Il “Manifesto” di Ortensio da Spinetoli

 

“Il vangelo è un libro scritto ma si scrive ancora e nessuno sa quale è l’ultima parola, ma ognuno è tenuto a conoscere quella che lui è chiamato a scrivere.  Le branchie nuove a cui va tradotto il vangelo sono l’ecologia, il rispetto della comune casa che tutti ospita, esseri e cose; la nuova antropologia, con tutti i problemi connessi (coppia, matrimonio, celibato, genetica); la pace, la fine della mentalità bellicistica ossia dell’uso delle armi per risolvere i problemi di giustizia o le contese ideologiche (guerre di religione).”

  1. Il vangelo: Ciò che Gesù ha fatto e detto Gesù è il mistero della chiesa di tutti i tempi; nessuna meraviglia che possa esserlo per l’uomo, il credente di oggi.

Cominciamo dalla sua esperienza storica, da Betlemme al Golgota; non entriamo direttamente sulla sua filiazione divina, né sul suo attuale stato di gloria (risurrezione).

Il problema fondamentale su cui occorre chiarirsi riguarda l’autentica condizione umana di Cristo che il NT ancora ricorda e che la predicazione, soprattutto nel passato, sembra ignorare. Gesù, viene ripetuto, è un perfetto uomo, ma sarebbe più giusto dire che è perfettamente umano, non solo con tutte le sue componenti anatomiche, ma più ancora con tutti i limiti, eccetto il peccato, della comune natura umana.

Se non è un uomo come tutti non può essere il redentore, il salvatore, l’antesignano della fede (Ebr 12, 2). Marco ricorda anche le sue arrabbiature (3,5-12; 4, 13,38,40; 8, 33; 10, 14; 11, 15-17), i suoi momenti di tenerezza (9, 3; 10, 21) che gli altri, nel processo di idealizzazione, hanno cercato di cancellare. Il Gesù degli Atti non appare calato dal cielo (cfr. Gv 1, 1-18) ma innanzitutto un comune essere umano. Pietro lo designa ai gerosolimitani come “quell’uomo che Dio ha accreditato” (2, 22), il servo, il santo, il giusto (3, 13, 14, 26). L’autore delle Lettera agli ebrei afferma che colui che santifica e coloro che sono santificati sono dello stesso rango (2, 11).

La cristologia è innanzitutto un problema di sana antropologia. Il discorso ha una valenza insostituibile quando si tratta di comprendere l’esperienza soprannaturale e soprattutto la missione di Gesù. Egli conosce se stesso, le sue relazioni con il Padre, il suo compito nel piano della salvezza attraverso la sua coscienza umana. Una conoscenza che cresce, matura con l’età, la riflessione, l’ascolto della parola, la voce dello Spirito, la preghiera e non è mai nitida, garantita, definitiva perché sperimentale.

Il confronto con il Battista, la chiamata battesimale, le tentazioni, il dramma del Getzemani e del Golgota (“Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?”) sarebbero incomprensibili o irrisorie se Gesù avesse usufruito di una particolare scienza o conoscenza gratuita e di una speciale “percezione” che non fosse quella oscura della fede.

Gesù ha svolto la sua missione non con al chiaroveggenza e potenza di un Dio ma con tutta la debolezza, la fragilità e fallibilità di un uomo. Ha accettato l’arduo cammino non perché gli era ben chiaro, ma perché ha voluto; “liberamente” si legge nel secondo canone della celebrazione eucaristica.

Se Gesù è il primogenito dei fratelli (cfr. Rm 8, 29; Col 1, 15; Ebr 1, 6; Ap 1, 5), se è uomo tra gli uomini può proporsi ai suoi seguaci e può dire onestamente ad essi: “Imparate da me” (Mt 11, 29) e Paolo può suggerire ai fedeli come loro massimo impegno l’imitazione di Cristo.

L’affermazione “Gesù nostro fratello” può essere sempre riproposta perché quello che egli ha cominciato a realizzare deve essere continuato dai suoi seguaci (cfr. Col 1, 24) chiamati a dare la loro vita o tratti di essa per l’attuazione del regno di Dio.

Gesù è innanzitutto un profeta potente in opere e parole (Lc 24, 19); Luca confessa di aver raccolto nel suo primo libro le operazioni e gli insegnamenti di Gesù (At 1, 1). L’impegno del salvatore è stato quello di spendere le sue energie, la sua vita per rappacificare gli uomini con Dio e tra di loro. “È passato facendo del bene e guarendo gli uomini dalle loro infermità” (At 10, 38).

Giovanni Battista attendeva i visitatori nella sua riserva nel deserto, una scelta che Gesù constata ma non condivide. Egli invece si mette a percorrere tutta la Galilea insegnando, predicando, guarendo (Mt 4, 23). Il suo ideale o sogno era liberare gli uomini dal terrore di Dio e dalla paura dei propri simili. Più che l’altissimo, il Signore, il giudice egli sente Dio come un amico, un benefattore, un Padre. Gesù non si sforza di cambiare gli indirizzi nelle scuole ma di instaurare un nuovo genere di rapporti tra gli uomini, tra tutti e con tutti; ebrei e non ebrei, giusti e peccatori. Egli non sa discriminare nessuno pur spinto per razza e per educazione a farlo, non opta per i suoi connazionali ma per l’uomo; è la grande scelta che lo distacca da tutti gli altri profeti. Il grano deve stare nel campo con la zizzania e i pesci buoni nella stessa rete dei cattivi (Mt 13, 30,47).

I mali che affliggono la società debbono scomparire e prima di tutto la povertà, il peccato, la malattia. La beatitudine promessa ai poveri è l’annunzio che il “Regno di Dio” è entrato nella storia, cioè un’era di felicità, di giustizia e di pace vige nel mondo di Dio. La prima beatitudine che Gesù proclama è la fine della povertà, come aveva annunziato il profeta Isaia (61, 1-3) e come egli stesso aveva ribadito nella sinagoga di Nazareth (Lc 4, 18-19).

“Dite a Giovanni quello che avete visto e udito: i ciechi vedono, gli storpi camminano, i lebbrosi sono guariti, i sordi riacquistano l’udito, i morti resuscitano, ai poveri è annunciata la buona novella” (Mt 11, 4-5). Il vangelo ossia la buona notizia che il povero attende è che la sua situazione cambi quanto prima. “Oggi” si è adempiuta questa profezia in mezzo a voi, ricorda Gesù ai suoi concittadini (Lc 4, 21); “oggi è nato per voi un salvatore”, ripete l’angelo ai (poveri) pastori di Betlemme (Lc 2, 11).

La predicazione, l’azione di Gesù è stata definita la prima rivoluzione sociale. Non è una definizione completa, ma non si può dire che non sia vera. Non ha lasciato i ricchi indisturbati nei loro domini (Lc 6, 24-26), né i potenti al sicuro nei loro troni (Lc 1, 51-5 ), ma ha chiesto agli uni la condivisione (Lc 11, 41; 18, 22) e agli altri il servizio (Mt 20, 28). Neanche l’osservanza del Sabato può schiavizzare l’uomo (Mc 2, 27). Un comportamento coraggioso, idealistico se non utopico, ma per i detentori del potere, politico e religioso, pericoloso e appena se ne sono accorti hanno cercato di fermarlo.

La testimonianza di Gesù rimane la più provocatoria che l’uomo incontra nel suo cammino. La “memoria” che ha lasciato di se stesso ai suoi ricorda lo spezzamento che egli ha fatto della sua vita, il versamento fino all’ultima goccia del suo sangue per il bene di tutti ovvero per la realizzazione di una convivenza di amici, di eguali, di fratelli senza distinzione di razza, di cultura, di fede religiosa. Mettersi alla sua sequela non è appiccarsi un distintivo, un segno di riconoscimento o farsi ripetitori delle sue parole (ufficio forse utile ma ancora accademico) bensì compiere delle scelte coraggiose, scomode per il bene di tutti.

Fin tanto che non si è riusciti a migliorare le condizioni esistenziali, materiali e spirituali, dei propri simili, magari con una visita agli infermi e ai carcerati o con l’offerta di un bicchiere d’acqua a chi ha sete (Mt 10, 42) non si ha diritto a chiamarsi cristiani. Non è un’ipotesi di studio, ma un’affermazione esplicita di Gesù fatta all’inizio (Mt 7, 23: “Non vi conosco”) e alla fine della sua predicazione (Mt 25, 41: “Lontano da me”).

 

  1. I vangeli: la predicazione dei discepoli di Gesù .

Gesù ha impegnato la sua breve attività profetica nella promulgazione e instaurazione del Regno di Dio. Non ha avuto né il tempo, né la necessità, dato lo scarso numero degli aderenti, di dare una forma, non diciamo una strutturazione, al suo movimento. Ma è il compito che i suoi seguaci della seconda e terza generazione si sono assunti quando a cominciare da Gerusalemme, per tutta la Giudea, la Samaria fino alle estremità della terra (At 1, 8) si è accresciuto il numero dei credenti.

Compaiono così accanto agli apostoli, i diaconi, i presbiteri, i presidenti, gli ispettori, gli episcopoi, la “chiesa” (cfr. Mt 16, 18; 18, 17) e insieme figure che estendono il loro influsso più lontano del loro luogo di residenza. Se Giacomo si fa sentire a Gerusalemme (At 21, 27), nella diaspora fa testo Paolo (cfr. Efesini e Pastorali), in Siria spicca la persona di Simone (1Pt e Mt 16, 18-19), mentre l’Asia minore ricorda soprattutto il discepolo prediletto (Gv 19, 25; 21, 7, 20).

La novità di Gesù non è stata compresa pienamente neanche dai suoi discepoli ma l’hanno egualmente trasmessa. Essi si sono sforzati di “ricordare” ma, come è ovvio, hanno cercato anche di capire, quindi di interpretare quello che Gesù aveva fatto e detto ed più ancora di dare un’attuazione pratica al suo messaggio.

Nascono così la cristologia, la soteriologia e l’ecclesiologia del NT che in parte è ancora ebraismo. Leggere attentamente i vangeli significa saper discernere ciò che è parola di Dio, proposta autentica di Cristo o interpretazione dei suoi uomini. Anche l’uomo ispirato non può rinunciare alle sue categorie religiose quando è chiamato a trasmettere un messaggio di Dio.

Jhw non si confonde con l’ebraismo e Gesù con il cristianesimo. Gesù è un mistero, afferma Ef 3, 18, la cui ampiezza, altezza, profondità rimangono imperscrutabili. Demitizzare non significa cancellare gli eventi ma riandare alla fonte prima, alla proposta originaria, a quello che Gesù e più oltre ancora Dio ha voluto far sapere.

Gesù pensava a una “fraternità” più che a una gerarchia, a una comunità o comunione piuttosto che a un’associazione. La comunio e la societas non sono la stessa cosa. La vera chiesa cristiana è l’accolta di coloro che cercano di riattualizzare la testimonianza di Cristo e si lasciano guidare dalla carità di Dio, dal suo Spirito di santità.

La vera chiesa è mistica; esiste se circola questo “soffio” vitale da componente a componente ed emerge nelle loro operazioni di bene. Se manca questa intima unione con Dio, con Cristo, con lo Spirito si ha una società qualunque, non la chiesa cristiana.

Gli sforzi di tutti, di chi serve e di chi è servito, è far prevalere la potenza dello Spirito e non degli “spiriti” direbbe Paolo (“Io sono di Cefa, io di Paolo, io di Apollo”), ossia dei particolarismi suggeriti dalle passioni e dall’orgoglio (cfr. 1Cor 1, 12…).

Questa convivenza è troppo ideale per essere attuale, ma è l’originalità del vangelo. E per vari decenni la comunità cristiana rimane sulla linea del fondatore. Paolo non sembra conoscere una chiesa gerarchizzata, tanto meno monarchicamente. Egli è l’apostolo dei gentili come Cefalo è dei giudei (gal 1, 16) e se va a Gerusalemme in cerca di Pietro (1, 18), al quale nell’occasione resiste in faccia (2, 11), trova al primo posto Giacomo e a suo fianco Giovanni, le “tre” colonne della nascente chiesa (2, 9). L’unità non è spezzata perché l’unico “capo” è Cristo (Ef 4, 15). Egli è in tutti e con tutti quelli che lo amano.

C’è stata una evoluzione della proposta originaria e nessuno può dire che sia in partenza illegittima. Più persone che si ritrovano a vivere insieme hanno necessariamente bisogno di organizzazione, solo che questa non può travisare la mente del fondatore.  La chiesa si è organizzata ma ha scelto modelli ambigui, quelli che Gesù Cristo aveva espressamente e ripetutamente rifiutati, lo schema ellenistico o di “gentili” (il re o l’arconte, l’assemblea, la moltitudine) o quello giudaico da cui era stato messo a morte (il sommo sacerdote, il sinedrio, il popolo).

Luca che è l’autore che ha “rilevato” il carisma apostolico, cerca di dare sopravvivenza anche ai settanta “anziani” d’Israele (Lc 10, 1). La chiesa degli anni 30-60 non è acefala perché guidata dallo Spirito di Dio; la chiesa degli anni 70-90 è gerarchico-monarchica, con i poteri decisionali, persino coercitivi, nelle mani di alcuni o di qualcuno. È una evoluzione, ma anche una non piccola involuzione. Il comando “Nessuno si faccia chiamare maestro, capo, guida” (Mt 23, 8-10) è stato trasgredito e pian piano verrà rovesciato il fondamento stesso della comunità cristiana.

Il domma invalicabile che Gesù ha posto alla base della sua fraternità (Mt 23, 10) che il primo sia realmente l’ultimo e che il più grande diventi il più piccolo, ribadito unanimemente dai sinottici (Mc 10, 42-45; Mt 20, 25-28; Lc 22, 24-27) e sostituito inequivocabilmente da Giovanni con al lavanda dei piedi (Gv 13, 1-15) è stato compromesso e lo sarà sempre più nelle “pastorali”, nella Didachè e negli scrittori dei secoli posteriori.

Il “conferma i tuoi fratelli nella fede” (Lc 22, 28) si può considerare un servizio, ma il sentirsi “pietra” dell’edificio ecclesiale, l’avere in mano il potere di legare e sciogliere e possedere le chiavi, avere cioè la responsabilità del regno, indica ormai un’autorità insindacabile sul pensiero e sul volere di Cristo (Mt 16, 18-19).

Lo Spirito è sempre l’anima della chiesa (cfr. Gv 7, 39; 20, 20-22): la chiesa è ancora “di” Cristo (“la mia”), ma diventerà di fatto sempre più dei suoi rappresentanti che l’amministrano in suo nome e in sua vece. Si può fare sempre appello alla legittima evoluzione ma il rischio di sostituirsi allo Spirito e allo stesso Gesù Cristo è sempre attuale. Se così fosse non si tratterebbe di una continuità ma di una soluzione di riferimento a Cristo.

Gesù non ha dato ai suoi altro potere (exousia) se non quello di guarire gli uomini dalle loro infermità (Mt 10, 1). Nessun diritto di rivendicare un proprio privilegiato ascolto dello Spirito, perché questi parla a tutti, cristiani e non cristiani e nessuna potestà decisional-programmatrice per l’instaurazione e realizzazione del regno di Dio che ricade sull’intera assemblea dei credenti, di quanti cioè sono in comunione con lui e con il suo Spirito.

L’ipotesi di poter essere rappresentanti di Dio o di parlare in nome dello Spirito si rivela gratuita perché Dio e il suo Spirito non sono mai assenti e meno ancora silenziosi. Se per assurdo lo fossero non ci sarebbe la chiesa, la comunità dei credenti. Pensare di poter rappresentare Dio è sempre una rivendicazione ambigua perché suppone un’assenza gratuita.

Il Vaticano II ha ridato alla comunità la sua vocazione e missione. A lei appartiene il titolo non onorifico ma oneroso di “popolo di Dio” cioè in diretto colloquio con lui e in ascolto delle sue proposte. È dentro questa convocazione che operano i ministeri (designazione sempre impropria); a suo servizio e non in suo dominio. I servi nella casa sono coloro che attendono gli ordini dei loro padroni. Il servizio richiede competenza, esperienza, autorevolezza, carisma e non ordini o comandi. Certo qualcosa si è modificato nel corso dei secoli, ma il Concilio ha proposto una strada di radicale rinnovamento ponendo il popolo di Dio prima delle (transeat) funzioni di governo.

Il secondo grande capitolo della reinterpretazione ecclesiale dell’opera di Cristo riguarda il valore e il senso della morte di croce. Le ragioni storiche che hanno portato Gesù a tale ignominiosa fine sono state pian piano accantonate. Essa era per i giudei e quindi per i cristiani un’infamia (Dt 21, 23) e soprattutto un segno che non onorava l’inviato, il profeta di Dio per eccellenza. Bisognava se non cancellare, attenuarne lo scandalo ricordando la previsione di Gesù al riguardo (cosa del tutto possibile) e soprattutto rimettendone l’iniziativa a Dio steso (Mt 26, 2).

Gesù muore di fatto vittima di un complotto di potere che egli in nome di Dio ha osato contestare e rovesciare ma per i primi teologi cristiani si tratta di una morte sacrificale, un’offerta che sale a Dio in riparazione ed espiazione dei peccati dell’umanità. Due letture diametralmente opposte. Quale la vera?

Se al primo posto vanno collocati sempre i fatti, la storia, è ovvio pensare che né i giudei, né i romani hanno oppresso il profeta galileo per fare un piacere a Dio, ma piuttosto per sbarazzarsi di una persona influente che aveva tentato di disturbare le loro egemonie.

L’interpretazione teologica dei fatti è sempre quella che viene dopo i medesimi. L’ipotetica morte sacrificale di Cristo potrebbe per questo essere più semplicemente una lettura in chiave giudaica della fine del profeta martire. I moduli che Paolo e i sui scolari avevano a disposizione erano il “capro espiatorio”, l’ “agnello pasquale”, il “servo sofferente” che muore per le moltitudini. Possono essere stati essi a dare un’inquadratura onorata a una morte che la legge riteneva fonte di maledizione (Dt 21, 23).

Rimane per altro verso difficile se non assurdo pensare che Dio possa sentirsi implacabilmente adirato con l’uomo e che peggio ancora sazi la sua sete se non di vendetta, di risarcimento (espiazione e propiziazione) con il sangue di un innocente, per di più del proprio figlio.

La soteriologia neotestamentaria è forse “un’interpretazione giudaica della morte di croce” (Itinerario spirituale, vol. III, pp. 77-104; Chiesa delle origini, chiesa del futuro, pp. 110-118) che ne svalorizza tutta la portata storica e salvifica. Quello che Gesù ha a sua volta compiuto e cioè la lotta all’ingiustizia e al peccato, in qualsiasi persona e istituzione si annidi, deve a sua volta riprendere e portare avanti chi ha scelto di seguirlo. Il male non verrà debellato se i credenti si appellano all’opera di Cristo e non mettono in atto le loro responsabilità e le loro forze.

I cristiani non sono quelli che si aggrappano ai meriti di Cristo e non scelgono coraggiosamente la sua strada, contro i soprusi e gli abusi esistenti nella storia, pur con il rischio di finire in croce (Gandhi, M.L. King, Puglisi). Non è una scelta facile che si può compiere ad occhi chiusi, né con tanta spavalderia, ma solo con grande timore e tremore perché nel momento della prova la carne può sempre prevalere e lo spirito venir meno (Mc 14, 38).

 

  1. Il vangelo da scrivere: quello che Gesù direbbe se parlasse oggi .

La “nuova evangelizzazione” è un’espressione ricorrente, ma bisognerebbe comprenderne la giusta portata altrimenti si rischia di fare dello storicismo o dell’archeologia. Certamente il punto di partenza è sapere quello che Gesù ha esattamente fatto e detto. Più che le sue ipsissima verba conta la sua reale, autentica testimonianza. Egli ha aperto una strada (Gv 14, 6), occorre che altri la percorrano; ha lasciato un esempio (Gv 13, 15), bisogna che i suoi seguaci lo facciano proprio.

La parola di Dio è destinata a restare per sempre (Is 40, 8); la testimonianza di Gesù sarà egualmente intramontabile. Se Gesù vivesse e parlasse oggi ripeterebbe lo stesso messaggio di allora, il regno di Dio e la sua attuazione nella storia, la conversione dagli egoismi per la realizzazione della comune famiglia dei figli di Dio.

Il messaggio non può cambiare ma la sua traduzione storica deve forse adattarsi alle situazioni nuove dell’uomo e dell’umanità attuali. Non basta leggere e capire il vangelo scritto, occorre riscriverlo con le categorie che sono frutto del progresso, dell’evoluzione, della crescita a cui l’umanità è arrivata. Si tratta di deculturalizzare (lasciar cadere cioè il contingente) e tranculturalizare, cioè riproporre in un linguaggio intelligibile e opportuno per l’uomo del XX secolo che è lo stesso di duemila anni fa, ma non è identica la sua cultura, il suo modo di pensare ed anche di vivere. Non è un discorso tanto accademico, da tavolino o da scuola, ma esistenziale cioè socio-politico-religioso.

E non è un’opera che può compiere un individuo o un gruppo di studiosi, di semplici teologi, ma un’attività convergente di persone specializzate e competenti. Lavoro si dice interdisciplinare. Si tratta non solo o non tanto di una traduzione al linguaggio moderno, ma alla società di oggi, alla vita, alle aspettative, alle esigenze ed emergenze che affiorano nella storia.

Gli uomini di chiesa debbono chiedere aiuto a quanti si ritrovano al loro fianco interessati allo stesso problema dell’uomo e del suo mondo. Non è la cosa più utile continuare a impancarsi a maestri da cattedre o dai pulpiti a dettare le leggi sull’andamento umano, rimarrebbero voci nel deserto, come sono di fatto. Non si tratta di accarezzare le passioni o le arroganze di qualcuno o di molti (permissivismo), ma nemmeno di chiudersi in un autosufficientismo pernicioso e sterile.

Durante il pontificato d Papa Giovanni e nel corso del Concilio circolava una felice espressione, non ancora del tutto dimenticata: “Segni dei tempi”. Occorre essere attenti per coglierli, e trarne le debite conseguenze. Troppe occasioni sono andate perdute, dal medioevo ai giorni d’oggi e l’evangelizzazione ne è rimasta mortificata. Le libertà comunali, l’umanesimo, la scienza nuova, la rivoluzione del ‘79, la fine della schiavitù, del colonialismo, la rivoluzione d’ottobre, il femminismo e via di seguito non sono stati inseriti dagli evangelizzatori nei loro programmi e in molti casi non lo sono ancora, rifugiandosi dietro al pretesto che sono attività materiali, terrene, che non interessano il vangelo! Un equivoco in cui Gesù non è caduto perché ha messo in primo piano l’uomo con tutto il suo bagaglio di esigenze, materiali e spirituali, e di sofferenze.

Evangelizzazione non è e non può essere semplice sinonimo di predicazione perché il buon annuncio (eu-anghelion) deve apportare un reale beneficio, benessere a chi l’ascolta e più ancora l’accetta.

Gli uomini correvano dietro a Gesù non tanto perché sapeva additare ad essi la via della salvezza ma perché la dava. Bisogna concretizzare le progettazioni e non lo si può fare se non mettendosi in ascolto e chiedendo la collaborazione di quanti ne sono interessati. Non si arriva con i programmi già fatti e imporli ai possibili collaboratori; né si può intervenire solo per disdire o per contraddire; bisogna essere più umili e remissivi perché troppe volte si è creduto di aver ragione e poi si è scoperto di essere nel torto. E non occorre ricominciare da Savonarola, Galilei o Giordano Bruno, basta rifarsi a don Milani o a mons. Romero.

La nuova evangelizzazione deve trovare un posto non sulle nuvole ma nella multiforme città e società di oggi; deve saper dire una parola saggia e di sostegno per quanti lottano per una convivenza più equa, pluralistica e plurietnica. Tutto ciò che il progresso propone e impone non deve prevaricare i diritti di nessuno, è l’unica parola che l’uomo evangelico può dire.

Bisogna restringere l’area del dommatico, delle sicurezze e ampliare quella dell’opinabile; occorre saper attendere che la ricerca si chiarifichi invece di condannarla in partenza. La natura, quella umana compresa, è un mistero per tutti, ma sono in grado di dipanarlo coloro che la studiano seriamente e responsabilmente. L’unico richiamo che il profeta può permettersi è quello della responsabilità senza pretendere di spiegare quando questa è venuta meno perché per farlo occorre una conoscenza e competenza che di per sé non ha.

Gli ambiti su cui può e deve intervenire la nuova evangelizzazione sono molti e tutti attuali. Il regno di Dio comincia da quaggiù con la realizzazione di un paradiso terrestre a cui tutti quelli che danno un apporto sono operai al servizio dell’altissimo. Sono essi i suoi primi collaboratori perché portano avanti il disegno creativo. Non sono dei profani o dei materialisti. La loro opera è registrata nel libro della vita come quella dei missionari o dei predicatori del vangelo. Non conta quello che si fa ma il modo con cui si fa.

Le branchie nuove a cui va tradotto il vangelo sono l’ecologia, il rispetto della comune casa che tutti ospita, esseri e cose; la nuova antropologia, con tutti i problemi connessi (coppia, matrimonio, celibato, genetica); la pace, la fine della mentalità bellicistica ossia dell’uso delle armi per risolvere i problemi di giustizia o le contese ideologiche (guerre di religione). Occorre avviare un vero pluralismo teologico di fronte alla comune fede.

Il vangelo è un libro scritto ma si scrive ancora e nessuno sa quale è l’ultima parola, ma ognuno è tenuto a conoscere quella che lui è chiamato a scrivere.

Tratto da : http://www.tempidifraternita.it/ –  scritto nel novembre 1996