Prete in una Comunità di Base di B.Pavan e C.Galetto

“Prete e comunità”: chiariamo subito che noi non parleremo di comunità in senso universale (comunità parrocchiali, religiose, e quant’altre), ma, partendo da noi e dalla nostra esperienza personale, desideriamo parlare di una “comunità di base”, quella in cui viviamo la nostra fede dal suo inizio, dalla notte di Natale del 1973. Siamo coscienti di questo orizzonte limitato, ma di parrocchie non abbiamo più esperienza da allora: altri e altre ne parleranno.

Parlare di preti, poi, non è facile, perché ognuno/a, partendo da sé, parte dalla propria esperienza di relazioni non con “i preti”, ma con “un” prete, “quel” prete, che tanti/e conoscono e con il quale hanno avuto o hanno una relazione diversa dalla tua, per cui non si riconosceranno nel tuo racconto. Pensiamo, in particolare nel nostro caso, alle amiche e agli amici che lo hanno sostenuto e seguito nella sua scelta e con cui restiamo in relazione di amicizia affettuosa. E, poi, a tutte quelle persone che non si interrogano sul senso umano ed evangelico del paradigma “pastore/gregge”: lo accettano come il sole che sorge ogni mattina. E’ chiaro che siamo tutti/e diversi/e, anche nelle forme delle nostre relazioni, comprese quelle nei confronti della stessa persona.

Allora, o non ne parliamo o corriamo coscientemente il rischio di attirarci critiche, anche aspre, anche cattive… Abbiamo ben presente a cos’è andata incontro Mira Furlani dando alle stampe la sua narrazione della nascita della CdB dell’Isolotto a Firenze e, in particolare, della sua relazione con Enzo Mazzi, “don” Enzo Mazzi. Per chi non l’avesse ancora letto, il libro si intitola “Le donne e il prete. L’Isolotto raccontato da lei”, ed. Gabrielli 2016.

(Beppe)Un’altra donna…

La mia gamba sinistra era aumentata di circonferenza in maniera misteriosa e preoccupante… Una catena di consulenti mi ha fatto arrivare a casa di Assunta, esperta di massaggi, compreso quello linfodrenante di cui avevo bisogno io. Fin dalla prima seduta Assunta mescola massaggi e parole: “Io condivido la scuola di pensiero secondo cui la linfa è la sede delle emozioni. Se i tuoi nodi linfatici si sono inceppati, è probabile che vogliano dirti che hai qualche nodo emotivo da sciogliere…”. E’ un lampo! Sì, un nodo da sciogliere ce l’ho, bello grosso, e adesso, con lei, lo riconosco e lo nomino. Le racconto la delusione e la rabbia che mi porto dentro da quando “don” Franco Barbero ha lasciato la comunità di base, che avevamo collaborato a costruire insieme, per fondarne un’altra, sempre a Pinerolo, senza darci spiegazioni soddisfacenti. E, mentre parlavo, mi sono sentito invaso da un’emozione dolce, piacevole: sentivo sciogliersi quella rabbia, quel risentimento, grazie a lei. Poi ho anche trovato le parole adeguate per formulare questa nuova consapevolezza: ho scelto di rispettare la sua libertà di deludere il mio desiderio. Mi sembra di aver fatto un piccolo passo avanti sulla strada della convivialità e del rispetto delle differenze…

Però i problemi rimangono ed è utile nominarli e analizzarli, con il desiderio di confrontarli con altri e altre che li riconoscano come propri. Specialmente dopo aver letto il libro di Mira Furlani penso che di queste questioni sia bene parlare senza aspettare che i preti siano morti. Aspettare che siano morti significa non aver fiducia nella possibilità di un loro cambiamento, significa rassegnarsi a subire il modello di comunità da loro incarnato, significa non aver fiducia nelle possibilità trasformative del dialogo tra persone sincere… L’altra scelta è andarsene, lasciando perdere fede, Bibbia, teologia, comunità… l’hanno fatta in tanti e tante. E’ bene parlarne, invece, perché sono questioni che non riguardano solo il singolo, ma l’intera categoria, la casta, e le forme delle loro relazioni con le persone delle comunità in cui vivono e praticano il ministero. Siamo convinti/e che parlarne faccia solo bene, perché non abbiamo strumenti più pacifici e pontefici delle parole, dello scambio di pensieri e di esperienze di conversione/cambiamento.

(Beppe e Carla) – Senza prete le comunità muoiono…

Questa è una tesi intorno alla quale il dibattito è infinito. Purtroppo ci sono tante esperienze che la suffragano: siamo pur sempre in ambito religioso cattolico e nessuna comunità di base – che noi sappiamo – è nata se non per iniziativa o intorno a un prete, e alcune di esse, quando il prete è stato allontanato dal vescovo (erano cdb in ambito parrocchiale) o è morto, quelle comunità sono scomparse, si sono sciolte… Anche la nostra è nata quando il nostro desiderio di libertà dai vincoli parrocchiali si è incontrato con la proposta di Franco Barbero di dar vita anche a Pinerolo a una cdb. Ma abbiamo continuato serenamente la nostra vita di comunità anche dopo che il suo “presbitero” è stato ridotto allo stato laicale da “san” Giovanni Paolo II.

Siamo però consapevoli, da molto tempo, che se l’animazione praticata dal prete non è finalizzata a formare uomini e donne “adulti/e”, come si è sempre detto e scritto, liberi/e e consapevoli della propria libertà anche nella vita di fede, capaci anche di dar vita a comunità e di animarle… queste moriranno con lui. L’esperienza ci dice che, salvo rare e preziose eccezioni, anche in cdb i preti tendono a voler essere riconosciuti come pastori di un gregge (il loro ruolo istituzionale), centro indispensabile attorno a cui si riunisce la comunità. Quando questo riconoscimento viene a mancare, perché nasce e cresce la consapevolezza che essere comunità “di base” significa abbandonare ogni forma gerarchica, imparare a stare tutte e tutti “in cerchio senza centro” – e senza nessun posto fisso per nessuno/a neppure nel perimetro del cerchio – il prete o si interroga e si “converte”, cambia, o se ne va in un’altra comunità che lo riconosca come proprio pastore.

Cambiare si può

(Beppe) Noi gli chiedevamo di cambiare, di diventare “uno di noi”, continuando a mettere a servizio della comunità i suoi talenti e le sue competenze, che abbiamo sempre riconosciuto con gratitudine, approfittandone a piene mani. Ma lui ci diceva: “Lasciatemi fare il prete; sono solo capace di fare il prete…”. Questo, per me, è un nodo importante. E’ come se ci dicesse: “Non voglio cambiare”. Come se ci fosse un modo solo di fare il prete, quello che in seminario mi era stato illustrato con definitiva chiarezza: “Noi non abbiamo niente da imparare dagli altri… noi dobbiamo insegnare!”. Per chi ha interiorizzato questo modello sembra davvero difficile scegliere la strada del cambiamento. Che resta una scelta possibile a chiunque, purché ne sia consapevole e scelga di praticarla. Credo che il “gruppo di autocoscienza maschile” sarebbe stato anche per lui un aiuto prezioso.

(Carla e Beppe) I problemi erano legati soprattutto alle forme diverse che cercavamo di dare alla nostra comunità. A mano a mano che abbiamo scelto di abbandonare la delega (che per anni – e per comodità – gli avevamo accordato – e che lui non ha mai rifiutato), ci siamo dovuti/e confrontare con la sua indisponibilità a vivere in una comunità davvero “di base”, tutti e tutte in cerchio alla pari, mettendo ciascuno e ciascuna i propri talenti e le proprie competenze a servizio della comunità.

Ripensandoci “a bocce ferme”, l’errore originario è stato probabilmente quello di chiedergli di continuare a fare il prete a tempo pieno, invece di cercarsi un lavoro come tutti e tutte noi… Saremmo diventati/e più facilmente un “cerchio di uomini e donne alla pari”. Ma lui era prete e voleva restare tale, mentre noi questa maturazione l’abbiamo compiuta negli anni. E così la comunità di base è rimasta sostanzialmente una parrocchia, in cui il prete non si chiamava parroco, ma era lui che si occupava praticamente di tutto, coadiuvato da un “servizio di direzione” che ha funzionato bene finché le sue e le nostre proposte non sono entrate in conflitto, finché non abbiamo cominciato a parlare della necessità di passare da una pastorale “individuale” – del prete, l’unica persona che potesse incarnare quella pratica – a una pastorale “collettiva” della comunità, cercando di imparare, con il suo aiuto, a svolgere in gruppo, magari a rotazione, alcuni dei compiti che erano appannaggio esclusivo del prete, che mostrava di non voler cedere assolutamente quelle deleghe.

Ad esempio: lui ci aveva aiutati/e a superare a poco a poco pregiudizi e stereotipi e a entrare in relazione serena e libera con le persone omo e trans-sessuali, ma quando gli abbiamo proposto di coinvolgerci di più, come comunità, nella preparazione di quelle coppie al matrimonio, lui ci ha semplicemente comunicato che da quel momento avrebbe celebrato i matrimoni a Torino, in un’altra comunità disponibile. La giustificazione era che le coppie cercavano lui, non la comunità, e che sposi/e e famiglie volevano una cerimonia tradizionale, con il prete “vestito da corsa”, come lui definiva scherzosamente i paramenti liturgici che indossava per l’occasione. La loro motivazione era senz’altro legittima e comprensibile: volevano che il loro matrimonio apparisse legittimato alla pari di ogni altro celebrato in ogni altra chiesa…

Ma la comunità finiva per essere solo contorno, non protagonista di questa “rivoluzione”. A Franco però – non lo dichiarava apertamente, ma per noi era chiarissimo – era necessario “avere una comunità” per dare senso al suo ministero e, nello stesso tempo, essere credibile nei confronti di chi gli chiedeva di officiare un rito… Cominciavamo a provare insofferenza verso quel modello di “matrimonificio” (così lo chiamava un amico gay), che continuava ad affidare alla comunità il ruolo di “claque”, che prega, canta, batte le mani, fa gli auguri… mentre i protagonisti dell’azione (preparazione e celebrazione del matrimonio) sono solo loro: gli sposi e il prete. Più cresceva la nostra consapevolezza, più ci vedevamo come due entità distinte: noi e lui, il gregge e il pastore… Non eravamo ancora una vera comunità, e volevamo invece diventarlo, a poco a poco.

La libertà e l’autonomia, che cercavamo lasciando la parrocchia e la sua gerarchia, non vuole vincoli, se non quelli della reciprocità. Così abbiamo cominciato a sentirci e renderci liberi/e anche nei suoi confronti, a vivere in autonomia gruppi e iniziative in cui lui non si coinvolgeva – e che per lunghi tratti ha persino sottoposto a critiche anche aspre: il gruppo donne e la loro prima ricerca sulle teologie femministe, che è poi diventata un quaderno della rivista Viottoli dal titolo “Nel segno di Rut”; il gruppo di autocoscienza maschile, nato all’interno della cdb, ma che lui non voleva che venisse percepito come un gruppo della comunità, mentre per noi era sempre più chiaro che il cambiamento di vita, che ci chiede il Vangelo di Gesù, è una pratica sessuata, radicalmente diversa per gli uomini e per le donne; il “gruppo ricerca”, nato dal desiderio di alcuni e alcune di cercare risposte che il solo studio della Bibbia, per quanto ripetuto con impegno negli anni, non ci dava (abbiamo cominciato dalla domanda: cosa c’era prima dell’ebraismo, prima del monoteismo, prima del patriarcato?). Quello femminista è diventato il nostro paradigma preferito…

(Carla) Siamo alla fine degli anni ’80. Nella nostra comunità di uomini e donne, alcune di noi, grazie a percorsi e contatti con donne esterne alle Cdb, abbiamo dato vita a un “gruppo donne”, che ci ha permesso di far comunità tra noi, portatrici, nei luoghi misti, di una “misura” femminile sulle cose del mondo e della spiritualità. Anche a livello nazionale ha preso corpo un collegamento stabile tra le donne delle comunità di base ancora esistenti nelle città del centro-nord. Questo percorso separato ha avuto il merito di aprire in diverse occasioni il conflitto uomo-donna nei luoghi misti dei convegni, dei seminari, sulle riviste e sui siti delle comunità.

Riporto quanto abbiamo scritto Doranna ed io nella prefazione al libro Le donne e il prete di Mira Furlani: “L’inizio delle nostre storie si concentra attorno a figure carismatiche di preti progressisti e amanti del Vangelo. Uomini coerenti, che credevano fermamente, oltre che in Dio, nella giustizia, nella libertà e nell’uguaglianza tra i popoli e tra i sessi; sicuramente, anche ai nostri occhi, il meglio del genere maschile. Ma tra le donne e i preti, si sa, c’è qualcosa che attrae e qualcosa che respinge e in mezzo, probabilmente, una grande mancanza: quella di una insignificanza simbolica dovuta all’assenza di parole, tradizioni, pratiche femminili. Una nostra stimata e autorevole amica dice che noi donne siamo rivali dei preti nella capacità che abbiamo di parlare autorevolmente alle nostre simili. Siamo potenzialmente madri spirituali e simboliche, ma in questa relazione, non prevista nella nostra chiesa e nella nostra società, il maschile si mette di mezzo e fa ingombro. Nei nostri collegamenti nazionali di donne delle Cdb stiamo lavorando da trent’anni per sciogliere questi nodi”.

Moriranno le cdb?

(Carla e Beppe) Siamo consapevoli che “queste” CdB si estingueranno gradualmente, a mano a mano che moriremo noi che le abbiamo incarnate. I nostri figli e le nostre figlie quasi dovunque fanno altre scelte… molta gente le frequenta perché c’è “quel prete” carismatico, che è un piacere ascoltare e che sa prendersi a cuore i loro problemi… Ma quando non ci sarà più? Crediamo che sia davvero ora di andare “oltre le religioni”. Le cdb hanno rappresentato un luogo di passaggio dalla religiosità tradizionale a una spiritualità consapevole e incarnata, ma – ce lo diciamo sempre più spesso, con convinzione – non ha futuro, dopo di noi, questa forma di comunità, fatta di studio biblico settimanale, di assemblea eucaristica almeno quindicinale, di ricerca teologica ispirata dal pensiero della differenza sessuale, di partecipazione coerente alla vita del movimento delle CdB, italiane ed europee…

Abbiamo gettato dei semi, in questi anni, e alcuni li vediamo germogliare. Il nostro futuro oltre noi lo vediamo ovunque si pratichi la convivialità delle differenze, a cominciare da quelle di genere e di orientamento sessuale, nei gruppi donne e nei gruppi uomini, nelle associazioni per “uscire dalle guerre” e “liberarci dalla violenza”, nelle lotte per la giustizia e la salvaguardia dei beni comuni, eccetera eccetera… Anche grazie a “quei preti” abbiamo imparato che il Vangelo di Gesù non ci invita a professare una fede secondo i dettami di una gerarchia maschile e maschilista, ma a praticare il grande comandamento dell’amore universale. Ognuno e ognuna “secondo il proprio genere”, che è personale, individuale – come ci ha suggerito Cosimo Scordato, prete all’Albergheria a Palermo: “Ogni persona ha il suo genere e la comunità deve aiutare ciascuno/a a diventare la persona che è incamminata ad essere”. Questo richiede libertà anche nelle relazioni reciproche: ognuno/a ricerchi, studi, preghi, pensi… con la propria testa e il proprio cuore, a partire da sé e rispettando la libertà di ogni altro/a; poi racconti con sincerità la propria esperienza e la propria verità.

La CdB è stata ed è, per noi, luogo speciale per questo apprendimento ed esercizio quotidiano di libertà. La nostra gratitudine va a tutti e tutte coloro che ci sono stati/e e ancora ci sono compagni/e di strada, a cominciare da Franco Barbero che da quel giorno ci ha aiutato a dare senso e direzione al nostro desiderio.

Carla Galetto e Beppe Pavan
(Esodo n°4/2017)