La dimensione cosmica del corpo umano e della vita

Giuliana Savelli

L’idea dello scritto nasce da un’affermazione di Zambrano, ormai anziana, al giovane teologo Andreu in cui dice di sentire il corpo come carcere; se invece lo percepisce come corpo cosmico si sente riconciliata con lui. Adesso non ritrovo la frase esatta. Mi sembrava un’apertura mistica del corpo, se per mistica intendiamo anche una relazione ineffabile che trascende l’individuo, tutta da indagare.

Questo scritto è composto di due parti, la prima riguarda un saggio di Panikkar, la seconda è una considerazione su un saggio di Zambrano che fa da incipit al libro, MZ e il sogno del divino femminile.

Estratto dal saggio di R. Panikkar, L’intuizione cosmoteandrica (da La nuova innocenza, Cens, Milano 1993).

In questo saggio R.P. spiega che l’essere umano è collocato in una realtà pluridimensionale, cosmo teandrica[1] e spiega perché ha formulato questo aggettivo (riferito all’intuizione). La parola indica la complessa dimensione con cui l’essere umano si colloca nella realtà, dove s’incastrano l’uno nell’altro tre diversi mondi (o livelli o piani): un mondo degli dei, un mondo degli uomini, un mondo delle cose materiali. Questa triplice dimensione è stata percepita fin dai primordi dell’umanità in un’innocenza primordiale che non possiamo ripetere, osserva Panikkar, ma soltanto riguadagnare. Essa riflette la stessa struttura umana (corpo, anima, spirito) e la possiamo cogliere quando osserviamo la realtà attraverso queste triplici dimensioni. Cioè attraverso:

  • 1) un aspetto metafisico (o trascendente o apofatico)
  • 2) un fattore noetico (o cosciente o pensante)
  • 3) un elemento empirico (o fisico o materiale).

Le singole parole che formano l’aggettivo riflettono la tripartizione:

  • 1) Theòs. R. P. non da traduzione parla subito di abissale. “Tanto per cominciare l’essere (ogni essere) ha una dimensione abissale trascendente e allo stesso tempo immanente”. La parola rispecchia l’aspetto metafisico nell’uomo: la sua dimensione abissale – cioè inesauribile e insondabile. Panikkar chiama divina questa dimensione perché infinita, “inesauribilità infinità di qualunque essere reale… il suo carattere sempre aperto, il suo mistero, la sua libertà”. Senza questa dimensione sorgiva non vi sarebbe spazio per il cambiamento.
  • 2) Anthropos (uomo, qui dà questa parola). Rappresenta la dimensione umana il cui tratto peculiare “è il carattere trasparente della coscienza”.
  • 3) Contrapposto al caos originario indica il mondo ordinato, regolato da leggi dove tutto è in relazione. “Non vi è cosa che entri nella coscienza umana senza entrare nello stesso tempo in relazione con il mondo (72), con la materia/energia o con lo spazio/tempo. Il linguaggio è la nostra mediazione. La dimensione cosmica è costitutiva del mondo e quindi di ogni parte del reale in quanto parte del tutto”.

Il mondo è un grande corpo che conosciamo in modo imperfetto.

Il fondamento ultimo dell’esistenza di ogni cosa è lo stesso per cui il mondo esiste; la base ultima della speranza dell’uomo non può essere separata dall’esistenza del mondo.

E conclude dicendo: ogni esistenza reale è un nodo unico in questa triplice rete.

Per Panikkar l’intuizione cosmoteandrica rappresenta la coscienza religiosa del nostro tempo e scrive: “Alla radice dell’attuale sensibilità ecologica vi è una tensione mistica e nel fondo della conoscenza propria dell’uomo vi è una necessità d’infinito e di non- intelligibile. E nel cuore stesso del divino vi è un impulso verso il tempo, lo spazio e l’uomo (75).”

Il saggio di Panikkar, restituendo all’essere umano la sua dimensione cosmica, ha il pregio di metterlo in armonia con il mondo; nello stesso tempo, indicando che tale rappresentazione è un bisogno insito nella natura umana, sottolinea, a mio parere, la parzialità di questo punto di vista – riguarda l’uomo non tutte le creature – liberandolo dal finalismo[2] e dall’illusione di essere il padrone del mondo. Nonostante questi aspetti positivi la riflessione delle donne, da diverse angolazioni la si prenda, anche se il pensiero maschile continua ad ignorarla, ha reso più duttile e complesso questo schema, in primo luogo ha sostituito ad un soggetto astratto (indifferenziato) una individualità reale che soffre, gioisce e si pensa. Prendo ad esempio un saggio di Zambrano scritto più di mezzo secolo prima di quello di Panikkar!

Brevi considerazioni sul saggio, Verso un sapere dell’anima, di Maria Zambrano.

Con questo breve saggio del 1934, che segna l’inizio della sua ricerca filosofica, Zambrano si propone di indagare la natura dell’anima, delle sue qualità. Fonda la sua indagine, più che sull’ordine razionale del discorso, sull’ordo amoris – pure presente in filosofia – aperto alle ragioni del cuore e del sentire. La filosofia ha parlato dell’anima (o sull’anima) è arrivato il tempo, scrive Zambrano, di imparare a parlare con il linguaggio dell’anima, di trasformare la Filosofia stessa (il modo di ragionare) per accogliere questo sapere.

Il saggio dichiara uno spostamento della ricerca filosofica rispetto all’asse tradizionale del discorso, ed esprime la necessità di nuovi schemi di rappresentazione; la giovane studiosa ce ne dà un esempio alla fine del saggio quando colloca la ricerca dell’anima in una grandiosa visione cosmica. Purtroppo, per ragioni editoriali, nella Premessa del libro di MZ e il sogno del divino femminile è stato tagliato lo sviluppo di questa immagine siamo a pag. 16, nella frase successiva alla citazione, “Una rivelazione folgorante al cui approfondimento Zambrano dedicherà l’impegno di una vita”.

Radicalmente cancellato dal mio computer, devo riprendere il passo dalla mia tesi di laurea in filosofia del 2004, perché chiarisce alcune cose rispetto a Panikkar e dà ragione di un percorso più articolato, più vicino all’esperienza – e quindi comprensibile, trasformabile.

Nella parte finale del saggio la scrittrice esprime la necessità di lasciare da parte ciò che ha detto la ragione sull’anima per cominciare a capire come l’uomo ha sentito la propria anima, come si è rapportato ai due poli che segnano i suoi confini (o la sua estensione), la natura e Dio. L’anima è un frammento di cosmo che dimora in noi. Possiamo immaginarla in strati concentrici sempre più distanti ed estranei fino a sconfinare col non umano: “Tra l’io e la natura di fuori s’interpone ciò che chiamiamo anima.” Ma si è anche detto che Dio si trova nel fondo dell’anima. Quali le sue radici?

Nella parte finale del saggio la correlazione fra Dio Natura Uomo – concetti della tradizione filosofica – è giocata su una figura cosmica che apre spazi smisurati. E’ la figura dei corpi celesti che ruotano nei cieli. Con le loro orbite vanno intessendo un dramma: distanze ed eclissi, ombre proiettate ora su un corpo ora sull’altro. In questo grandioso scenario va interrogata l’anima. Perché se ne predica la trasparenza? Chiara e profonda. Non sono in contraddizione. Quali radici albergano nella sua profondità? In quali forme si è espressa, quali le ragioni trovate dal cuore approfittando del suo abbandono? Per ora solo domande che mostrano lo scompiglio prodotto nell’antica triangolazione dall’apparire di un nuovo soggetto.

La triangolazione – che continuerà a rimanere perché è un archetipo della coscienza umana – si è trasformata in una quaternità, altra figura da tenere presente; ricorda la tetraktys degli amati pitagorici: il quattro era per loro il numero della giustizia che regola il cosmo, e della manifestazione sul piano fisico.

In questo orientamento diventerà fondamentale per Zambrano la figura della croce nel suo antico significato di orientare la figura umana nello spazio, e nel significato spirituale (e cristiano) di croce di luce, quale viene tracciata dall’aurora nel suo sorgere.

Senza ripetere cose già dette, la posizione di Zambrano rivolgendosi al sentire parla a uomini e donne reali, in carne e ossa, e mostra che la trasparenza della ragione, il suo ragionare astratto non è garanzia di trasformazione, tutt’altro: solo la via del cuore, il sentire – la trasformazione delle pulsioni – ci può portare a trasparenza. Questo processo porterà, inevitabilmente, l’essere umano a trasformare il suo rapporto con la Natura e con Dio.

Se guardiamo le tre figure animiche come sono state raccontate nel libro, Zambrano e il sogno del divino femminile, vediamo che i loro confini sembrano dissolversi nell’aria, fra ombra e luce. Antigone fra il buio della tomba e la luminosità che da lei irradia; Diotima fra il chiarore del suo cammino e l’oscurità che l’avvolge nella parte finale del racconto, l’Aurora che si affaccia all’orizzonte fra le tenebre notturne e la luce piena del sole. Anche il loro radicarsi al suolo perde consistenza. La figura di Antigone sembra sciogliersi nell’acqua sorgiva che la rappresenta; quella di Diotima si confonde con il profilo delle montagne e la sua voce sembra sperdersi nella cantilena marina che l’accompagna; l’Aurora vibra nell’attimo di silenzio che precede il suo sorgere, un attimo di sospensione che tocca tutte le creature e che si allenta al diffondersi della luce. Questo sfaldarsi dei corpi fino a confondersi con gli elementi naturali dona un aspetto sovraindividuale alle figure, le riconsegna al lettore/trice in forma di archetipi orientanti la vita umana, capaci di mettere chi legge in una risonanza senza tempo con gli aspetti più profondi e dinamici della psiche. Sono figure di un cammino interiore.

– – – – – – – – – – – – –

[1] Nota di R. P. Per descrivere questa intuizione sarebbe più esatta l’espressione teantropocosmica perché anthropos si riferisce all’uomo come essere umano, cioè come diverso dagli dei, mentre aner tende a indicare il maschio, “colui che genera”, però per R.P. l’espressione da lui scelta suona meglio e è accettabile dal punto di vista linguistico perche nella radice indoeuropea (a cui risale) il nome aner indicava nel complesso l’umano.

[2] Concezione in cui tutto, ogni ente, concorre ad un fine ultimo – il bene – all’interno della quale l’uomo considera se stesso il fine della creazione e che il mondo sia stato fatto per lui.