L’Anno Santo del Papa di M.Vigli

Marcello Vigli
Dialoghi Mediterranei n.23, gennaio 2017

Un papa che quest’anno ha raggiunto il suo ottantesimo anno di età avrebbe avuto diritto a viverlo tranquillamente, tanto più che ha appena concluso il Giubileo che lui stesso ha indetto. Un anno giubilare che ha visto milioni di pellegrini a Roma ai quali si devono aggiungere i fedeli che hanno lucrato le stesse indulgenze visitando, per la prima volta nella storia, le cattedrali di tutto il mondo. avuto questa sensibilità i quattro cardinali Walter Brandmüller, Raymond L. Burke, Carlo Caffarra, Joachim Meisner che, nel novembre scorso, gli hanno indirizzato una lettera per porgli polemicamente cinque domande di chiarimento su quelle, che hanno definito “ambiguità”, della sua Esortazione apostolica Amoris laetitia.

A tutt’oggi il papa non ha risposto direttamente mostrando di non avere dato importanza all’iniziativa, che invece, pur condivisa da alcuni, è stata stigmatizzata da numerosi prelati e teologi. In verità essa rappresenta la più clamorosa manifestazione delle resistenze e ostilità che da tempo stanno emergendo all’interno della Curia vaticana e della gerarchia cattolica. Ad esse papa Francesco oppone il suo rapporto continuo e cordiale con la base ecclesiale e con il mondo, specie degli umili. Il pranzo di compleanno l’ha condiviso con loro! Se non bastasse alla vigilia di Natale ha telefonato in diretta e a sorpresa alla trasmissione di Rai 1 Uno Mattina per augurare un «Natale cristiano, come fu il primo” quando, ha detto, Dio sovvertì l’ordine del mondo all’insegna della ‘piccolezza’ e facendosi Egli stesso ‘piccolo tra gli uomini». Un vero Natale, ha detto il Papa, contrapposto al Natale del Dio denaro.

L’aveva già ribadito nel suo discorso ai cardinali e ai superiori della Curia Romana, ricevuti per gli auguri natalizi: «Dio ha scelto di nascere piccolo, perché ha voluto essere amato. Ecco come la logica del Natale è il capovolgimento della logica mondana, della logica del potere, della logica del comando, della logica fariseistica e della logica causalistica o deterministica». Per non restare nel vago ha aggiunto fra l’altro che «come per tutta la Chiesa, anche nella Curia il semper reformanda deve trasformarsi in una personale e strutturale conversione permanente». Ha puntualizzato poi la sua idea di riforma della Curia: «È necessario ribadire con forza che la riforma non è fine a sé stessa, ma è un processo di crescita e soprattutto di conversione. La riforma, per questo, non ha un fine estetico, quasi si voglia rendere più bella la Curia; né può essere intesa come una sorta di lifting, di maquillage oppure di trucco per abbellire l’anziano corpo curiale, e nemmeno come una operazione di chirurgia plastica per togliere le rughe (…). Non sono le rughe che nella Chiesa si devono temere, ma le macchie!»

I cardinali autori della Lettera al papa

Francesco, che queste macchie vuole smacchiare, sa bene che deve incontrare, purtroppo, non solo difficoltà, ma anche resistenze, che si presentano in diverse tipologie da lui stesso ben individuate «le resistenze aperte, che nascono spesso dalla buona volontà e dal dialogo ‎sincero; le resistenze nascoste, che nascono dai cuori impauriti o impietriti che si alimentano dalle parole vuote del “gattopardismo” spirituale di chi a parole si dice pronto al cambiamento, ma vuole che tutto resti come prima; ‎esistono anche le resistenze malevole, che germogliano in menti distorte e si presentano quando il demonio ispira intenzioni cattive (spesso “in veste di angeli”). Questo ultimo tipo di resistenza si nasconde dietro le parole giustificatrici ‎e, in tanti casi, accusatorie, rifugiandosi nelle tradizioni, nelle apparenze, nelle formalità, nel conosciuto, oppure nel voler portare ‎tutto sul personale senza distinguere tra l’atto, l’attore e l’azione». Nella stessa occasione dopo avere chiarito che cosa è riforma e quello che non è, passa a definire i criteri per realizzarla e a ricordare i suoi provvedimenti già in atto, che non sono pochi, ma non hanno ancora inciso in modo determinante nella prospettiva da lui stesso aperta.

Più efficace è la sua azione nel promuovere l’ecumenismo, culminata il 31 ottobre nell’eccezionale partecipazione, nella città di Lund, alla giornata di celebrazione dei 500 anni della Riforma su invito della comunità dei luterani di Svezia. Già prima di lui Benedetto XVI era andato a Erfurt per incontrare quelli tedeschi, ma il gesto di Francesco va ben oltre il carattere di visita di cortesia. Rappresenta una vera e propria purificazione della memoria di Lutero. Non a caso è stata particolarmente criticata da chi pensa che lui, con questo più impegnativo incontro ecumenico, voglia “svendere” la dottrina cattolica, “protestantizzare” la Chiesa. Non avevano suscitato tanto scandalo i pur numerosi altri incontri a Lesbo con il patriarca Bartolomeo e Hieronymus, a Cuba con il patriarca di Mosca Kirill, con il patriarca Bartolomeo al Fanar di Istanbul per la festa di sant’Andrea, in Georgia con il patriarca Ilia, con il patriarca copto Twadros.

Ai suoi critici Francesco risponde che è «il cammino dal Concilio che va avanti, s’intensifica. Ma è il cammino, non sono io. Questo cammino è il cammino della Chiesa. Io ho incontrato i primati e i responsabili, è vero, ma anche gli altri miei predecessori hanno fatto i loro incontri con questi o altri responsabili. Non ho dato nessuna accelerazione. Nella misura in cui andiamo avanti il cammino sembra andare più veloce, è il motus in fine velocior, per dirla secondo quel processo espresso nella fisica aristotelica». Non si fa però illusioni; sa bene, infatti, che «nella storia della Chiesa la ricezione dei concili ha richiesto almeno un secolo per diventare dottrina comune e condivisa da tutta la Chiesa e ora dal Vaticano II sono passati solo 50 anni, la metà della media».

Il Papa a Lund incontra i Protestanti

Questo impegno per la riforma della Chiesa e per lo sviluppo del cammino ecumenico non lo ha distratto dal farsi protagonista nella costruzione di un pianeta più umano. Sempre più alta si leva la sua voce per chiedere giustizia e fratellanza fra i popoli e all’interno delle nazioni, denunciando con forza le condizioni che rendono la povertà così diffusa. Altrettanto attento è alle diverse situazioni in cui la guerra e la violenza impediscono nei diversi continenti a donne e uomini di vivere la loro vita e sviluppare i loro rapporti. Nel suo messaggio per la celebrazione della giornata mondiale della pace, che come ogni anno si celebra il 1 gennaio, ha confermato la necessità di crearne le condizioni promuovendo la non violenza: «In questa occasione desidero soffermarmi sulla nonviolenza come stile di una politica di pace e chiedo a Dio di aiutare tutti noi ad attingere alla nonviolenza nelle profondità dei nostri sentimenti e valori personali. Che siano la carità e la nonviolenza a guidare il modo in cui ci trattiamo gli uni gli altri nei rapporti interpersonali, in quelli sociali e in quelli internazionali. Quando sanno resistere alla tentazione della vendetta, le vittime della violenza possono essere i protagonisti più credibili di processi nonviolenti di costruzione della pace. Dal livello locale e quotidiano fino a quello dell’ordine mondiale, possa la nonviolenza diventare lo stile caratteristico delle nostre decisioni, delle nostre relazioni, delle nostre azioni, della politica in tutte le sue forme».

Forse i suoi oppositori interni dovrebbero riflettere su questo messaggio invece di contestarlo per qualche sua presentazione del messaggio cristiano che li disorienta, ma che in realtà è solo un po’ più adeguata ai nostri tempi.