Caro papa, ti racconto come ha vissuto le tue parole la mamma di un ragazzo gay di D.Santonico

Dea Santonico
(CdB San Paolo -Roma)

Caro papa Francesco, ti scrivo dopo aver ascoltato le tue parole al Forum italiano delle associazioni familiari, il 16 giugno: la famiglia, immagine di Dio, è una sola, quella che unisce un uomo ed una donna.

Sono mamma di un ragazzo gay. Io e mio marito ci siamo sposati 39 anni fa e abbiamo vissuto insieme con i nostri due figli, Marco ed Emanuele, quella bella avventura, come la chiami tu, che è la famiglia. Un’avventura dove si cresce insieme anche attraverso le difficoltà. Due anni fa il coming out, inaspettato, di Emanuele. Potevamo seguitare a vivere tranquillamente la nostra vita sentendoci “a posto”, con i nostri molteplici impegni: in realtà di base, nel volontariato con i migranti, nello studio della Bibbia … e invece no.

Il coming out di un figlio ti rimette in gioco, cambia tutto, ed è contagioso: anche noi genitori abbiamo fatto il nostro coming out, rompendo quella sfera di ipocrisia che vorrebbe che di quella parte di tuo figlio non si parlasse. Era il 7 maggio del 2016, quel giorno Emanuele l’ho partorito una seconda volta. Ti invio, di seguito a questa lettera aperta, la mia testimonianza, che racconta quell’esperienza.

Sono qui a scriverti perché le parole che hai pronunciato hanno aperto in me una ferita. E al dolore bisogna dare parola perché non diventi rabbia e rancore.

Se l’amore tra me e mio marito è immagine di Dio, come pensi che possiamo rassegnarci al pensiero che l’amore di Emanuele per un ragazzo nulla possa esprimere di quell’immagine di Dio? No, il nostro amore non potrà mai esprimere l’immagine di un Dio, che sia estraneo e distante dall’amore tra Emanuele ed un suo compagno. Se il loro amore non è immagine di Dio, neanche il nostro lo sarà. Perché noi quel Dio non lo conosciamo.

Ne conosciamo un altro, quello di cui parlava Gesù. Un Dio di parte, che sceglie di condividere il cammino di un popolo di schiavi, che si fa complice dei piccoli, che si schiera con coloro che sono emarginati dai poteri politici e religiosi di tutti i tempi, un Dio che irradia amore, contro ogni ragionevole economia, capace di spogliarsi della sua onnipotenza per tornare dalle sue creature come un medicante di amore, a chiedere una libera risposta di amore.

Semmai ci sarà dato di riuscire ad esprimere un pezzetto di quell’immagine del Dio di Gesù nelle nostre vite di singoli e di coppie, attraverso i nostri amori, tutti imperfetti, “a norma” o “fuori norma” che siano, dovremo farlo in punta di piedi, senza rumore, senza sbandierarla quell’immagine, perché l’immagine di Dio non appartiene a noi né a nessun altro. Non si lascia intrappolare, sfugge ai tentativi degli uomini di possederla e usarla, piegandola ai propri interessi. Scappa dai palazzi dei potenti per farsi trovare dall’ultimo tra gli esseri umani, il più indegno, il più dimenticato, il più emarginato e solo, perché in quell’immagine possa riconoscersi e, riscoprendo quel pizzico di divino che gli è stato soffiato dentro, possa osare esprimerla nella sua vita.

Caro papa Francesco, viviamo in Italia una fase storica e politica molto difficile, che preoccupa i genitori di ragazzi e ragazze LGBT. In tante occasioni tu hai saputo dire parole di speranza. Non ci lasciare soli con le nostre paure.

Con affetto ti saluto e ti auguro buon lavoro
Dea Santonico

——————————————————————

7 maggio 2016. È sabato. Ci aspetta una serata speciale. Per la prima volta siamo invitati a cena ad un ristorante da Marco, nostro figlio, e Laura, la sua ragazza. Non è un posto qualunque, è il luogo dove faranno la loro festa di matrimonio. Mancano solo due mesi e vogliono condividere con noi una serata lì, sul lago di Martignano. Arriviamo al tramonto. Passeggiata sul prato vicino al lago e poi ci aspetta un tavolo per cinque, la nostra famiglia al completo: oltre a Marco e Laura, noi genitori ed Emanuele, l’altro nostro figlio. Speciale la cena e magico quel posto! Una bella serata, che, tornando verso la macchina, pensavamo si fosse conclusa lì.

Saliamo in macchina, noi davanti e i ragazzi dietro. Prima di partire, Emanuele, seduto dietro di me, ci dice: “Anch’io ho una bella notizia da darvi – almeno per me bella – da due mesi mi vedo con un ragazzo, si chiama G. Io lo sapevo da tempo…”. Lui lo sapeva, noi no. Nessuno di noi l’aveva capito. Era quella la sua bella notizia, pronunciata con la paura nel cuore che per noi non fosse altrettanto bella. Scende il silenzio per qualche lungo istante, poi sono io a romperlo: “Emanuele, però ti devo abbracciare”.

Esco dalla macchina, il tempo di aprire lo sportello posteriore e lo trovo in un pianto che mi mancano le parole per descrivere. Esprimeva tutto il dolore nascosto per anni e insieme un infinito senso di liberazione: era riuscito a condividere con noi un peso che per troppo tempo aveva portato da solo. Ci abbracciamo e quel dolore lo sento, lo sento tutto, mi attraversa tutto il corpo. Poi ad abbracciarlo sono il papà, Marco, Laura…

Non servono parole per dirci quello che sentiamo. “Ora ho bisogno di stare dieci minuti da solo, poi torno” e si allontana nel buio. Qualche momento di esitazione, poi Marco lo raggiunge. Mi commuove sempre il rapporto che Marco ha con lui, da quando aveva 5 anni e aspettava che il suo fratellino uscisse dalla mia pancia. Rimaniamo in macchina in tre. Quasi senza accorgercene le nostre mani si stringono. Guardo mio marito e lo accarezzo, so che per lui sarà più difficile che per me. Quando Marco ed Emanuele tornano, partiamo. “Ora pensa a finire la tesi e a laurearti, su questa cosa ci dobbiamo crescere insieme”. Credo sia la cosa più bella che il papà potesse dirgli. La cosa più semplice e più vera.

Quella sera Emanuele l’ho partorito una seconda volta: ho sentito scorrere dentro di me ed attraversarmi tutto il corpo la forza della vita che rinasceva dal dolore.

Questo è il mio ricordo di quella sera di due anni fa. Altri ricordi abitano il cuore di chi con me ha condiviso quell’esperienza. Il ricordo della commozione sul volto di Emanuele, mentre parlava, colta da chi sedeva sui sedili posteriori della macchina, e delle carezze che l’hanno accolta e accompagnata, prima del mio abbraccio. E quel silenzio, per me troppo lungo, che per qualcun altro forse non c’è stato… “Anch’io lo voglio abbracciare questo figliolo” – le parole del papà, che riaffiorano alla mente di Emanuele. Il ricordo che si portano dentro i due fratelli di quel momento – ben più lungo di dieci minuti – che hanno vissuto insieme quando si sono allontanati dalla macchina. E poi il ricordo del papà, nella sua testimonianza durante una veglia di preghiera. Eravamo in piazza del Campidoglio. Un anno dopo quella sera di maggio.

Al lago di Martignano ci siamo tornati due mesi dopo, il 9 luglio. Una celebrazione eucaristica sulla riva del lago, dove Marco e Laura hanno fatto testimonianza del loro amore e ci hanno chiamati tutti e tutte a testimoni delle promesse che si sono scambiati. Mettersi in gioco ed esporsi con i propri sentimenti è difficile, richiede coraggio ed ha un effetto contagioso: tutti sulla riva di quel lago si sono messi in gioco, si sono guardati dentro ed hanno superato la paura di mostrare e raccontare le proprie emozioni.

Anche Emanuele ha trovato il coraggio di farlo: “L’amore è bello. Sembra un’ovvietà, ma penso che a volte ce lo scordiamo, o che vogliamo scordarcelo, o che cerchiamo di metterlo lì, in un angoletto, dove non lo vediamo. Voglio ringraziare Marco e Laura perché oggi questo amore ce lo raccontano, ce lo fanno vedere e lo condividono con tutti noi. E nell’ipotesi che esista un creatore, penso che oggi uno sguardo sulle rive di questo lago ce l’ha buttato ed ha sorriso compiaciuto del suo creato”.

Si, sul lago di Martignano quel giorno Dio c’era. Ed era lì, a fianco di Emanuele, anche quella sera di due mesi prima. Era quello stesso Dio che un giorno ascoltò il grido di dolore di un popolo di schiavi e si mise al loro fianco perché rompessero le catene della schiavitù e iniziassero il cammino rischioso verso la libertà. Anche Emanuele aveva in gola un grido soffocato di dolore da tirar fuori e una catena da spezzare, quella che gli impediva di essere se stesso fino in fondo, di vivere alla luce del sole i suoi sentimenti, di tirar fuori quella parte di sé, che l’ipocrisia dei benpensanti di turno vorrebbe rimanesse nascosta.

Quello stesso mese di luglio, dopo qualche giorno dal matrimonio di Marco e Laura, Emanuele si è laureato. Sulla sua tesi di laurea in ingegnera, sotto la voce Ringraziamenti, c’era scritto: “Il percorso universitario e il cammino di vita non possono far altro che intrecciarsi. Questo è vero per ognuno. Nel mio caso, più che altro, spesso si sono strozzati l’un l’altro; ma alla fine sembra che molti nodi vadano finalmente sciogliendosi. Per questo desidero ringraziare la mia famiglia: per l’affetto infinito, per il sostegno dato e per quello che mi avrebbe dato se solo lo avessi chiesto. Grazie a chi mi ha sorretto e guidato tenendomi per mano, quando più ne ho avuto bisogno. Siete la mia forza. Grazie a chi ha creduto in me e ha saputo amarmi, quando io non sapevo farlo. Siete il mio orgoglio. Grazie a chi, nonostante tutto, mi ha mostrato la bellezza, proprio dove non riuscivo a trovarla. Infine, grazie a tutti quelli che mi hanno visto dentro e hanno continuato a guardarmi con gli stessi occhi. Mi avete insegnato il vero significato della parola “fortuna”. E senza un po’ di fortuna, non si va da nessuna parte”.

7 maggio 2016. Grazie, Emanuele, per averci regalato quel momento. Lascia che la bellezza che sei riuscito a vedere dentro di te brilli in tutta la sua interezza, perché illumini la tua vita e quella degli altri e perché quel Dio creatore, che hai intravisto sulla riva del lago di Martignano, nel vederla, sorrida compiaciuto del suo creato.

Dea Santonico