Guerre, religione e religioni di M.Vigli

Marcello Vigli
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I recenti eventi di Parigi hanno riproposto l’annoso tema del rapporto fra religione e guerra, facendo risuonare l’appello “Dio lo vuole” delle crociate che sembrava superato dai tempi della guerra dei trent’anni: questa nata come guerra di religione era poi tornata ad essere quella di sempre.

La guerra come scontro violento fra società organizzate in Stati per contendersi lo sfruttamento di risorse limitate, il possesso di territori funzionali all’esercizio di particolari interessi, il godimento di più favorevoli condizioni climatiche. Nel tempo il conflitto bellico ha assunto forme diverse in rapporto alle trasformazioni introdotte dalla innovazioni, prima semplici, poi sempre più sofisticate e lo scontro è diventato sempre più violento e distruttivo. A dichiarare lo stato di guerra erano i governi e a combatterle, quando i loro eserciti mercenari non bastarono più, furono coinvolte le masse popolari in nome degli “interessi nazionali”, della “difesa della patria”, del “trionfo del socialismo”, della “difesa della libertà”. In aggiunta Roosevelt tornò ad inserire, fra le quattro da opporre al totalitarismo nazifascista, la libertà di culto e lo stesso Stalin avviò la ridefinizione del ruolo del Patriarcato di Mosca per ottenerne l’appoggio.

Così è stato fino ai giorni nostri quando l’interventismo atlantico in Medio Oriente, in funzione antisovietica prima e antiraniana poi, ha sconvolto i fragili equilibri etnico politici nati dopo Versailles: qui la guerra non è più la guerra. Si confonde con la lotta fra ricchi e poveri e diventa scontro fra etnie abitanti in uno stesso territorio mettendone in discussione le strutture statali e rilanciando il ruolo della funzione identitaria della religione: dell’islamismo in particolare e delle sue divisioni interne. Le varie confessioni e fazioni ricavano dal Corano quello che serve a giustificare le loro scelte e ad esso dichiarano di ispirarsi.

Come in tutte le scritture, dai Veda all’Antico testamento ai Vangeli, si possono leggere tesi spesso contrastanti fra loro che permettono, a chi le fa sue, di agire in modi talvolta radicalmente diversi.

Così la guerra di religione non è fra religioni, ma al loro interno.

Al tempo stesso fedeli di diverse religioni si ritrovano sempre più frequentemente in manifestazioni per la pace.

Simbolica a Venezia è stata la co-presenza del presidente della comunità islamica l’Imam Hamad Al Mohamad, del Patriarca cattolico Francesco Moraglia e di Scialom Bahbout, rabbino capo della comunità ebraica, al funerale della giovane Valeria Solesin, la vittima italiana della strage di Parigi. Significativa la solenne dichiarazione del primo: Valeria è come se fosse una nostra figlia. Siamo presenti oggi per dire che non è stata uccisa in nome del nostro Dio né in nome della nostra religione, né in nostro nome. In sintonia con lo slogan delle manifestazioni promosse contro l’Isis a Roma e a Milano: Notinmyname: È un dovere condannare violenza e terrorismo.

Si conferma che i diversi possono non sentirsi nemici, la religione li rende tali solo se viene strumentalizzata per arroccamenti identitari di segno uguale e contrario.

Grande quindi è la responsabilità di coloro che ne professano una e ancor più grande quella dei suoi rappresentanti autorevoli, che non sono credibili se attribuiscono alla loro fede i loro comportamenti perché non ne sono una conseguenza necessaria… indipendentemente dalle loro dichiarazioni.

Forse il rapporto fra religione e guerra va ripensato.