Si spengono i riflettori, ma non la rivolta dei giovani palestinesi di I.Colanicchia

Ingrid Colanicchia
Adista Notizie n° 1 del 09/01/2016

Nonostante il calo dell’attenzione mediatica internazionale possa far pensare il contrario, la rivolta dei giovani palestinesi scoppiata in ottobre è lungi dall’essersi spenta e registra anzi un crescente consenso tra la popolazione. Secondo un sondaggio del Palestinian Center for Policy and Survey Research, condotto in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza tra il 10 e il 12 dicembre – a ridosso di un’intensa fase di scontri –, il 67% della popolazione sostiene le proteste in corso, compresi gli accoltellamenti, e in assenza di negoziati di pace il 60% dei palestinesi vedrebbe con favore il ritorno ad un’Intifada armata: tre mesi fa questa cifra era pari al 57%.

Ancora più velocemente del consenso cresce però il numero di morti e feriti: il bilancio muta di giorno in giorno, ma al momento in cui scriviamo sono circa 140 i palestinesi uccisi dal 1° ottobre e circa 20 le vittime israeliane.

Oltre che al cronicizzarsi della situazione, lo scemare dell’interesse mediatico è da attribuirsi anche ai fatti di Parigi del novembre scorso che, insieme alle conseguenze sullo scacchiere internazionale, hanno fagocitato quasi ogni altro argomento sui principali mezzi di informazione.

Gli attentati di Parigi hanno giocato anche un altro ruolo in questo contesto, essendo stati sfruttati dal premier israeliano Benjamin Netanyahu per tentare di demonizzare – ancora una volta e ancora di più – la protesta palestinese, paragonandola al terrorismo del sedicente Stato islamico. All’indomani della strage – come già aveva fatto nel gennaio scorso dopo l’attentato al Charlie Hebdo – Netanyahu ha infatti equiparato le vittime israeliane a quelle francesi invitando a non fare distinzioni «fra tipi diversi di terrorismo»: vale a dire a non fare distinzioni tra l’Intifada in corso contro l’occupazione e il terrorismo dell’Isis. «Chiunque condanni gli attacchi in Francia deve condannare quelli in Israele: è lo stesso terrore. Chi non lo fa è ipocrita e cieco», ha ribadito a qualche giorno di distanza in riferimento ai due attacchi armati in cui il 19 novembre sono rimaste uccise cinque persone: tre israeliani, un cittadino statunitense e un palestinese. «Dietro questi atti di terrorismo – ha aggiunto in quell’occasione – c’è l’islam radicale che cerca di distruggerci, lo stesso che colpisce a Parigi e minaccia tutta l’Europa». Un ritornello che in queste settimane è tornato a ripetere più e più volte, nel tentativo di far passare il messaggio che i giovani palestinesi non abbiano alcun valido motivo per protestare e che gli attacchi di questi mesi siano da considerarsi alla stregua dell’offensiva del cosiddetto Stato islamico.

Nel montante clima di islamofobia, il governo non ha perso tempo e a pochi giorni dagli attentati di Parigi ha pensato bene di dichiarare “illegale” il braccio settentrionale del Movimento islamico in Israele, guidato dallo sceicco Raed Salah (notizia che il quotidiano progressista Haaretz ha non a caso titolato “Paris Attacks Give Netanyahu Cover for Islamic Movement Ban”). «Lo Stato d’Israele si muove dalle parole ai fatti: stiamo distruggendo le case dei terroristi, revochiamo gli status di residenza e questa mattina abbiamo messo fuori legge il ramo settentrionale del Movimento islamico», è stato il commento del ministro dell’Educazione e leader del partito Casa Ebraica, Naftali Bennett (Jerusalem Post, 17/11). Israele, ha detto ancora in quell’occasione, «guida il mondo libero contro l’islam radicale»: «Noi non proviamo a spiegare il terrorismo, non parliamo con i terroristi. Noi lo combattiamo seriamente e vinceremo».

E in questo clima certo non aiutano le dichiarazioni del leader dell’Isis, Abu Bakr al-Baghdadi, che il 26 dicembre ha diffuso un audio messaggio nel quale lancia minacce a Israele: «La Palestina non sarà la vostra terra né la vostra casa, ma il vostro cimitero», le sue parole: «Allah vi ha raccolto in Palestina perché i musulmani vi uccidano». «Gli ebrei – ha detto ancora – pensavano che avessimo dimenticato la Palestina e pensavano di essere riusciti a distrarre la nostra attenzione. Assolutamente no. Molto presto, avvertirete la presenza dei combattenti del Jihad».

Tra il popolo palestinese però il sedicente Stato islamico non riscuote grandi consensi: secondo il sondaggio del Palestinian Center for Policy and Survey Research, l’88% della popolazione ritiene che l’Isis non rappresenti affatto il vero islam.

Repressione collettiva

La messa al bando del Movimento islamico in Israele non è che la punta di un iceberg. Se già in tempi che siamo soliti definire di “pace” Israele rende impossibile la vita ai palestinesi al di qua e al di là dei propri confini, figurarsi ora. Tra omicidi extragiudiziali e punizioni collettive, la repressione prosegue infatti a ritmo serrato e non risparmia niente e nessuno. In poco meno di due mesi e mezzo (dall’inizio dell’Intifada al 10 dicembre scorso), secondo l’organizzazione palestinese per i diritti umani Addameer, le forze di occupazione israeliane hanno condotto nei Territori occupati una campagna di arresti di massa che ha portato in carcere più di 2.200 palestinesi, inclusi 399 bambini: una media di 30 palestinesi al giorno.

Il 15 dicembre la portavoce dell’alto Commissariato delle Nazioni Unite per i diritti umani, Cécile Pouilly, è intervenuta denunciando l’uso eccessivo della forza da parte israeliana e richiamando in particolare l’attenzione sulla zona H2 dell’area di Hebron (sulla base degli Accordi di Oslo e del Protocollo di Hebron, firmato nel 1997, la città è divisa in due settori: il settore H1 controllato dall’Autorità palestinese e il settore H2 controllato da Israele) dove, dal 1° ottobre a metà dicembre, sono stati registrati 16 presunti attacchi contro israeliani, e dei 17 palestinesi coinvolti, 16 sono stati uccisi, o feriti e arrestati.

Il trattamento riservato agli abitanti di Hebron è emblematico. Come racconta la giornalista israeliana Amira Hass (Haaretz, 10/11), a fine ottobre l’Amministrazione Civile israeliana in Cisgiordania ha richiesto che i palestinesi residenti in alcuni quartieri della città vecchia di Hebron fossero registrati in una categoria speciale: residenti permanenti. A ciò si è accompagnato un ordine dell’esercito israeliano che dichiarava questi quartieri area militare chiusa in cui non sarebbe stato permesso ai palestinesi di entrare a meno che potessero provare di abitare lì. Chiunque non si fosse volontariamente registrato presso i soldati ai checkpoints ha subìto un’incursione notturna nella propria casa, durante la quale i soldati e i funzionari dell’Amministrazione Civile hanno costretto i residenti a registrare il proprio status. Misure prese, secondo la versione ufficiale, per contenere l’escalation di violenza di cui Hebron sarebbe l’epicentro. Ma i palestinesi la pensano diversamente: queste misure, scrive Hass, rafforzano infatti «la loro opinione che Israele stia sfruttando la situazione per attuare un’ulteriore fase del progetto di svuotamento del centro di Hebron per insediarvi nuovi gruppi di coloni». A Hebron circa 600 coloni già vivono nel cuore della città. E qui la vita non è “normale” da un bel pezzo. Dal 1994, a seguito del massacro alla moschea di Abramo, in cui persero la vita 29 palestinesi uccisi da un colono estremista, Baruch Goldstein, e delle conseguenti proteste, Shuhada street, la via principale, un tempo fulcro della vita economica di Hebron, è stata chiusa al passaggio dei veicoli palestinesi. Dal 2000, ai palestinesi è vietato anche il passaggio pedonale. I negozi che affacciavano sulla strada sono stati chiusi, gli abitanti sfrattati, gli accessi alla strada murati.

Quale spazio per i diritti umani?

Difficile in questo contesto il lavoro delle ong palestinesi così come quello delle ong israeliane che si oppongono allo status quo, contro alcune delle quali nelle ultime settimane è partita anche una campagna denigratoria. Im Tirtzu, movimento sionista extraparlamentare di estrema destra – con amicizie nel Likud e in Yisrael Beitenu, come spiega su 972mag (15/12) Mairav Zonszein – noto per i suoi attacchi contro accademici e organizzazioni di sinistra, ha diffuso un video nel quale accusa i capi di quattro organizzazioni progressiste israeliane – The Public Committee Against Torture in Israel; Breaking The Silence; B’Tselem e Hamoked – di essere agenti stranieri impiantati in Israele allo scopo di aiutare il «terrorismo» palestinese.

E questo non è che l’ultimo attacco in ordine di tempo sferrato contro il gruppo di ex soldati di Breaking The Silence, bersaglio nelle settimane passate del premier, del ministro della Difesa Moshe Ya’alon e della polizia.

Il messaggio è chiaro, scrive su 972mag (16/12) Michael Schaeffer Omer-Man: «Non c’è spazio per l’idea che gli israeliani, in coscienza e senza alcun incentivo, possano essere turbati da un sistema giuridico differenziato su base etnica e religiosa. Né per l’idea che gli israeliani, motivati dai più universali valori liberali, possano voler formare organizzazioni che si oppongono all’uso della tortura da parte del proprio governo. Né c’è spazio per l’idea che gli stessi figli di Israele, i suoi soldati da combattimento inviati nei Territori occupati, possano avere rimorsi di coscienza e sentire il bisogno di parlare di quello che hanno fatto per il loro Paese. In breve – conclude – chi accusa le organizzazioni per i diritti umani di essere agenti stranieri sta dicendo che i diritti umani sono valori estranei alla società israeliana».