Elio Rindone

Un’enciclica. Sorprendente.

http://www.italialaica.it/ 16 febbraio 2006

 

 

È noto che Joseph Ratzinger era considerato uno dei membri più tradizionalisti del collegio cardinalizio e l’elezione al soglio pontificio difficilmente poteva produrre cambiamenti nelle sue

convinzioni teologiche. Tuttavia la sua prima enciclica riserva qualche sorpresa anche per chi non si aspettava dal nuovo papa particolari aperture rispetto alla linea del suo predecessore

 

L’eros greco

Nella Deus caritas est si legge, infatti, che “All’amore tra uomo e donna, che non nasce dal pensare e dal volere ma in certo qual modo s’impone all’essere umano, l’antica Grecia ha dato il nome di eros”(n. 3). Quindi, dopo aver ricordato che Nietzsche ha accusato il cristianesimo di avere avvelenato l’eros, il papa rigetta la critica affermando che già l’Antico Testamento, e ben a ragione, aveva combattuto quella concezione che, vedendo “nell’eros innanzitutto l’ebbrezza, la sopraffazione della ragione da parte di una «pazzia divina» che strappa l’uomo alla limitatezza della sua esistenza [. lo ha] celebrato come forza divina, come comunione col Divino”(n. 4). L’eros è così divenuto una “forma di religione” corrotta, una vera “perversione della religiosità”. Infatti, “la falsa divinizzazione dell’eros, [.] lo disumanizza”. Ed eccone la prova: “nel tempio, le prostitute, che devono donare l’ebbrezza del Divino, non vengono trattate come esseri umani e persone”(ivi).

 

a) Eros e prostitute sacre

Già queste affermazioni iniziali suscitano più di una perplessità.Anzitutto, è corretto ridurre l’esperienza dell’eros nel mondo antico all’ebbrezza del Divino raggiunta mediante le prostitute sacre? Una presentazione più rispettosa della complessità di quel mondo avrebbe richiesto almeno un cenno alla teoria platonica, quella che, a giudizio di uno specialista come il Flacelière, “caratterizza meglio, agli occhi della posterità, l’ideale greco dell’amore, ad un tempo slancio di tutto l’essere e conoscenza intellettuale, compimento dell’uomo e iniziazione alla vita divina »(R. FLACELIERE, L’amour en Grèce, Paris 1960, p 259). E basta leggere il dialogo platonico dedicato al tema dell’amore, il Simposio, per trovarsi di fronte a un ricchissimo ventaglio di punti di vista sull’amore.

Ad esso si riconosce la capacità di indurre l’uomo a compiere azioni magnanime, generando “la vergogna delle bassezze e l’aspirazione per le cose nobili, senza le quali né stato né singoli possono compiere grandi e belle cose”(178 d). Si distingue poi l’amore volgare, che si rivolge prevalentemente ai corpi e che è incostante, perché la bellezza corporea sfiorisce, da quello celeste, che è duraturo perché la bellezza spirituale col passare del tempo si accresce: “colui che ama l’anima, che è la parte nobile, rimane amatore per la vita, in quanto fuso con una cosa che dura”(183 e), tanto che è meglio “amare persone nobilissime ed eccellenti anche se siano più brutte di altre”(182 d). Si coglie inoltre la dimensione cosmica dell’amore, dinamismo che non riguarda solo l’uomo, essendo presente anche “nei corpi di tutti gli animali e nelle piante della terra e, per dirla in una parola, in tutti gli esseri”(186 a).Ancora, si ricorda che l’amore nasce dall’esperienza di solitudine e di indigenza propria dell’attuale condizione umana, ed è quindi nostalgia dell’unità perduta, brama di unione e di completamento: in ciascun uomo infatti c’è il desiderio “di congiungersi e di fondersi con l’amato per formare, di due, un essere solo”(192 e). Infine si collega l’amore alle anime raffinate e sensibili al bello, tanto che “se capita in una che abbia sentimenti rozzi se ne va via, e invece rimane ad abitare in una dai sentimenti delicati”(195 e).

Ma il dialogo tocca il suo vertice concettuale e artistico quando Platone espone la propria concezione dell’eros, inteso come desiderio di bellezza. Tutto ciò che è bello attira l’uomo, ma ben presto l’amante si accorge che la bellezza delle anime supera di gran lunga la bellezza dei corpi e, affascinato dal mondo spirituale, percorre il cammino d’amore sino alla contemplazione dell’assoluto: “a chi sia stato educato nelle questioni d’amore attraverso la contemplazione graduale e adeguata delle diverse bellezze, una volta giunto al grado supremo dell’iniziazione amorosa, all’improvviso si rivelerà una bellezza meravigliosa [.]: bellezza eterna, che non nasce e non muore, non s’accresce né diminuisce, che non è bella per un verso e brutta per l’altro, né ora sì e ora no [.], né bella per alcuni ma brutta per altri. [.] Questo, o nessun altro, caro Socrate, [.] è il momento degno di essere vissuto per l’uomo: quando contempli la bellezza in sé”(210 e-211 d).

Certo un’enciclica pontificia non è tenuta a offrire una trattazione completa della cultura classica, ma se certi temi si vogliono affrontare è necessario un certo equilibrio, e non pare che questo ci sia se si tace il fatto che la Grecia antica ha parlato dell’amore in termini che si possono condividere o meno ma che sono innegabilmente di una grande nobiltà spirituale e si presenta il fenomeno delle prostitute sacre come l’unica via proposta per condurre gli uomini all’ebbrezza del Divino.

 

b) Amore tra uomo e donna

Non minori perplessità suscita l’affermazione che l’antica Grecia abbia dato il nome di eros ‘all’amore tra uomo e donna’. È noto, infatti, che nella Grecia classica le donne non ricevevano un’istruzione, dovevano occuparsi della casa e dei figli e neanche a tavola stavano col marito: di conseguenza difficilmente poteva esserci un’intesa spirituale tra uomo e donna. E infatti il Platone del Simposio, a proposito degli uomini che sono fecondi nel corpo e cercano le donne, affidando alla procreazione dei figli il loro desiderio di vincere la morte, dirà che non si tratta di vero amore ma solo di rapporto fisico.

Gli uomini che sono gravidi nell’anima, invece, cercano i giovani maschi e fecondano il loro spirito: il vero amante è attirato “dai bei corpi piuttosto che da quelli disgraziati e se mai incontri un’anima bella e nobile allora vi si attacca, affezionato dell’uno [il corpo] e dell’altra [l’anima], e subito con questa persona gli vengono facili mille ragionamenti sulla virtù, e su ciò che deve essere un uomo eccellente e su quali debbano essere le sue occupazioni, cominciando così ad educarla”(Simposio 209 b-c).Espressione privilegiata dell’eros che vince la morte è dunque, in questa prospettiva, il rapporto pedagogico. In virtù di esso, infatti, l’amante e l’amato generano figli migliori di quelli corporei, e cioè creazioni artistiche e progetti politici: “essi hanno tra loro più intima comunione e più salda amicizia di quella che viene dalla procreazione dei figli, perché sono accomunati dall’avere dei figli più belli e immortali”(209 c).

È vero che nelle Leggi il vecchio Platone mostrerà la sua crescente diffidenza nei confronti dell’istinto sessuale, così difficile da moderare, restringendone l’ambito esclusivamente al matrimonio e finalizzandolo alla procreazione, ma la pretesa di stabilire per legge che “nessuno osi toccare nessun altro cittadino legittimo, nessun’altra persona libera se non la propria moglie e che nessuno semini semi illegittimi e bastardi nelle concubine e semi infecondi negli uomini, contro natura”(Leggi 841 d) è un’aspirazione autoritaria che poco ha a che fare con l’esperienza amorosa più comune nel mondo classico. Evidentemente è lecito non condividere l’esaltazione dell’amore omosessuale ma non è affatto lecito identificare l’eros greco con l’amore tra uomo e donna.

 

c) Avvelenamento dell’eros

Una terza perplessità sorge per l’eccessiva facilità con cui il papa si sbarazza dell’accusa rivolta al cristianesimo di avere avvelenato il godimento della sessualità. La chiesa, sostiene l’enciclica, con i suoi comandamenti e i suoi divieti non ha distrutto l’eros ma lo ha disciplinato e purificato: “questo non è rifiuto dell’eros, non è il suo «avvelenamento», ma la sua guarigione in vista della sua vera grandezza”(n. 5). Chi si dà la pena di rivisitare la tradizione cristiana ha, invece, un’impressione ben diversa.

S. Agostino, per esempio, considera la concupiscenza, e cioè il desiderio sessuale, un male in sé e afferma che solo in quanto finalizzato alla procreazione “il legame coniugale trasforma in bene il male della concupiscenza”(De bono conjugali 1, III, 3). S.Girolamo è ancora più radicale, perché svaluta persino il matrimonio e invita ad astenersi totalmente dalla vita sessuale: “prendiamo la scure e tagliamo le radici dell’albero sterile del matrimonio. Dio aveva permesso il matrimonio agli inizi del mondo. Ma Gesù Cristo e Maria hanno consacrato la verginità”(Lettera 22 a Eustachio). Se non arriva a tali eccessi, anche s. Tommaso, però, ritiene che dopo il peccato originale il piacere sessuale sia intrinsecamente disordinato: infatti l’uomo “durante il coito diventa una bestia, perché non può moderare con la ragione il piacere del coito e il fervore della concupiscenza”(Somma Teologica I, 98, 2 ad 3m), sicché si può parlare della “sconcezza della concupiscenza, quale si trova nel coito nello stato attuale”(ivi I, 98, 2). Se moralisti cristiani, confessori, direttori spirituali hanno indotto intere generazioni a considerare il piacere sessuale qualcosa di sconcio come scacciare il sospetto che abbia ragione Nietzsche e torto il papa?

 

 

La Bibbia e l’agape

 

Continuando a scorrere l’enciclica, ci si accorge che riserva non poche sorprese non solo la lettura della grecità che essa propone ma anche quella della Bibbia. Infatti, a proposito delle parole della Genesi - «l’uomo abbandonerà suo padre e sua madre e si unirà a sua moglie e i due saranno una sola carne»(2, 24) - il papa dice che “in un orientamento fondato nella creazione, l’eros rimanda l’uomo al matrimonio, a un legame caratterizzato da unicità e definitività; così, e solo così, si realizza la sua intima destinazione.All’immagine del Dio monoteistico corrisponde il matrimonio monogamico. [.] Lo stretto nesso tra eros e matrimonio proprio della Bibbia quasi non trova paralleli nella letteratura al di fuori di essa”(n. 11).

 

a) matrimonio monogamico

Forse, però, questo ‘stretto nesso’ che non si trova ‘nella letteratura al di fuori di essa’ non si trova neanche nella Bibbia.Almeno non ce lo hanno trovato né gli agiografi né i grandi protagonisti delle storie bibliche, che hanno praticato per secoli la poligamia senza subire alcuna censura morale. Basti pensare, per esempio, a Giacobbe, che sposa le due figlie di Labano: egli “terminò la settimana nuziale [con Lia] e allora Labano gli diede in moglie la figlia Rachele”(Genesi 29, 28). A Davide “Saul diede in moglie la figlia Mikal”(I Samuele 18, 27). Ma Davide prende ancora altre due mogli: sposa, infatti, Abigail, ma “aveva preso anche Achinoàm da Izreèl e furono tutte e due sue mogli”(ivi 25, 43). E sappiamo che la vita affettiva di Davide non si ferma qui, perché sposerà anche la vedova di Uria, Betsabea: “Davide la mandò a prendere e l’accolse nella sua casa. Ella diventò sua moglie e gli partorì un figlio”(II Samuele 11, 27). Di Salomone, poi, non è neanche il caso di parlare: “Aveva settecento principesse per mogli e trecento concubine”(I Re 11, 3). Sembra, quindi, difficile parlare di corrispondenza tra monoteismo e matrimonio monogamico, se è vero che quest’ultimo si è affermato lentamente in Israele come presso altri popoli, che pure non erano monoteisti.

 

b) eros e agape

Ma, ancor più, è lo stesso modo di intendere l’agape che lascia perplessi. Il papa, infatti, tende ad accentuare l’unità dell’esperienza amorosa, sostenendo che “eros e agape - amore ascendente e amore discendente - non si lasciano mai separare completamente l’uno dall’altro. [.] Anche se l’eros inizialmente è soprattutto bramoso, ascendente - fascinazione per la grande promessa di felicità - nell’avvicinarsi poi all’altro si porrà sempre meno domande su di sé, cercherà sempre di più la felicità dell’altro, si preoccuperà sempre di più di lui, si donerà e desidererà «esserci per» l’altro. Così il momento dell’agape si inserisce in esso”(n. 7).

Che l’eros possa fiorire in agape si vede, prosegue l’enciclica, anche nel Dio di Israele: “tra tutti i popoli Egli sceglie Israele e lo ama - con lo scopo però di guarire, proprio in tal modo, l’intera umanità. Egli ama, e questo suo amore può essere qualificato senz’altro come eros, che tuttavia è anche e totalmente agape.Soprattutto i profeti Osea ed Ezechiele hanno descritto questa passione di Dio per il suo popolo con ardite immagini erotiche. Il rapporto di Dio con Israele viene illustrato mediante le metafore del fidanzamento e del matrimonio”(n. 9). E l’unione prodotta dall’amore troverebbe nel Nuovo Testamento il suo compimento nell’eucaristia: “L’immagine del matrimonio tra Dio e Israele diventa realtà in un modo prima inconcepibile: ciò che era lo stare di fronte a Dio diventa ora, attraverso la partecipazione alla donazione di Gesù, partecipazione al suo corpo e al suo sangue, diventa unione”(n. 13).

Unito a Dio, il credente infine si unirebbe agli altri uomini: “la «mistica» del Sacramento ha un carattere sociale, perché nella comunione sacramentale io vengo unito al Signore come tutti gli altri comunicanti [.]. L’unione con Cristo è allo stesso tempo unione con tutti gli altri ai quali Egli si dona. Io non posso avere Cristo solo per me; posso appartenergli soltanto in unione con tutti quelli che sono diventati o diventeranno suoi. La comunione mi tira fuori di me stesso verso di Lui, e così anche verso l’unità con tutti i cristiani. Diventiamo «un solo corpo», fusi insieme in un’unica esistenza”(n. 14).

Affermare che l’amore cristiano è l’eros che si apre alla generosità e al dono significa in realtà lasciarsi sfuggire l’originalità dell’agape evangelica. Il papa, infatti, parla dell’amore come forza che unisce in Cristo ‘tutti quelli che sono diventati o diventeranno suoi’ e che genera ‘l’unità con tutti i cristiani’. Ma davvero l’amore evangelico si rivolge solo ai cristiani, attuali o potenziali, erigendo un recinto che esclude chi resta fuori? Non è, al contrario, puro dono, disinteressata ricerca del bene dell’altro, anche se questi fosse e rimanesse un estraneo o addirittura un nemico? È proprio questa la novità del vangelo: “amate i vostri nemici e pregate per i vostri persecutori”(Matteo 5, 44). È questo amore che spinge il Samaritano, un eretico per gli ebrei osservanti, a prendersi cura di un uomo ferito che apparteneva ad un altro gruppo religioso e che era quindi, secondo la mentalità del tempo, un suo nemico per antonomasia (cfr. Luca 10, 37). In effetti è difficile ammettere che l’amore per i nemici possa sbocciare dall’eros, come ha mostrato in un’opera fondamentale Anders Nygren (Eros e Agape, Bologna 1970, ed. orig. 1930-36), le cui tesi sono state accolte ormai da tempo dalla maggior parte dei biblisti cattolici.

Ma il papa, mostrando la consueta chiusura nei confronti delle acquisizioni esegetiche, preferisce muoversi nel solco dell’interpretazione tradizionale, e arriva ad affermare, a proposito del Dio di Israele, che ‘Egli ama, e questo suo amore può essere qualificato senz’altro come eros, che tuttavia è anche e totalmente agape’. Per la verità è Plotino, ultima espressione della religiosità greca, che concepisce l’Uno come Causa sui, che ama la propria perfezione: egli è “hautoù éros”(Enneadi VI, 8, 15);

Giovanni, invece, ha dato la più compiuta formulazione della concezione biblica di Dio come amore che si dona scrivendo:”Theòs agàpe estìn”(1 Giovanni 4, 8). Forse sia Plotino che Giovanni avrebbero provato un leggero stupore apprendendo che, in fondo, parlavano dello stesso tipo di amore!

 

La caritas cristiana

Neanche nella seconda parte dell’enciclica, dedicata al tema della carità nella vita della chiesa, mancano affermazioni sorprendenti.Il papa, anzitutto, ricorda che l’amore del prossimo è un compito non solo per i singoli fedeli ma anche per l’intera comunità ecclesiale, e che la coscienza di tale compito “ha avuto rilevanza costitutiva nella Chiesa fin dai suoi inizi”(n. 20). Citando gli Atti degli Apostoli, poi, indica tra gli elementi costitutivi della primitiva comunità cristiana la «comunione» (koinonia) vigente tra i membri di essa, comunione che consiste “nel fatto che i credenti hanno tutto in comune e che, in mezzo a loro, la differenza tra ricchi e poveri non sussiste più (cfr anche At 4, 32-37). Con il crescere della Chiesa, questa forma radicale di comunione materiale non ha potuto, per la verità, essere mantenuta. Il nucleo essenziale è però rimasto: all’interno della comunità dei credenti non deve esservi una forma di povertà tale che a qualcuno siano negati i beni necessari per una vita dignitosa”(ivi).

 

a) carità e povertà

Il papa, dunque, a una constatazione di fatto che non è passibile di smentite - la primitiva ‘forma radicale di comunione materiale non ha potuto, per la verità, essere mantenuta’ - fa seguire una dichiarazione di principio: ‘all’interno della comunità dei credenti non deve esservi una forma di povertà tale che a qualcuno siano negati i beni necessari per una vita dignitosa’. Quest’imperativo morale, purtroppo, non è stato però tradotto in pratica: nonostante l’innegabile generosità di uomini e donne che nel corso dei secoli hanno dedicato la loro vita al servizio degli ultimi, ancora oggi milioni di esseri umani sono privi del necessario. E non solo i poveri ci sono all’interno dei Paesi cristiani ma questi ultimi sono anche responsabili in buona parte dello sfruttamento dei Paesi del Terzo Mondo, i cui abitanti sono non di rado ridotti alla fame.

Se questo è vero, è indispensabile chiarire cosa si intende per ‘comunità dei credenti’. Una cosa, infatti, è identificarla con una minoranza che, come la comunità primitiva, vive in un mondo non cristiano e in rotta con esso, e un’altra, ben diversa, è identificarla con un popolo o con un insieme di popoli che si dicono a grande maggioranza cristiani. In questo secondo caso, come si potrebbe affermare che ‘il nucleo essenziale’ della comunione che caratterizzava i primi cristiani è ‘rimasto’? Non sarebbe necessario piuttosto denunciare come totalmente estranee al vangelo società che esprimono governi le cui politiche sono all’origine dell’arricchimento di minoranze privilegiate e della miseria di sterminate moltitudini? Una chiesa, che chiama ‘cristiana’ una simile società, finisce col condividerne le responsabilità e compromette quindi la propria identità, perché rinuncia a una delle note che l’enciclica considera costitutive della comunità cristiana, e cioè una comunione che esclude al suo interno la povertà.

 

b) sfruttamento e ribellione

Soffermandosi, in particolare, sugli effetti della rivoluzione industriale, il papa osserva poi che “Il sorgere dell’industria moderna ha dissolto le vecchie strutture sociali e con la massa dei salariati ha provocato un cambiamento radicale nella composizione della società [.]. Le strutture di produzione e il capitale erano ormai il nuovo potere che, posto nelle mani di pochi, comportava per le masse lavoratrici una privazione di diritti contro la quale bisognava ribellarsi”(n. 26). Il testo latino dell’enciclica dice ‘obsistere conveniebat’ ed è quindi corretto tradurre con ‘bisognava opporsi, ribellarsi’. La parola scelta nella traduzione ufficiale, ‘ribellarsi’, è molto forte: il vocabolario italiano spiega che significa ‘sollevarsi contro un’autorità costituita’, ‘rifiutare sottomissione’, ‘opporsi violentemente’.Scrivendo che ‘bisognava ribellarsi’ il papa lascia supporre che le gerarchie ecclesiastiche nell’Ottocento abbiano sostenuto - anche se con qualche ritardo: “È doveroso ammettere che i rappresentanti della Chiesa hanno percepito solo lentamente che il problema della giusta struttura della società si poneva in modo nuovo”(n. 27) - le masse lavoratrici che rivendicavano i propri diritti. Purtroppo basta leggere l’enciclica in cui Leone XIII ha affrontato nel 1891 la questione sociale per accorgersi che le cose non sono andate così.

Nella Rerum novarum, infatti, le poche affermazioni coraggiose - un piccolissimo numero di straricchi ha “imposto all’infinita moltitudine dei proletari un giogo poco meno che servile “( n.2), “è stretto dovere dello stato prendersi la dovuta cura del benessere degli operai”(n. 27) - sono inserite in un contesto che non incoraggia certo la ribellione: “togliere dal mondo le disparità sociali è cosa impossibile. Lo tentano, è vero, i socialisti, ma ogni tentativo contro la natura delle cose riesce inutile”(n. 14), i capitalisti debbono “dare a ciascuno la giusta mercede”(n. 17), e ‘giusta’ significa non “inferiore al sostentamento dell’operaio, frugale s’intende, e di retti costumi”(n. 34). I governi sono anzi esortati, da una parte, a proibire scioperi e agitazioni - “Oggi specialmente, in tanto ardore di sfrenate cupidigie, bisogna che le plebi siano tenute a dovere [.]. Intervenga dunque l’autorità dello Stato e, posto freno ai sobillatori, preservi i buoni operai dal pericolo della seduzione e i legittimi padroni da quello dello spogliamento”(n. 30) - e, dall’altra, a riconoscere le associazioni cattoliche ma non quelle socialiste, perché “quando società particolari si prefiggono un fine apertamente contrario all’onestà, alla giustizia, alla sicurezza del consorzio civile, legittimamente vi si oppone lo Stato, o vietando che si formino o sciogliendole se sono formate”(n. 38).

 

c) stato e chiesa

Passando quindi ad occuparsi dei rapporti tra autorità politica e religiosa, il papa ci tiene a precisare che “Alla struttura fondamentale del cristianesimo appartiene [.] la distinzione tra Stato e Chiesa [.]. Le due sfere sono distinte, ma sempre in relazione reciproca”(n. 28). Se la distinzione tra chiesa e stato appartiene ‘alla struttura fondamentale del cristianesimo’, bisogna ritenere che essa ci sia sempre stata. C’era, quindi, anche quando nel 1075 Gregorio VII rivendicava il primato del potere spirituale su quello temporale, sostenendo “Che tutti i principi devono baciare i piedi soltanto al Papa. [.] Che gli è lecito deporre l’imperatore.[.] Che il Pontefice può sciogliere i sudditi dalla fedeltà verso gli iniqui”(Bolla Dictatus Papae); o quando Innocenzo III disponeva a proprio arbitrio della corona imperiale, perché, come nel 1198 affermava con un’immagine molto efficace, gli sembrava evidente che “come la luna riceve la sua luce dal sole [.] similmente il potere regio deriva dall’autorità papale lo splendore della propria dignità”(Lettera Sicut universitatis conditor); o ancora quando Bonifacio VIII, nel corso della lotta ingaggiata con Filippo il bello, che aveva imposto agli ecclesiastici di pagare le decime al re, nel 1302 teorizzava la dipendenza dello stato dalla chiesa utilizzando il passo evangelico in cui si parla di due spade possedute dagli apostoli (cfr. Luca 22, 38): “ambedue sono in potere della Chiesa, la spada spirituale e quella materiale; una invero deve essere impugnata per la Chiesa, l’altra dalla Chiesa; la seconda dal clero, la prima dalla mano di re o cavalieri, ma secondo il comando e la condiscendenza del clero”(Bolla Unam sanctam) e concludeva con un solenne ammonimento a chiunque osasse ribellarsi: “Pertanto noi dichiariamo, stabiliamo, definiamo ed affermiamo che è assolutamente necessario per la salvezza di ogni creatura umana che essa sia sottomessa al romano pontefice”(ivi).Leggendo simili testi, l’affermazione di Benedetto XVI non risulta un po’ spericolata?

Per la verità, pare che i papi abbiano sottolineato, più che la distinzione, la ‘relazione reciproca’, intesa in pratica come diritto della chiesa di intervenire nelle questioni temporali ove ritenga siano in gioco i valori di cui si considera custode. È l’idea espressa con chiarezza ancora nel 1885 da Leone XIII nell’enciclica Immortale Dei, che ribadisce il diritto del magistero di pronunziarsi sulle materie di interesse comune “Tutto ciò che nelle cose umane abbia in qualche modo a che fare col sacro, tutto ciò che riguardi la salvezza delle anime e il culto di Dio, che sia tale per sua natura o che tale appaia per il fine cui si riferisce, tutto ciò cade sotto l’autorità e il giudizio della Chiesa”. E i governanti, che ricevono il potere da Dio, debbono adeguarsi senza esitazione, perché “tra i loro più sacri doveri devono porre quello di favorire la religione, difenderla con la loro benevolenza, proteggerla con l’autorità e il consenso delle leggi, né adottare qualsiasi decisione o norma che sia contraria alla sua integrità”(ivi).

 

d) la vera democrazia

È, in fondo, la vecchia teoria della potestas indirecta in temporalibus quella che viene riaffermata nell’Ottocento. Nel Novecento, avanzando il processo di secolarizzazione e diffondendosi i regimi democratici, diventa più difficile pretendere che le leggi siano conformi ai dogmi della religione cattolica e ci si accontenta, quindi, che esse si ispirino ai principi del diritto naturale, di cui la chiesa romana - non bisogna dimenticarlo - si proclama infallibile custode. Nei documenti pontifici, inoltre, è facile rilevare un’interessante svolta terminologica: la pretesa di interferire nella legislazione degli stati è presentata come forma non di potere ma di servizio che la chiesa rende all’umanità esigendo il rispetto dei grandi valori morali. Nell’enciclica del 1995, Evangelium vitae, Giovanni Paolo II condanna, infatti, quel modo di intendere la democrazia che, in nome del principio di maggioranza, legifera discostandosi dalla legge naturale: “la democrazia non può essere mitizzata fino a farne un surrogato della moralità o un toccasana dell’immoralità. Fondamentalmente, essa è un «ordinamento» e, come tale, uno strumento e non un fine. [.] il valore della democrazia sta o cade con i valori che essa incarna e promuove [.]. Alla base di questi valori non possono esservi provvisorie e mutevoli «maggioranze» di opinione, ma solo il riconoscimento di una legge morale obiettiva che, in quanto «legge naturale» iscritta nel cuore dell’uomo, è punto di riferimento normativo della stessa legge civile”(n. 70).

Rifiutato quel “relativismo etico che contraddistingue tanta parte della cultura contemporanea [. e che è considerato] una condizione della democrazia, in quanto solo esso garantirebbe tolleranza, rispetto reciproco tra le persone, e adesione alle decisioni della maggioranza”(ivi), Giovanni Paolo II chiede che violazioni del diritto naturale come aborto, sperimentazione sugli embrioni o eutanasia non abbiano riconoscimento legislativo: “rinnovo con forza il mio appello a tutti i politici perché non promulghino leggi che, misconoscendo la dignità della persona, minano alla radice la stessa convivenza civile”(n. 90). Secondo il papa, quindi, i politici dovrebbero imporre leggi rispettose dei principi appartenenti, a insindacabile giudizio del magistero, al diritto naturale anche a una maggioranza di cittadini che quei principi rifiuta: è evidente che ciò che l’enciclica chiama “vera democrazia”(n. 101) è qualcosa di molto diverso da ciò che comunemente si intende per ‘democrazia’, e cioè un regime in cui la legge è espressione della volontà della maggioranza.

Il fatto è che ancora oggi la chiesa romana non accetta l’idea che la sovranità appartiene al popolo, che i governanti sono espressione della volontà popolare e che lo stato non riconosce istanze legislative superiori. Questi capisaldi della democrazia sono errori denunciati senza mezzi termini nella Immortale Dei: in una società fondata sui falsi principi di uguaglianza e libertà, scrive Leone XIII, si arriva a sostenere che “la sovranità non consiste che nella volontà del popolo, il quale, come possiede da solo tutto il potere, così da solo si governa: sceglie di fatto alcuni a cui delegare il potere, ma in modo tale da trasferire in loro non tanto la sovranità, quanto una semplice funzione da esercitare in suo nome.Si tace dell’autorità divina, come se Dio non esistesse o non si desse alcun pensiero del genere umano”.

 

e) la sana laicità

Se non si esprime con così brutale chiarezza, Benedetto XVI mantiene tuttavia l’impostazione tradizionale, fissando ben precisi limiti all’autonomia dello stato. Posto che alla politica spetta di realizzare la giustizia, bisogna stabilire che cosa essa sia, e questo è il compito della “ragione pratica; ma per poter operare rettamente, la ragione deve sempre di nuovo essere purificata, perché il suo accecamento etico, derivante dal prevalere dell’interesse e del potere che l’abbagliano, è un pericolo mai totalmente eliminabile”(n. 28). Il rimedio contro ‘l’accecamento etico, derivante dal prevalere dell’interesse e del potere’ per il papa non può che essere - è evidente - la fede cattolica: “essa è una forza purificatrice per la ragione stessa. [.] La fede permette alla ragione di svolgere in modo migliore il suo compito e di vedere meglio ciò che le è proprio. È qui che si colloca la dottrina sociale cattolica: essa [.] vuole semplicemente contribuire alla purificazione della ragione e recare il proprio aiuto per far sì che ciò che è giusto possa, qui ed ora, essere riconosciuto e poi anche realizzato”(ivi).

La ragione umana, quindi, non sarebbe autosufficiente. I cattolici, almeno quelli obbedienti al magistero della chiesa, hanno qualcosa in più rispetto a tutti gli altri cittadini: la loro ragione, illuminata dalla fede, comprende ciò che gli altri uomini spesso non comprendono perché la loro ragione non è stata purificata. Si capisce, perciò, che uno stato che voglia realizzare la giustizia debba tradurre in norme vincolanti per tutti le verità morali insegnate da quell’autorità religiosa che, grazie al dono della fede, riesce ad evitare ogni possibile ‘accecamento etico’. Un simile stato è quello che, per lunga tradizione, si chiama ‘stato confessionale’ mentre per ‘stato laico’ si intende quello che ispira le sue leggi a criteri di semplice razionalità e che esige che le diverse posizioni siano sostenute con argomentazioni razionali, rifiutando l’idea che la ragione di alcuni cittadini sia più pura di quella di altri. Se questo è vero, è innegabile che la tesi di Benedetto XVI e lo stato laico sono incompatibili. Come la ‘vera democrazia’ di cui parlano le gerarchie ecclesiastiche non è la democrazia tout court, così la ‘sana laicità’ che esse sono disposte a riconoscere non è la laicità come s’intende comunemente.

Del resto, che la ragione umana sia fallibile è assolutamente certo:

la tesi, invece, che la fede risani i guasti di un’umanità segnata dal peccato originale - questo, anche se l’enciclica non lo dice, è il presupposto su cui si fonda la necessità di una purificazione della ragione - è tutta da dimostrare, e non pare che la storia della chiesa possa confermarla. Basti pensare a grandi teologi cattolici, come Tommaso d’Aquino, per i quali l’inferiorità della donna e la schiavitù sono realtà iscritte nella natura, o a papi che autorizzano nei tribunali dell’Inquisizione l’uso della tortura (Innocenzo IV) o che approvano il Malleus maleficarum, il manuale più usato per la caccia alle streghe (Innocenzo VIII). Tali idee non sono certo sostenute oggi dal magistero ma non possono essere giustificate ricordando che i loro autori, la cui ragione era certamente purificata dalla fede, subivano i condizionamenti del loro tempo: bisognerebbe altrimenti riconoscere che simili condizionamenti potrebbero esserci anche oggi e che quindi la condanna senza appello della sperimentazione sugli embrioni, dell’eutanasia o dei PACS potrebbe essere infondata.

 

f) carità e ideologia

L’enciclica, infine, si sofferma sull’attuale impegno caritativo della chiesa. Dopo avere ricordato che “Ogni giorno siamo resi coscienti di quanto si soffra nel mondo, nonostante i grandi progressi in campo scientifico e tecnico, a causa di una multiforme miseria, sia materiale che spirituale”(n. 30), il papa ci tiene a precisare che la carità cristiana è “semplicemente la risposta a ciò che, in una determinata situazione, costituisce la necessità immediata: gli affamati devono essere saziati, i nudi vestiti, i malati curati in vista della guarigione, i carcerati visitati, ecc.”(n. 31). L’attività caritativa cristiana, quindi, non ha nulla a che fare con “partiti ed ideologie. Non è un mezzo per cambiare il mondo in modo ideologico e non sta al servizio di strategie mondane, ma è attualizzazione qui ed ora dell’amore di cui l’uomo ha sempre bisogno”(ivi). Tra queste ideologie il papa non rinunzia a citare come particolarmente insidiose le “diverse varianti di una filosofia del progresso, la cui forma più radicale è il marxismo”(ivi). Si comprende, quindi, il pressante richiamo ai collaboratori che svolgono sul piano pratico il lavoro della carità nella Chiesa: “essi non devono ispirarsi alle ideologie del miglioramento del mondo, ma farsi guidare dalla fede”(n. 33), restando immuni, si ribadisce con un certo sarcasmo, da quella “ideologia che pretende di fare ora quello che il governo del mondo da parte di Dio, a quanto pare, non consegue: la soluzione universale di ogni problema”(n. 36).

L’enciclica, in sostanza, ammette una sola forma di carità: quella tradizionale dei cattolici che, come individui o come membri di ordini religiosi o di organizzazioni di volontariato, cercano di alleviare i più diversi tipi di sofferenza. Posto che l’urgenza e l’importanza di una simile attività sono innegabili, ci si può chiedere però se il possesso di strumenti d’analisi messi oggi a disposizione dalla sociologia, dalla psicologia o dall’economia politica non esiga anche un altro tipo d’intervento. Per il papa, invece, la chiesa deve soccorrere i poveri ma non denunciare i meccanismi economici e le responsabilità politiche che determinano la povertà. Non è un caso, infatti, che l’enciclica citi per ben tre volte la beata Teresa di Calcutta ma conservi un assoluto silenzio su un vescovo brasiliano ugualmente dedito alla causa degli ultimi, Helder Camara, che soleva ripetere: “Quando mi occupo dei poveri e li aiuto in qualche modo mi dicono che sono un santo, quando denuncio le cause della loro povertà e l’oppressione che subiscono dicono che sono un comunista”.

Come evitare il sospetto che l’enciclica, in realtà, si basi non sul rifiuto di ogni ideologia ma su una diversa ideologia, quella che, ritenendo irrimediabilmente segnati dal peccato gli uomini e la loro storia, rifiuta a priori la possibilità di realizzare sulla terra un mondo più giusto? Se è corretto parlare di ‘ideologia’ a proposito di una cieca fiducia nel progresso inevitabile dell’umanità è altrettanto corretto parlarne a proposito di una teoria che considera immutabili le strutture della società. Va detto, poi, che questo pessimismo antropologico fa il gioco, di fatto, di chi a livello mondiale ha il potere politico ed economico e che è certo ben disposto ad alleviare le sofferenze dei poveri purché non si mettano in discussione i principi di quel capitalismo senza regole che in un mercato divenuto globale permette un arricchimento illimitato.

 

g) gli orizzonti del vangelo

E non è affatto certo, inoltre, che l’ideologia del cosiddetto ‘conservatorismo compassionevole’, oggi così in voga, sia la più coerente col messaggio biblico. Lontana sia dall’ingenuo ottimismo, che crede che prima o poi tutto si aggiusterà, sia dalla fatalistica accettazione dei mali del mondo, la Bibbia è tutta percorsa dalla speranza di un radicale cambiamento. Gli scritti dei profeti, per esempio, sono animati dall’attesa di un re che, pieno dello spirito di Jahve, punisca finalmente i prepotenti e restauri la giustizia sulla terra: “egli giudicherà con giustizia i miseri e si pronuncerà secondo diritto a favore dei poveri del paese. La sua parola sarà una verga che percuoterà il violento, con il soffio delle sue labbra ucciderà l’empio”(Isaia 11, 4).

Lo stesso desiderio ardente di giustizia troviamo nel vangelo, quando la madre di Gesù magnifica il Signore perché “ha rovesciato i potenti dai troni e ha innalzato gli umili, ha ricolmato di beni gli affamati e ha rimandato a mani vuote i ricchi”(Luca 1, 52-53), ed è un vero peccato che l’enciclica, che dedica un posto privilegiato a Maria, ignori queste parole. E non è proprio il rinnovamento dei cuori, che rende possibile quello della società, l’obiettivo di Gesù? Dando inizio al suo ministero, nella sinagoga di Nazaret egli legge il passo di Isaia (61, 1-3) che contiene questo annuncio: “Lo spirito del Signore è sopra di me; per questo mi ha consacrato con l’unzione e mi ha mandato per annunciare ai poveri un lieto messaggio, per proclamare ai prigionieri la liberazione e ai ciechi la vista, per rimettere in libertà gli oppressi e predicare un anno di grazia del Signore”(Luca 4, 18-19) e, arrotolato il volume, aggiunge: “oggi si è adempiuta questa scrittura che voi avete udita con i vostri orecchi”(ivi 4, 21).

Se l’oggetto dell’annuncio evangelico è proprio questo messaggio di speranza, questa grande utopia di un mondo nuovo, più solidale e più libero, bisogna dire che questi sconfinati orizzonti non sono presenti nella prospettiva dell’enciclica. Senza scioccamente pretendere di ‘fare ora quello che il governo del mondo da parte di Dio, a quanto pare, non consegue: la soluzione universale di ogni problema’, gli uomini possono però impegnarsi per combattere le radici dell’ingiustizia e non solo alleviarne gli effetti, e proprio il messaggio di Gesù può sostenere i suoi discepoli nei momenti di scoraggiamento, quando una tale impresa sembra impossibile.

Se i rilievi che precedono sono fondati, possiamo allora concludere che la lettura che il papa fa del mondo greco, della bibbia, delle vicende storiche della chiesa è, quanto meno, molto opinabile. In taluni casi le sue affermazioni appaiono addirittura come una manipolazione dei fatti più assodati, tanto che difficilmente potrebbero essere condivise dagli studiosi del mondo classico, dai biblisti o dagli storici. In effetti l’enciclica, dimentica delle aperture alla modernità riscontrabili nei documenti del concilio Vaticano II, sembra essenzialmente preoccupata di difendere la dottrina tradizionale e il ruolo della chiesa richiamando l’attenzione sugli errori altrui, che si tratti dell’antica Grecia o dell’ideologia marxista. Ma davvero oggi si può credere che a sbagliare siano sempre gli altri e che il magistero possa fare a meno di una radicale autocritica?

 

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