"Guardare avanti e oltre"

Dialogo sul futuro delle comunità cristiane di base in Italia

 

Intervista a don Franco Barbero

 

D) Le comunità cristiane di base fra pochi giorni svolgeranno il loro 30° incontro nazionale. Come vede, don Barbero, il futuro del movimento in Italia?

R) Anche la comunità di Pinerolo sarà attivamente presente. Personalmente considero anche questi “momenti” di vitale importanza, specialmente per quei fratelli e quelle sorelle che si sentono parte del movimento e si riconoscono in questo orizzonte, ma non hanno più la fortuna di vivere un’esperienza di comunità di base nel loro territorio. La gioia di ritrovarsi fra esperienze diverse, ma veramente sorelle, ha sempre costituito una risorsa preziosa per le comunità cristiane di base, anche in vista di nuove elaborazioni. E poi... il corpo a corpo, il da cuore a cuore nella nostra storia è sempre stato molto costruttivo.

 

D) Ma... si può dire che, sotto l’aspetto della riflessione, i convegni non hanno mai rappresentato dei momenti alti di ricerca oppure mi sbaglio?

R) Non credo che si possa generalizzare. A mio avviso, alcuni “seminari” e alcuni convegni hanno creato un confronto molto significativo. Tuttavia concordo nel dire che le ricerche più feconde non hanno quasi mai trovato né elaborazioni né spazio particolare nei convegni che, però, hanno permesso e favorito lo scambio e la circolazione di ogni ricerca. Il che non è poco. Mi sembra di capire che i convegni si prefiggono soprattutto di mettere al centro l’incontro tra le persone e la valorizzazione di tutti i percorsi. Non esiste nessuna esperienza esemplare, non esiste un modello, ma si confrontano realtà tanto gelose della loro particolarità quanto desiderose di confrontarla.

 

D) Ma queste esperienze, come le definisce Lei, sono in crescita o diminuiscono sul piano numerico?

R) Per quel che so, le comunità di base, non solo in Italia, sono numericamente in forte decrescita. Ma la crisi è presente in tutta la chiesa di base, anzi in tutta la chiesa. Va da sé che questa contrazione ha ridotto le comunità di base ad un esiguo drappello. Inoltre, tra le 20-25 comunità sopravvissute, alcune sono formate da 10 – 15 persone o meno ancora. Certo siamo lontani dagli anni 70-80. Questo è un dato reale.

 

D) E allora? Non siamo allo stato preagonico, detto molto brutalmente?

R) Vorrei dire che alcune di queste realtà comunitarie mantengono spesso una buona comunicazione con altri soggetti attivi nella società e nella chiesa. Il che permette un notevole livello di impegno e di elaborazione. Non si può certo dire che le comunità di Roma, Firenze, Genova, Verona, Pinerolo e altre siano isolate nel loro territorio o nella chiesa. Anche se questo è raro.

 

D) Si può dire che nessuno promuova la visibilità delle comunità di base né nei mezzi di comunicazione né all’interno della chiesa? Le comunità di base forse non portano acqua a chi conta...

R) Non mi sembra che le comunità vivano con il complesso dell’emarginato... E’, però, innegabile che l’esperienza delle comunità cristiane di base non è funzionale agli interessi del cattolicesimo ufficiale e non attira l’attenzione nemmeno del centro sinistra che è ancora, invece, pieno di attenzioni per le gerarchie, quasi sempre ossequioso verso il Vaticano. Devo, invece, rilevare con piacere che, dove le comunità svolgono un rigoroso lavoro biblico e teologico e sono attive sul piano sociale, culturale e solidaristico, attorno ad esse cresce un interesse straordinario da parte di tante persone in ricerca. Forse i maggiori problemi delle comunità cristiane di base in Italia si verificano proprio su questi terreni dove, a mio avviso, si registrano vistose carenze e gravi assenze proprio da parte delle comunità stesse.

 

D) Vuole spiegarsi meglio?

R) Constato che a volte la lettura biblica è intermittente, un po’ trascurata o quasi assente. Altre volte la comunità non svolge un cammino di elaborazione teologica, non ha una liturgia accessibile a persone esterne al movimento, non vive esperienze di preghiera che alimentino il cammino di fede, non coltiva in modo continuativo relazioni con altre realtà ecclesiali, ecumeniche..., non si “sporge” e non si spende su nuovi territori umani... Altre volte mi capita di constatare che talune comunità chiudono i battenti per tutta l’estate... Tra le tante gemme preziose delle comunità di base noto queste ombre che, a mio avviso, rischiano di comprometterne la fecondità. Ma, non cesso di ribadirlo, questa è la mia lettura personale...

 

D) Da anni leggo alcune sue annotazioni su una certa “disattenzione” nel costruire delle comunità biblicamente ossigenate, nutrite di preghiera, strutturate sul piano dei ministeri, accessibili alla “gente comune”, cioè accoglienti. Voglio qui citare, tra i tanti passi che compaiono nei suoi scritti, una pagina che Lei scrisse pochi anni fa: “Voglio ancora accennare ad un nodo che ritengo essenziale, oggi, per la costruzione di una chiesa di base viva, aperta, dialogante.
In qualche modo, sia pure embrionale, la comunità di base di Pinerolo, come altre, ha praticato, in questi anni, una reale riappropriazione ed espansione di alcuni ministeri, ma, a mio avviso, è urgente e necessaria una più rigorosa riflessione teologica e pastorale sulla ministerialità, come vado sollecitando da anni.

E' mia opinione che le comunità cristiane di base italiane abbiano accantonato, rimosso o addirittura rinunciato ad un discorso biblico, storico, teologico e pastorale profondo e aderente alla realtà sul terreno del ministero che vada oltre una genericità ed una vaghezza piuttosto problematiche e talvolta sconcertanti. Ravviso qui un punto debole, un tallone d'Achille delle comunità cristiane di base non solo italiane. Infatti non ci si può illudere. Non sono sufficienti né la declericalizzazione, né la pari opportunità di ministero di uomini e donne, né il riconoscimento del sacerdozio universale, tappe peraltro necessarie. Ben altro è il respiro, ben altro è il "passaggio" teologico e pastorale che Lutero indicava nel suo De instituendis ministris ecclesiae ("Come si devono istituire i ministri della chiesa", Claudiana, Torino 1987).

A mio avviso, un movimento vivo e capace di costruirsi delle prospettive sa accogliere chi si rende disponibile, possiede una capacità calamitante verso persone che desiderano riconvertire il loro servizio comunitario e nello stesso tempo avverte il bisogno di darsi ministri/e che siano "attrezzati" per questo servizio alla comunità. Sostanzialmente, aldilà del populismo ecclesiologico e del sogno spontaneistico, temo che, qualora vengano a mancare i preti che oggi esercitano un ministero di animazione nelle varie comunità e nei gruppi, il cammino comunitario abbia vita breve. Manca una riflessione profonda, realistica, sulla ‘cura pastorale’ di una comunità e sulla rilevanza del ministero, come uno degli strumenti di riconoscibilità della comunità stessa. Così pure, per quanto concerne le "parrocchie alternative", ho il timore che si abbia scarsa consapevolezza del fatto che, rimossi e sostituiti i parroci, tutto possa essere normalizzato.
Non si tratta di un ritorno di ecclesiocentrismo, ma di una necessaria ecclesiogenesi. Né si tratta di creare dei modelli, ma di trovare e sperimentare dei "modi" perché la comunità sappia darsi i necessari ministeri.

La lunga esperienza del movimento cristiano di base mi ha insegnato che, dove non c'è stata questa attenzione, la vita comunitaria si è presto o tardi svuotata o spenta. Dove, invece, si è cercato di costruire concretamente delle prassi ministeriali, la vita comunitaria conosce uno spessore diverso, sia a livello umano che evangelico. L'assenza della "cura pastorale", come nucleo essenziale del ministero, rischia di disperdere le stupende risorse e le feconde originalità che nella chiesa di base trovano espressione, specialmente nelle comunità cristiane di base” (Una comunità che guarda avanti, Viottoli 2004, pagg. 29-30). Conferma queste sue affermazioni?

R) Sono ancora dello stesso avviso. Ovviamente, non sono un indovino e non posso che esprimere delle opinioni assolutamente personali. Intanto nulla va perduto, se sappiamo mettere in circolo nella più ampia chiesa di base le esperienze delle comunità cristiane di base. Può darsi che entro un decennio la stagione delle comunità cristiane di base, almeno in Italia, sia giunta a compimento, ma questo non significherà affatto la fine della chiesa di base che continuerà a rigenerarsi e a vivere in mille altri modi. Il movimento “Noi siamo chiesa”, per esempio, già realizza l’intreccio di varie esperienze di questa chiesa di base. In ogni caso, stiamo ragionando su ipotesi e vorrei tanto che una nuova fioritura di comunità cristiane di base smentisse questa mia previsione... Penso che tutti ce lo auguriamo...

 

D) Ma le comunità cristiane di base riusciranno a vivere dopo i Franzoni, i Mazzi, i Vigli...?

R) Questa è la speranza, anche se faccio fatica a vedere come proseguirà la comunità dell’Isolotto senza Mazzi e Gomiti o la comunità di San Paolo senza Franzoni o la comunità di Olbia senza Tonino Cau... Qui la realtà non fa sconti e nella mia vita non ho visto nessuna realtà di base proseguire in modo aperto e fecondo senza una forte presenza ministeriale. In ogni caso c’è sempre dell’imprevisto che Dio ci regala e il percorso delle comunità può subire modificazioni e rinnovamenti. Se non credessimo nell’inedito, che cristiani/e saremmo? L’importante, a mio avviso, è avere la consapevolezza dei problemi e cercare delle soluzioni... So che nel movimento altri ragionano in modo diverso dal mio e sviluppano una riflessione sull’autogestione comunitaria che oggi io non trovo realistica. Pensare la comunità nei termini di un collettivo che si autogestisce mi pare molto semplice sulla carta e molto affascinante, ma poco realistico. Un collettivo, assunto senza ulteriori specificazioni, soggiace, a mio avviso, al rischio di essere mitizzato. Non è questa una comunità idealizzata? Preferisco pensare che la comunità per vivere abbia bisogno di un “collegio strutturato”. Il collegium, che ha trovato molte “versioni” nella tradizione sia ebraica che cristiana, è un gruppo cosciente di dover svolgere mansioni e assumere responsabilità ben individuate e distribuite, che riceve tale incarico dalla comunità. In esso esiste un/una presidente, un moderatore o altro coordinatore. Chi svolge uno di questi servizi non deve nascondersi, ma vivere l’autorità-autorevolezza con umiltà, in spirito di servizio, nella consapevolezza del ministero che gli è affidato. Nel tempo della “società liquida” (di cui ci parlano diffusamente le opere di Zygmunt Bauman), con i suoi accentuati tratti di individualismo, in cui “si attribuisce il carattere della permanenza unicamente allo stato di transitorietà”, spesso anche nelle relazioni e negli impegni, può una comunità vivere come un collettivo di per sé costruttivo e duraturo? Sono necessarie, a mio avviso, responsabilità diverse, divise e personalizzate, da esercitare al fine della crescita collettiva, dentro una strada collettiva. Il collettivo nasconde il pericolo di un leaderaggio non nominato e quindi meno soggetto alla verifica comunitaria. Il collegium invece conosce la possibilità di dare un nome e un limite a funzioni e responsabilità ben individuate.

Molte ricerche, a mio avviso, non sono proponibili come impegno di un collettivo perché esigono conoscenze, tempi, interessi e strumenti rispetto ai quali esistono in un comunità una grande asimmetria e una sana “diseguaglianza”. Resta, a mio avviso, determinante che le diverse competenze e possibilità siano messe a disposizione. Su mille questioni nella mia vita e in alcuni dei miei studi non mi sono proposto di fare collettivo, ma di avvalermi di specifiche competenze altrui. Sulla storia dei dogmi, sull’antropologia biblica, sulla storia delle religioni, su parecchie ricerche cristologiche... non penserei mai di proporre alla comunità di leggere insieme talune opere tanto fondamentali e numerose quanto difficilmente accessibili. Mi sento tranquillamente collettivo quando mi avvalgo di esperienze o studi o opinioni altrui e quando comunico le mie. Il collettivo sta nell’intenzione di lavorare e camminare insieme, cercando di valorizzare al massimo tutti gli apporti, i doni e le competenze anche se, in una comunità grande, potrebbe diventare una forzatura dettare o imporre una serie di interessi comuni quando i vissuti delle persone, pur nella comune ricerca di vivere la fede, manifestano problemi, esigenze, interessi diversi. Insomma il lavoro di collettivo non è l’unico metodo per un cammino di crescita comunitaria. Lavorare insieme non è riducibile a lavorare in collettivo. La struttura biblica della Koinonia va ben oltre il collettivo. Ovviamente, sono preziose e vanno colte le situazioni in cui è possibile fare collettivo di ricerca.

Non apro nemmeno un’altra questione di palmare evidenza: la strutturazione di una comunità di 200 persone ha esigenze diverse da una realtà comunitaria di 10 persone che si raduna in una casa...

In ogni caso sono solito ripetere che io penso, scrivo, propongo dentro questo oggi e non faccio, su questo terreno, alcun discorso di eternità. Semmai tengo aperte le porte dell’oltrepassamento, dell’ulteriorità.

 

D) Molti ministeri e anche quello ordinato?

R) In buona sostanza... mi sembra di dover constatare e di capire che, senza la presenza di ministri/e ordinati/e nelle comunità e anche dalle comunità, sia assai difficile pensare ad un movimento che non si riduca a piccoli gruppi, sempre più esposti al rischio dell’isolamento e dell’esaurimento. Si noti che io intendo ministro ordinato o consacrato nella accezione ecumenica più ampia, come ho documentato in alcuni miei scritti: uomo, donna, sacerdote, presbitero, pastore/a, animatore/animatrice riconosciuto e “ordinato-consacrato” da un sinodo, da un vescovo o dalla sua comunità.

Il ministero ordinato di una persona preparata ed autorevole potrà più facilmente, a mio avviso, favorire l’espressione delle altrui ministerialità e delle “comunicazioni” con altre realtà ecclesiali. Spesso il ministro ordinato potrà svolgere in maniera particolare il servizio dell’ascolto dei fratelli e delle sorelle, accompagnare il cammino dei più deboli, offrire stimoli alla ricerca, favorire la “pontalità”. La mia esperienza personale di presbitero mi dice che moltissime persone oggi desiderano e cercano momenti di dialogo personale riservato e qualificato che spesso aprono anche la strada ad una esperienza comunitaria. Spesso, almeno per un certo periodo di tempo, il “pastore”, la “pastora” rappresentano un riferimento utile o addirittura necessario per talune persone.

Su questo punto ho scritto più diffusamente il mio pensiero nel quaderno “Perché resto” (Viottoli 2003) e rimando a quelle pagine in cui ho tentato di lavorare su due fronti: la teologia biblica e le esigenze pastorali del gettare ponti. Per me è stato ecclesiologicamente rilevante aver elaborato una vera libertà dal diktat vaticano per cui ho continuato il ministero non facendo conto alcuno di un “ordine” che non ha rispettato la dinamica comunitaria. Senza il consenso della comunità non posso esercitare il ministero. Senza il consenso della comunità, nessuno può estromettermi. Vorrei far notare che questa elaborazione ecclesiologica, che rifiuta di interrompere un ministero per ordine vaticano, non proviene per nulla dalla volontà di riaffermare il mio diritto di essere e di continuare a fare il prete. Non è una rivendicazione personale. Costituisce, invece, la riaffermazione della priorità della comunità, senza il cui consenso nulla può essere deciso rispetto ai suoi ministeri da una qualsiasi “autorità” esterna. Questa è la posta in gioco. All’interno di questa dinamica posso, semmai, difendere lo spazio della mia vocazione al servizio comunitario, ma sempre nell’ottica che Ed. Schillebeeckx riassume nel “diritto di una comunità a darsi un prete”.

 

D) Il 3 aprile del 2003, in dialogo con chi non condivideva le sue decisioni di continuare nell’esercizio del ministero anche dopo la “destituzione” vaticana, lei parlò e scrisse un capitoletto in cui sviluppò una riflessione sulle “contraddizioni forse anche feconde”. Può riportarlo, almeno in parte, qui?

R) Lo faccio volentieri riprendendolo da “Perché resto” (pagg. 40 – 42): “Vorrei proporre alcune brevi considerazioni rispetto al fatto che, in talune circostanze, io abbia riconfermato di sentirmi prete e sacerdote. In parecchi scritti ho documentato come i ministri nella letteratura del Secondo Testamento non siano dei "sacerdoti" e come appartenga alla "produzione e alla involuzione storica" la versione sacerdotale del ministero. E non ritratto! I livelli e i "gradi" gerarchici tradiscono e travisano le funzioni di servizio proprie del ministero nella chiesa.
Ma accetto con convinzione di sacrificare una rigida (ed in taluni casi astratta) coerenza teologica alle esigenze di un cammino cristiano di donne e di uomini che, nella loro cultura, vivono il mio ministero in una dimensione sacerdotale.

Sono "pontalmente" disponibile, cioè sono disponibile a questa "operazione ponte" che consiste nel lasciar utilizzare il mio servizio in certi spazi come sacerdotale e in certi altri spazi come puramente ministeriale. I ponti non servono a niente se non coprono l’intera distanza che separa le sponde opposte.
Non scompare per nulla dal mio orizzonte la "coerenza" teologica, ma essa è subordinata alla fruibilità e al rispetto dei passi di una straordinaria quantità di donne e di uomini con i quali faccio strada.
Ho già affrontato questo problema nel libro "Oltre la confessione" (Pinerolo 1988, pag. 82): " Come cristiano e come presbitero della comunità di base non mi trovo a mio agio, né teologicamente né psicologicamente, nella confessione auricolare. Nella comunità di base nessuno chiede l'assoluzione. Però, personalmente non ho mai ritenuto di dover negare questo servizio di ministero a quei cristiani che, per intima convinzione, praticano la confessione auricolare e si rivolgono a me per ricevere l'assoluzione. In questi casi tento di presentare alla sorella o al fratello che mi interpella un possibile itinerario diverso, le varie forme con cui nei secoli si è celebrato il dono della riconciliazione, ma mi prefiggo sempre di rispettare rigorosamente e lietamente la fede e i cammini diversi delle singole persone. Ritengo che sia possibile esprimere correttamente il mio modo di vedere e la concezione teologica della comunità di base al riguardo, senza dover in alcun modo sottrarmi ad una richiesta fraterna, qualora essa mi sembri sincera, e proveniente da un cuore aperto al dono di Dio. In questo caso, dove ci unisce la fede non può dividerci la teologia o, meglio, la diversità teologica non va esaltata a scapito della fede comune e non può prevalere su di essa".
Quando nel "gruppo biblico notturno di donne" mi trovo ad ascoltare le confessioni delle sorelle che me lo chiedono e a "celebrare la messa" come il loro parroco (così mi chiamano) o quando vado in una parrocchia per una celebrazione eucaristica, presiedo tale celebrazione con quella comunità facendo quelle mediazioni che il cammino di quella comunità rende possibili nel rispetto della loro diversità.
Se posso audacemente rubare a Paolo una esperienza che sento mia, citerei la Prima Lettera alla comunità di Corinto: "Infatti, pur essendo libero da tutti, mi sono fatto servo di tutti per guadagnarne il maggior numero: mi sono fatto Giudeo con i Giudei, per guadagnare i Giudei; con coloro che sono sotto la legge sono diventato come uno che è sotto la legge, pur non essendo sotto la legge, allo scopo di guadagnare coloro che sono sotto la legge. Con coloro che non hanno legge sono diventato come uno che è senza legge, pur non essendo senza la legge di Dio, anzi essendo nella legge di Cristo, per guadagnare coloro che sono senza legge. Mi sono fatto debole con i deboli, per guadagnare i deboli; mi sono fatto tutto a tutti, per salvare ad ogni costo qualcuno" (I Cor. 9, 19 - 22). Non ho per nulla la pretesa di potermi paragonare a Paolo, ma trovo su questo punto una profonda consonanza di vedute.

Quando è il caso, quando lo ritengo utile alle persone, quando mi sembra che possa servire la causa del regno di Dio, sento addirittura feconda questa contraddizione. Questa per me è una reale laicità metodologica.
Chi mi conosce e mi frequenta probabilmente avverte in che direzione punta il mio ministero, quali germi di innovazione, di oltrepassamento, di ulteriorità cerco di immettere, ma al primo posto per me sta il rispetto del cammino a tappe della fede di chi mi richiede il ministero. Questa è la mia scelta: un modo, non una regola o un modello. Spero di valorizzare questa contraddizione, di non uscirne per sentirmi puro e "coerente", di abitarla consapevolmente e serenamente finché ne vedrò la straordinaria fecondità.

Ho una concezione della chiesa che non accetta il gioco “o dentro o fuori”. La canzone della gerarchia so già qual è. Ci sto bene in questa chiesa, perché ho una concezione ecumenica e cerco di ascoltare le mille voci che "parlano plurale", che gridano libertà, che sanno disobbedire ai poteri in tutta tranquillità. Non sento né soffocamento né esigenza di uscire. Mi riconosco in quelle persone che sono chiesa povera, chiesa libera, chiesa in ricerca e dentro questo popolo, senza parentela alcuna con i gerarchi, sono anch'io chiesa.

Del resto amo questa realtà ecclesiale in cui ho incontrato tante testimonianze di fede, in cui lavoro con molti teologi e teologhe, in cui amo appassionatamente migliaia di preti attualmente in ministero e centinaia di migliaia di separati/e, spretati, eretici, scomunicati, gay e lesbiche: gente davvero sana, viva, ricca di umanità e di fede. Non abbandono per nulla quel ministero che ricevetti con la coscienza di allora e che vivo con la consapevolezza di oggi.

Quello che mi auguro e per cui prego e opero costantemente è proprio il tentativo di coniugare radicalità evangelica e fedeltà al passo della gente, dei poveri, degli ultimi e delle ultime, nella consapevolezza che ognuno/a di noi deve fare i conti con alcune contraddizioni. Riconoscerle e nominarle significa forse, a mio avviso, cercare di convertirci da quelle che servono al nostro comodo o al nostro egoismo e valorizzare quelle che possono essere tradotte in mediazioni a servizio della liberazione umana ed evangelica”.

 

D) Lei individua dei limiti, ma è estremamente convinto del buon cammino delle comunità cristiane di base.

R) In realtà è impossibile vivere i nostri giorni senza misurarci con i nostri limiti, ma oggi dobbiamo e possiamo vivere gioiosamente e intensamente il presente. Questo mi preme e questo voglio fare. Ritengo che sia la maniera migliore per prepararci al futuro... con tanta fiducia nella presenza di Dio.

Temo le scorciatoie, le semplificazioni, l’aria insalubre delle case chiuse e i discorsi fatti e rifatti tra amici, ma non faccio delle mie opinioni il riflesso della verità. E’ importante lavorare insieme e scommettere fiduciosamente con le nostre reali diversità che sono la vera ricchezza di un cammino di fede comunitaria. E poi il problema del ministero e le scelte che si compiono non sono dogmi, ma appartengono all’area del contingente, mutevole, opinabile. Siccome Gesù non ha direttamente fondato nessuna chiesa, nel senso che non ha dato vita ad una religione separata dall’ebraismo, non possiamo far risalire a lui nessuna struttura ecclesiale. Gesù ha dato al suo gruppo una identità, ma non ha in alcun modo lasciato il progetto ministeriale preciso per la futura chiesa. Ciò significa che le strutture ministeriali di ieri, di oggi e di domani sono totalmente affidate alla nostra responsabilità, libertà e creatività. Ogni “ordinamento” è provvisorio, aperto a nuove esigenze e nuove decisioni. L’importante non è la permanenza di una determinata forma comunitaria, ma il suo essere funzionale alla testimonianza del regno di Dio. Il nostro dibattere attorno alla ministerialità ha senso solo se è finalizzato a fare in modo che ciascuno/a di noi e le nostre singole esperienze comunitarie siano sempre più a servizio del regno di Dio. L’elemento decisivo è che l’evangelo sia predicato e vissuto. La comunità è in tutto e per tutto subordinata a questa testimonianza. Ecco perché tutte le questioni attinenti la strutturazione comunitaria sono secondarie e suscettibili di tanti tentativi. Il che è molto liberante e responsabilizzante. Soprattutto è sempre provvisorio.

a cura di Marie Laprune


(Viottoli n°2/2006, pag. 41-46)

 

 

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