Comunità del Luogo Pio

Mai dire fine

orizzonti di speranza

 

 

presentazione del libro (*)

 

         Di fronte ad un libro (*) appena uscito, ma anche di fronte a qualunque libro, la prima domanda che uno si pone è: perché è stato scritto? E la seconda: perché potrei/dovrei leggerlo?

         La risposta alle due domande, per quanto riguarda questo volume, è sommariamente contenuta nella prefazione. La comunità del “Luogo Pio”, che ha curato la pubblicazione, ci dice che il libro è stato dato alle stampe per portare a compimento un progetto già messo parzialmente in cantiere dall’autore qualche mese prima di lasciarci, e, soprattutto, perché i suoi scritti appaiono ancora attuali, profondi, lucidi, finalizzati ad una ricerca “che non offre soluzioni, ma apre orizzonti”. Quest’ultimo punto costituisce anche la risposta al perché leggere questo libro.

         Ma facciamo un passo indietro per una sommaria presentazione del volume. Si divide in due parti più due appendici. La prima parte è composta da 15 “lettere ai nipoti”, un genere letterario che Martino coltivava da diversi anni; una trentina di queste “lettere” era già stata raccolta in un volumetto dal titolo L’erba e le pietre, ed EdUP, Roma, 1997. La seconda contiene nove scritti degli ultimi anni di vita, intorno a vari argomenti.

         In tutti questi scritti, diversi per ampiezza oltre che per genere letterario, Martino Morganti, come dicevamo, non offre soluzioni, non propone tesi definitive, ma apre interrogativi, stuzzica curiosità, mette in discussione verità “indiscutibili”, provoca, stimola, propone riflessioni non banali traendole spesso (soprattutto nelle “lettere”) da piccoli o grandi fatti di cronaca, a volte anche personali; ed anche quando affronta temi di notevole spessore lo fa suggerendo approfondimenti, aprendo prospettive, proponendo soluzioni, ma senza la pretese di chiudere il discorso, senza insofferenze verso chi pensasse differentemente.

         Sono, come dicevamo, scritti diversi: Ma se vogliamo trovarci un “filo rosso” che dia loro una certa unità possiamo forse trovarlo nella tensione che guidava Martino in tutte le sue cose, anche negli scritti contenuti in questo libro: contribuire alla bonifica della mente ed al recupero di buona umanità, a cui tutte le religioni e le fedi dovrebbero tendere per essere davvero buono e lieto annuncio.

         Facciamo qualche esempio. Abbiamo estrapolato soprattutto degli interrogativi, senza proporre le risposte (seppur provvisorie) cui giunge il testo; ci pare un metodo utile per invitare a prendere in mano il libro ed andarsi a cercare le risposte da soli!   

Dalle lettere ai nipoti.

- Di fronte a suicidi di massa di appartenenti a sette religiose si chiede: le religioni, e Dio stesso, sono suggeritori, istigatori di morte? Perché non abolire le religioni?

- È corretto parlare di “sacrificio della messa”, nel quale ci nutriamo di “ostia”, cioè di “vittima”, cioè del Figlio ucciso per volontà di un Padre che può essere soddisfatto solo col sangue del suo unigenito?

- I titoli “vanitosi” nella chiesa cattolica sono innumerevoli: sua santità, beatissimo padre, sua beatitudine, eminenza reverendissima, eccellenza, monsignore, reverendissimo padre, ecc. Ma non siamo tutti fratelli?  E inoltre non c’è il rischio che per un titolo in più ci si preoccupi di non dispiacere al superiore invece di servire con libertà evangelica la causa del regno?

- Molti cattolici sono stati chierichetti. Ma non è anche vero che molti restano chierichetti a vita, più papisti del papa, “inferiori” e sudditi a vita, senza mai riuscire a diventare adulti?

- Ben vengano i “mea culpa” da chiese e da stati. Ma non c’è spesso contraddizione fra pentimenti e comportamenti? Non c’è, ad esempio nella chiesa cattolica, insieme alla riabilitazione degli emarginati di ieri, una nuova emarginazione di oggi, accanto alla restituzione di parola ai morti l’imposizione del silenzio ai viventi?

- Dio è teocentrico o antropocentrico? Betlemme è la stazione d’arrivo dell’adorare o è principalmente il luogo dove Dio spinge il suo antropocentrismo fino a farsi lui stesso uomo?

- La distinzione-separazione-contrapposizione tra anima e corpo può avere cattive incidenze sulle nostre concezioni e sui nostri comportamenti?

- Oggi la chiesa cattolica si spende spesso contro la pena di morte. Ma è sempre stato così? È divertente sentire da Martino come finì il suo desiderio di fare una tesi di laurea sulla pena di morte in un ateneo pontificio della capitale cinquant’anni fa.

 

- Nell’aldilà dovrò ritrovarmi nella “mia” chiesa, separato dagli “altri”? Il cielo deve per forza essere “religioso”? Non dovrebbe essere sufficiente, alle frontiere dell’altrove, essere della “razza umana” ed aver vissuto nella carità, con o senza religione?

Dagli altri scritti

- L’appartenenza religiosa vincola la coscienza? Appartenenza uguale a ordine, coscienza uguale a disordine? Le appartenenze tendono per loro natura a demonizzare il dissenso, in tutte le sue forme,  e quindi a condannarlo?

- L’immaginario, ciò che è prodotto dall’immaginazione e che non ha riscontro oggettivo con la realtà, è legittimo nell’ambito religioso? Con quali caratteristiche? Quali comportamenti umani produce? Uno di questi non è forse la violenza?

- Sempre nell’ambito della violenza, non c’è un rapporto stretto tra appartenenza religiosa totalizzante, esclusiva, collegata magari ad altre appartenenze, e violenza individuale o collettiva, subita o inflitta?

- Cosa accomuna l’ultima cena di Gesù con gli amici alle nostre messe domenicali? Ci sono state trasformazioni prevaricanti? La messa rinnova ed attualizza il sacrificio di Gesù sulla croce? È più importante la celebrazione o il luogo della celebrazione? La presenza reale (transustanziazione) è più importante del significato e della finalità del pane e del vino?

- Il giubileo del millennio. L’uomo per il giubileo o il giubileo per l’uomo? Che senso hanno i pellegrinaggi e le indulgenze? Non dovrebbe il giubileo passare dal tempo delle religioni al tempo degli uomini?

- La base nella chiesa. Base è termine compatibile con chiesa? La storia della chiesa non è in realtà una storia di papi, di vescovi e di qualche concilio? Il concilio Vaticano secondo è un sogno morto all’alba?

- La povertà: è solo un argomento buono per discettazioni fra ricchi? I poveri non dovrebbero essere una brutta realtà con la quale confrontarsi? La proprietà privata è ancora un diritto assoluto, oppure è un diritto condizionato? Essere per i poveri o con i poveri? L’”opzione per i poveri”, spesso sbandierata, non è per caso solo una formula?

         Anche nell’appendice I c’è quel tocco di originalità che ha spesso caratterizzato Martino Morganti. È uno scritto incompiuto delle ultimissime settimane di vita. Parlando di ortoprassi lancia una provocazione: dire la verità o fare la verità? E, introducendo una netta distinzione tra verità e vero, afferma: ”Non c’è niente che mi terrorizzi più della verità e non c’è niente che mi affascini più del vero”. Da approfondire!

         Crediamo di aver risposto, con questi brevi spunti, alle domande iniziali. E siamo fiduciosi che questo libro possa essere per molti un punto di partenza per ulteriori riflessioni, approfondimenti e proposte.

 

                                                             La comunità di base del Luogo Pio.

 

(*) Martino Morganti, Mai dire fine, orizzonti di speranza, ed. Il Pozzo di Giacobbe, Trapani, 2005

 


Enzo Mazzi

 

Fra Martino dentro la fabbrica

 

Da l’Unità 23 ottobre 2005

 

Un francescano operaio-prete che scelse di stare a fianco dei “minores”, dei lavoratori e che quando gli venne imposto di rientrare in convento, si rifiutò e venne espulso dall’Ordine. In un libro Mai dire fine la sua storia

“Mai dire fine” è un inno alla vita. E’ molto bello e intrigante questo titolo del libro postumo di Martino Moranti, frate che insieme ad altri confratelli ha scelto la fraternità della strada per realizzare l’ideale francescano (Ed. Il pozzo di Giacobbe, Trapani, 2005). E’ uno sporgersi ardito alla speranza, come dice il sottotitolo. La Comunità di base di piazza del Luogo Pio di Livorno, curatrice della pubblicazione, ci dice nella Introduzione che “Mai dire fine” è una frase nata nella testa di lui. L’aveva pensata come titolo di un volumetto che un paio di mesi prima della morte stava preparando per raccogliere alcune sue “Lettere ai nipoti” provenienti dalla collaborazione mensile con il periodico torinese Tempi di fraternità.

E’ certamente una pretesa credere di aver capito il senso che aveva per Martino quella frase. Ma ritengo che la comprensione della profondità espressa da quel titolo si sveli dopo la lettura del libro. E magari dopo averlo riletto, come è accaduto a me, avvinto da temi ed esperienze intriganti. M’intrattengo un po’ sul significato del titolo perché credo che costituisca uno degli snodi più intimi della esperienza e del pensiero dell’autore. Uno snodo, non so come altrimenti chiamarlo, complesso e aggrovigliato ma molto fecondo.

Le contraddizioni. E’ vero che quel motto è un inno alla vita, ma a quale senso della vita? Perché ci sono modi diversi e anche opposti di dare senso alla vita. Si può pensare la vita, nelle forme individuali in cui si realizza, come realtà che in sé sarebbe immortale e che invece purtroppo ha una fine senza scampo, un annullamento funesto. La morte: un evento tragico dovuto non alla essenza vera della vita ma piuttosto causato dal male, dal peccato, da una punizione divina: “…Per mezzo di un solo uomo il peccato entrò nel cosmo e a causa del peccato la morte” (Paolo ai Romani 5,12). E non è solo all’interno delle culture religiose che cova questo senso della fine tragica come condanna a morte della vita. Si annida anche nelle culture laiche. La fine della vita è vista laicamente non più come punizione divina ma come frutto di un destino malvagio, una insensatezza che sfugge radicalmente e per sempre alla nostra comprensione. C’è anche chi considera la fine della vita come esito dovuto a cause contingenti che sono sfuggite fino ad oggi al nostro potere ma che un domani possono essere vinte rendendo immortale la nostra individualità. In ogni caso, sia nelle religioni sia nelle culture laiche sia nel sentire comune predomina una visione della morte come realtà a sé, separata dalla vita, contrapposta alla vita, nemica della vita. E’ in conseguenza di una tale separatezza e contrapposizione fra la morte e la vita che si assolutizzano ambedue: la vita da un lato come bene assoluto e la morte dall’altro come male assoluto. E’ in nome di una tale contrapposizione che non solo si nega l’eutanasia ma si fa di tutto, proprio di tutto, per prolungare la vita anche a costo di sofferenze indicibili e non di rado lesinando le cure palliative. E’ in nome di tale contrapposizione che si colpevolizzano come assassine le donne che abortiscono e si dà un carattere restrittivo e punitivo alla legislazione sulla procreazione assistita. E però è sempre in nome di tale contrapposizione, per affermare i propri interessi vitali, che si legittima la rapina liberista ed è per difendere la vita propria o la sacra vita della patria, che si legittima la violenza, la pena di morte e infine la guerra.

In tale orizzonte, “Mai dire fine” significherebbe tendere a sconfiggere definitivamente la morte nemica assoluta e riportare la vita alla sua essenza di assoluto separato dalla finitezza.

E’ questo che intendeva Martino? Leggendo e rileggendo, mi sembra di poter dire che egli si era in gran parte liberato da questa cultura contrappositiva.

Considerava la finitezza come l’essenza stessa vita. “Mai dire fine” per lui aveva un significato di continuità trasformatrice, di vitalità cosmica in perenne divenire, non di assolutizzazione ed eternizzazione del già dato, del già realizzato, del già edito. “Non penso alla morte”, scrive nella poesia che dai curatori è stata posta con tanta sensibilità e intelligenza all’inizio del volume. E di nuovo siamo nel pieno della contraddizione. “Non pensare” può voler dire rimuovere. Rimuovere la finitezza e pensare la vita senza fine. Pensare la vita come assoluto, come eterno (destinato all’eternità beata o dannata) e pensare la morte come condanna, nemica della vita, da rimuovere mentalmente e anche fisicamente finché possibile.

“Non penso alla morte” per Martino è ben altro. Nella premessa che egli aveva scritto per il volumetto che come si è detto stava preparando, pubblicata ora a pagina 35, egli spiega il perché del titolo “Mai dire fine”, giocando, come gli era congeniale, sul duplice significato della parola “fine”: “Scommetto sul fine a dispetto della fine. …La fine è brutta, funerea: segna il punto o il momento in cui qualcosa o qualcuno termina. Il fine è bello, arioso: propone uno scopo, un obiettivo; apre e sostiene la continuità”. E fin qui siamo ancora nell’incertezza nebbiosa del senso. Quando si dice groviglio… Ma poi il pensiero si rischiara e si dipana. “Non trascurabile – egli scrive - un’ipotesi buonista: che questa spartizione sia stata programmata in vista di un matrimonio nel quale la fine, accasandosi appunto con il fine, cessi di essere terminale e diventi misterioso consegnarsi ad altri prosegui”. E’ letterariamente bella questa immagine del matrimonio fra vita e morte. Ma soprattutto è vera, di quella verità trasparente, luminosa, capace di dare una svolta al cammino umano storico ed esistenziale. Dalla morte nemica della vita, alla morte sposa amata della vita, “sorella morte” per Francesco d’Assisi, tanto amata da scomparire quasi nell’abbraccio con la vita (“Non penso alla morte” – citato sopra). Devo continuare nella citazione di una riflessione che può apparire filosofica ma è invece esperienziale e mistica. Forse se non sbaglio una delle ultime riflessioni di una vita spesa a cercare la sapienza nelle cose vere: la condivisione del pane, del lavoro, della strada, della fatica di vivere oltre i confini dell’appartenenza e dell’omologazione. “Un matrimonio garantito – scrive ancora Martino -. Cosicché la fine non è mai in nessun caso legata definitivamente al suo zittellaggio, al suo essere priva de il fine. Tanto da rendere la fine vocabolo improprio almeno quando pretenda di indicare il definitivo, il senza seguito. Già: la fine termine improprio. Troppo bello per essere vero? O troppo bello per essere dimostrabile? Più facile dimostrare il contrario. La bara sembra sufficiente ad irridere: ciò che essa accoglie, incassa e sigilla, è fine accertata. Ma la bara che certifica senza possibilità di dubbi una morte è in grado di attestare la morte? La bara ignora troppe cose. La bara non ha letto Lao Tse: ‘Ciò che il bruco chiama fine del mondo, il resto del mondo chiama farfalla’ ”.

Dicevo all’inizio che questo tema della finitezza dell’esistenza è uno degli snodi più profondi del pensiero di Martino.

Sono convinto che da lì, da quella scaturigine sapienziale, si dipartono le scelte più impegnative della sua vita: la scelta della fraternità francescana, la scelta della fraternità della strada oltre il convento, conforme alla vita dei “minores”, in mezzo ai lavoratori, ai laici, ai poveri, la scelta del lavoro in fabrrica, la scelta della comunità di base e delle comunità di base.

Nel libro queste relazioni ci sono tutte. Sembrano meno presenti le relazioni intessute nella fabbrica. Ne parla poco. A differenza, mi pare, dei “preti operai” che riflettono apertamente sulle loro esperienze di lavoro. L’esperienza di Martino si potrebbe forse definire come quella di un “operaio prete”, dove l’accento è sul termine operaio, piuttosto che quella di un “prete operaio” dove invece si marca di più la missione di prete vissuta in ambiente operaio, facendosi operaio. Mi sono interrogato. Anch’io in fondo non parlo molto delle mie esperienze di inserimento nel mondo del lavoro come operaio. Eppure sono esperienze che hanno lasciato in me il segno e quale segno. Forse è pudore. Forse è bisogno di non enfatizzare una scelta, quella del lavoro, che per molti è una norma se non una condanna e che invece per un prete si presta ad essere mitizzata come scelta eroica. Che sia così anche per Martino lo fa ben intendere lui stesso, mi sembra, nella risposta al Ministro Provinciale toscano dell’Ordine francescano che nel 1996 gli aveva imposto di rientrare nella fraternità del convento, abbandonando la fraternità della strada, pena l’espulsione dall’Ordine (pag. 247). L’operaio-prete non accetta il rientro in convento come un “tornare a casa”. In nome dell’appartenenza al clero (prete o frate) non può rinunciare all’appartenenza alla strada che considera primaria proprio in nome della conformità all’ideale francescano dell’inserimento fra i “minori” della società. Così scrive testualmente nella risposta al Provinciale dell’Ordine francescano: “Cosa la Provincia mi ha (ci ha) chiesto e richiesto che non avesse il senso di un … ritorno a casa? …Comunque sempre un chiedermi un “sì” al prezzo di un non irrilevante “no”: all’inserimento tra i “minori” della società; alla convergenza comunitaria che stava crescendo in franchezza evangelica; alla fabbrica alla quale avrei dovuto confessare di starci in temporanea incursione e non, come tutti, in faticosa condizione di vita”. Come non può contrapporre vita e morte così non accetta di contrapporre fraternità francescana e fraternità della strada e della fabbrica. E’ questa la sua coerenza che scorre limpida nel libro come nella sua vita. La si ritrova nella descrizione poetica con cui il libro si apre, quella del citato sopra “Non penso alla morte”: “Ogni segno di vita mi stupisce: una foglia in più è stordimento massimo. Lo stordimento del veder nascere senza capire come possa esserci nascita, vita. E della foglia in più so anche meno del nulla che so di me”.

 


Dea Santonico

Dalla presentazione del libro effettuata presso la Comunità di  San Paolo

dicembre 2005

Vorrei iniziare con un ringraziamento davvero sentito per la comunità del Luogo Pio per il regalo che ci hanno fatto con la pubblicazione di questo libro, che ci permette di rimettere in circolo ed approfondire temi così cari a noi che con Martino abbiamo vissuto e viviamo l’esperienza delle comunità cristiane di base. E’ bello poter utilizzare questo tempo insieme nell’incontro di oggi per discutere a partire da ciò che Martino ha detto nel libro, ma anche per andare avanti e dire noi ciò che Martino non ha detto. Credo sia questo il modo migliore di raccogliere l’ invito che ci viene dal titolo del libro: “Mai dire fine”.

Enzo Mazzi nella sua premessa dice: “La morte di Martino non chiude nulla: lo dice bene il titolo del libro: Mai dire fine”. Il fatto che la comunità di Livorno abbia sentito il bisogno e il desiderio di pubblicare questo libro postumo a 7 anni dalla morte di Martino, il fatto stesso che siamo qui oggi a parlarne sembrerebbero dar ragione ad Enzo. Siamo qui per offrire alle parole di Martino – che Enzo dice volano sì, ma come volano i semi – un terreno fertile su cui cadere. E tuttavia sento forte il bisogno di confrontarmi con voi su questa fine-nonfine e vorrei farlo proprio a partire dal modo in cui io ho vissuto la morte di Martino.

Per me Martino é legato ai collegamenti ed ai convegni delle CDB. Non c’era con lui – anche per motivi geografici – una frequentazione assidua. Avevo saputo della sua malattia, ma la sua morte mi ha colto di sorpresa e – cosa davvero inaspettata - mi ha lasciato una sensazione di paura. Non era solo il dolore per la morte di un amico, era la perdita di un riferimento. Di più. Era come se la morte di Martino mi mettesse di fronte a qualcosa a cui avrei fatto volentieri a meno di pensare: quelli che avevo vissuto come riferimenti nella mia esperienza di tanti anni nelle CDB potevano lasciarci. Certo noi dalla base ci sentivamo nel diritto di contestarli quei riferimenti, di criticarli, come e quando volevamo, ma dovevano rimanere lì fermi e buoni! E invece Martino se n‘era andato. E la paura in fondo era questa: la morte di Martino segnava l’inizio della fine dell’esperienza delle CDB?

E di nuovo mi ritrovo costretta - complici Martino e Gianni Novelli che mi ha chiesto di fare la presentazione del libro - a riconfrontarmi con questa paura. E non è facile, perché sono consapevole che questa paura nasconde una contraddizione - mia e forse non solo mia – che ha qualcosa a che fare con il modo come sentiamo e viviamo il nostro essere “di base” (qualche volta – e forse questo è uno di quei casi - il massimo che riusciamo a fare rispetto alle nostre contraddizioni è prenderne coscienza. Non è tutto, ma è già qualcosa!)

Uno degli scritti del libro si intitola: “La base nella chiesa: un modo di dire o di fare?”. Scrive Martino: “La storia della chiesa è storia di papi e di vescovi o anche di non papi e non vescovi (santi o eretici, movimenti o avvenimenti dentro o fuori la chiesa …) ma se e in quanto entrati in qualche modo in rapporto con papi e vescovi. Storia di una chiesa dimezzata, limitata ai soli abitanti dei suoi piani alti ….. Il risveglio della base è risultato correttivo essenziale per restituire la chiesa al suo tutto, per ricondurre la chiesa ad assemblea, popolo radunato dalla Parola che chiama tutti alla libertà e nessuno a subordinazioni e soggezioni ..… Base – aggiunge ancora Martino – provvidenziale per la conversione di una chiesa anomala, di una chiesa storicamente smarrita, in difficoltà rispetto al modello evangelico: - Voi non fatevi chiamare rabbi perché uno solo è il vostro maestro, ma voi siete tutti fratelli. E non chiamate padre nessuno di voi sulla terra perché uno solo è il padre vostro, quello celeste” (Matteo 23, 8-10) ..... Base come il luogo in cui abitare, pensare, agire, sperare ..… Una chiesa altra nega la chiesa dei confini e rivendica la chiesa evento, la chiesa che è là dove: - due o tre si riuniscono nel mio nome. Due o tre … la base! ..… La chiesa-evento, la chiesa altra passa, si costruisce attraverso quelle che le CDB amano chiamare riappropriazioni:

  • riappropriazione della Parola
  • riappropriazione teologica
  • riappropriazione ecclesiale
  • riappropriazione liturgica”

Questo il sogno di Martino e il nostro.

Ma se “la storia della chiesa è storia di papi e di vescovi”, noi, che abbiamo messo al centro la base, non possiamo costruire la chiesa dei Martino, Ciro, Enzo, Franco, Giovanni … (e non intendo con questo paragonarli ai papi ed ai vescovi!). Non ce lo possiamo permettere! Almeno se vogliamo che il nostro essere base sia un modo di fare e non un modo di dire – per riprendere le parole di Martino.

Difficile? Sì, tanto, ma inutile nasconderci: chi vuole cambiare le cose deve essere più bravo. A chi le cose le vuole lasciare come sono è richiesto di meno, infinitamente di meno. Basti pensare alle riappropriazioni di cui parla Martino e a quello che hanno voluto dire per noi nel cammino di questi anni.

Nel suo scritto: “Dalla cena del Signore alla Eucaristia nostra” Martino dice: “L’eucarestia è un’azione, un fatto che, se ripetuto, non potrà mai essere lo stesso ..… E’ normale che cambi come cambia tutto ciò che vive, è normale che sia diversa nel trascorrere degli anni, è normale che sia diversa a seconda dei luoghi ….. Anormale è l’eucarestia che resta ferma ed immobile: l’eucarestia non è un’anfora etrusca che, se conservata, denuncia il tempo ma rimane se stessa ….. E’ la res (il significato) che comanda sul signum (il significante) il quale dovrà adattarsi per rimanere fedele ai contenuti. Se, infatti, questi (i contenuti) possono attraversare immutabili il tempo e lo spazio, ciò che li esprime può e deve variare con il variare dei modi di comunicazione ….. Pesa – continua Martino – il cambio di gestione dell’eucarestia: dalla comunità a qualcuno per conto e in sostituzione della comunità ….. E’ diventato normale dire: ‘ascoltare la messa, assistere, ricevere i sacramenti prodotti dai sacerdoti. E il linguaggio è fedele alla pratica ….. In troppi sono contentissimi di arrivare alla messa e trovarla già confezionata”.

Nella prassi delle nostre comunità le celebrazioni eucaristiche sono tutt’altro che confezionate: il commento alle letture c’è grazie alla preparazione fatta dal gruppo di turno, non è scontato neanche trovare il pane ed il vino, se non c’è qualcuno o qualcuna che si preoccupi di portarli. Da spettatori-spettatrici siamo davvero diventati soggetti, protagonisti-protagoniste nelle nostre celebrazioni.  Interessante notare che questa riappropriazione è a tutto campo. Nella sua lettera: “Funeralando”, scritta pochi giorni prima di morire, Martino parla di riappropriazione del funerale e inventa un verbo “perché rimanga sveglia l’avvertenza che il funerale è un’attività, un evento, un incontro vivo e da vivere nella vitalità della vita, e non appuntamento con la vita conclusa e finita di lui/lei, celebrata da altri per altro nella passività di riti prefissati e pilotati da altri”.    

Riappropriazione dunque come elemento essenziale per costruire dalla base una chiesa altra. Bello? Sì, ma che fatica! Peccato che a questa fatica non possiamo sottrarci. Ci tocca! 

L’essere base è nel nostro DNA. Quando abbiamo cominciato il nostro viaggio, il nostro esodo dalle basiliche, dalle parrocchie e dai conventi per costruire le comunità di base, abbiamo fatto un biglietto di sola andata. Almeno per quanto riguarda l’essere di base e l’impegno a quelle riappropriazioni di cui parla Martino. Su questo non c’è e non ci può essere ritorno.

Grazie, Martino, per quello che hai detto e scritto, per quello che hai fatto nel nostro progetto di costruzione di una chiesa altra, ma grazie anche per quello che non hai detto e non hai fatto, perché è ciò che rimane da dire e da fare a noi.