimentare, pur nella collegialità, uno spirito di fazione che vede gli altri, portatori di altre idee, come eretici, che assolutizza solo il proprio punto di vista e cerca di costituire ‘cordate’ per farlo prevalere?

Il principio della sanior pars

Ecco allora che interviene il “principio sanioritario”. La sanior pars, la parte più saggia, non vuol dire la più saggia secondo il mondo ma secondo Dio: non sono i più intelligenti o i più colti, i grandi teologi o i raffinati canonisti. Sono coloro che lo Spirito ha chiamato ad un ministero di discernimento e di conferma. Nel caso di un Consiglio pastorale diocesano o del Capitolo di una cattedrale la sanior pars è il Vescovo. Nel caso del Sinodo è il Papa. E vuol dire non solo che il papa ha l’ultima parola nel tirare le fila del Sinodo portando a decisioni comuni. Vuol dire, soprattutto, che egli segue i lavori del Sinodo con spirito di discernimento, per ‘sentire’ la voce della sanior pars, che non è la sua, ma che egli distingue: può essere espressa anche da un solo Padre, in assoluta minoranza, ma nelle cui parole il papa sente lo Spirito. Questo è il compito sanioritario del ministero petrino: cum Petro et sub Petro.

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Etica e prassi di Papa Francesco

bezzicante
http://ilsaltodirodi.com – 10/08/2015

Prima che lo notiate voi lo segnalo io: nel titolo non c’è la parola ‘teologia’, e neppure ‘catechesi’ o altre più specifiche dell’essere cristiani e diffondere la parola di Dio o di Gesù. Perché io non sono un teologo e non sono in grado – e neppure interessato – a discutere se sia questo Papa teologicamente più o meno “bravo” (in relazione a cosa?), più o meno “fedele” ai testi sacri e questioni di questo genere. Comprendendo benissimo che questa è invece proprio una discussione centrale per i credenti, non intendo sminuirla né sottovalutarne le conseguenze sociologiche, se capite cosa intendo. Semplicemente qui non ne parlo perché ho un rovello assolutamente laico, che intendo affrontare sotto un profilo strettamente laico; e il rovello è il seguente: al netto della qualità teologica, questo Papa è davvero rivoluzionario, nuovo, affascinante? Detto in altri termini: ha un messaggio anche per me laico, questo Papa? Poiché io penso di no, e leggo sempre più di illustri politici e commentatori, semmai di sinistra, fulminati sulla via di Francesco, mi chiedo seriamente cosa io non abbia capito. O cosa loro credono di avere capito.

Intraprendo la mia riflessione dall’ultimo elogio che ho incontrato, quello di Mario Calabresi che sul Corriere scrive fra l’altro:

È vero, c’è un crescente stupore verso questo Papa che parla più di povertà, di ambiente e di emarginazione che di matrimoni gay, aborto o fecondazione. A me non stupisce, anche se sono colpito dalla capacità di quest’uomo non più giovane di essere protagonista del nostro tempo. Francesco ha completamente archiviato il Novecento, non si preoccupa di essere accusato di comunismo – visto che il comunismo non appartiene più alla cronaca, ma è archiviato nella Storia – ma si preoccupa di parlare a nome di coloro che non hanno voce: poveri, diseredati, vecchi e bambini. Ha capito che non ci sono più partiti politici o movimenti che se ne occupano e allora viene da chiedersi: ma chi dovrebbe farsene carico se non chi deve annunciare il Vangelo?

Fra gli altri elogi trovate facilmente la sua riforma della Chiesa (strutture e gerarchie) che tanto spaventerebbe il vecchio establishment e una quantità di gesti e dichiarazioni eclatanti che molti commentatori hanno bollato di populismo. Occorre dire che per ogni elogio trovate facilmente anche critiche, e questo fatto la dice lunga sulla difficile interpretazione, oppure sull’ambigua interpretazione, che di Papa Francesco si riesce a dare.

Non penso assolutamente di analizzare singole dichiarazioni e comportamenti del Papa. Vorrei invece trovare una sorta di regola generale che ci consenta di analizzarli con un metodo non improvvisato. La regola credo la si possa trovare nel rapporto fra etica e prassi (da cui il titolo di questo articolo) e nell’eventuale primato che si potrebbe stabilire entro questa coppia concettuale che però, prima di tutto, devo definire. E comincio da ‘etica’.

Etica è un insieme coerente di princìpi e valori con finalità pratiche, di guida a un comportamento giudicato – in base a quei princìpi e valori – buono, o comunque migliore di altri. Evidentemente l’etica orienta l’organizzazione della giustizia e della politica, dalle cui sfere comunque deve mantenersi distinta, la medicina e la salute (specie in epoca di inquietanti possibilità scientifiche – da cui la bioetica), il rapporto dell’uomo con l’ambiente e gli animali fino alle questioni di genere che recentemente occupano spesso le pagine dei giornali. Insomma, l’etica è l’insieme delle idee-guida che ci fanno giudicare il bene e il male, ciò che è giusto fare o no. Comprendete bene che il confine con l’ideologia è sottile e che quel confine è molto permeabile. L’etica è un insieme coerente e organico laddove l’ideologia si presenta frammentaria. L’etica è cornice robusta di società e culture durature nel tempo (e quindi anche della Chiesa) dove l’ideologia si propone come valori di una parte e facilmente soggetta a mutamenti.

La prassi, invece, è l’attività concreta contrapposta a quella teorica e speculativa. L’uso del termine |prassi| anziché ‘pratica’ o altri ha a che fare con origini filosofiche alle quali sono legato, può anche non piacervi, l’importante è che ne cogliate il significato. Il problema che ci poniamo ora è se il primato sia sull’etica o sulla prassi; quale venga prima; quale determini l’altra. Anche qui rifacendomi a tradizioni filosofiche non più recentissime, ma che attraversano significativamente sia l’idealismo che il marxismo (in Italia almeno), vorrei segnalare che pur in un rapporto composito e complesso il primato spetta all’etica. Sono i nostri princìpi e valori che modellano la nostra società (il modo di prendere decisioni, il modo di somministrare la giustizia, il modo di educare i figli…), e in base ad essi si agisce (si costruiscono modi concreti di decisione politica; si redigono Codici per somministrare operativamente la giustizia; si stilano programmi scolastici per le scuole…). L’etica è il pensiero che guida la prassi, anche se quest’ultima retroagisce in vari modi modificando l’orizzonte culturale e valoriale di una società.

Ritorno velocemente a Papa Francesco; la sua prassi appare a qualcuno straordinaria; il linguaggio che utilizza, i simboli che propone, le bacchettate a certa gerarchia ecclesiastica, le docce per i poveri… Sono la conseguenza di un’etica che in molti ammirano, e va bene così, ma un’occhiata più attenta a quell’etica (a quei princìpi, valori) mostra che non è cambiato un gran ché rispetto ai suoi predecessori. Non assistiamo a nessuna reale (operativa, fattiva, con delle conseguenze pratiche) concessione sulla sessualità e sul controllo delle nascite, per esempio, neppure di fronte alla bomba demografica africana e alla diffusione dell’AIDS in aree in cui solo il massiccio uso di preservativi potrebbe limitare malattia e morte. Non assistiamo a nessunissima concessione sui temi della vita e della morte, dall’aborto all’eutanasia. Assistiamo a contraddittorie dichiarazioni sugli omosessuali, che saranno pure fratelli ma, insomma… Qualcuno ritiene che il Papa sia frenato da ambienti conservatori; potrebbe essere così e questo evidentemente minerebbe l’iconografia ufficiale del Papa rivoluzionario.

In verità, Papa Francesco ha innovato poco sul piano dottrinale. I principi base della dottrina sociale della chiesa nella società ed economia moderne si sono aggiornati, ma non stravolti nei quasi 125 anni trascorsi dall’enciclica Rerum Novarum di Leone XIII (1891); […]. Bergoglio è teologicamente e politicamente un centrista che passa per un estremista per la testimonianza di vita che ha sempre dato e per averlo fatto in America Latina, continente più di altri soggetto a letture ideologiche contrapposte (sia ideologie politiche che religiose) (Massimo Faggioli, Un crocefisso falce e martello per Papa Francesco, “L’Huffington Post”, 9 Luglio 2015).

Vorrei ricordare brevemente al mio lettore che non sto giudicando il Papa secondo il mio metro. Non sto dicendo che “per essere bravo deve approvare l’aborto”. Il Papa approva quel che gli pare, la Chiesa fa quel che crede giusto; le persone a cui vanno bene tali scelte seguono la Chiesa e il Papa e coloro a cui non vanno bene fanno altre scelte. Non è questo il tema del presente articolo; il tema è che non si capisce l’entusiasmo di chi vede aperture straordinarie o profetiche da parte di un Papa che non sta cambiando il solco fondamentale dell’etica cattolica degli ultimi secoli ma semplicemente mostrando gesti e simboli circoscritti interessanti sotto certi profili (i diritti dei poveri, per esempio) ma coerenti con la dottrina sociale della Chiesa. Ci si può stupire che il richiamo a origini cristiane di umiltà e povertà appaiano solo ora e approvare che finalmente – meglio tardi che mai! – Bergoglio faccia sue queste radici; si può approvare una certa tolleranza verso temi sociali sensibili (come verso gli omosessuali, i divorziati) che solo la parte più stolida e ottusa del cattolicesimo si ostina a negare; si può osservare una qualche sottolineatura verso il mondo femminile che però non cambia di una virgola la concezione subalterna della donna nel cattolicesimo; tutto questo ci può far sperare in una maggiore comprensione e migliore convivenza fra laici e cattolici, ma la radice, la fonte dell’etica (e della conseguente prassi) non è cambiata, almeno non finora. Un’etica che include, in un disegno organico e coerente, sia la lotta alla povertà sia la difesa della vita, sia il contrasto di inattuali privilegi ecclesiastici sia la difesa della famiglia “naturale”, foss’anche con una cristiana tolleranza verso chi sbaglia e cade in peccato.

In conclusione posso capire una simpatia per la novità (eminentemente comunicativa) di Papa Francesco, e potrei capire anche un’alleanza fra forze politiche laiche o di sinistra e questo Papa, almeno su alcuni limitati terreni (come auspica Bertinotti, che però si spinge molto più avanti), ma non sono in grado di condividere questo abbraccio semplicistico e superficiale – a mio avviso – verso un Papa che non ha spostato di un millimetro la Chiesa del Novecento verso la società del terzo millennio e i suoi problemi nuovi e drammatici.