La lite tra noi dell'Isolotto e Paolo VI, papa pauroso

 

A trent'anni dalla morte, la chiesa progressista rimpiange Paolo VI, il papa tormentato, ambiguo, contraddittorio. I papi che gli sono succeduti non hanno queste "debolezze", sono caratterizzati da una specie di fondamentalismo tutto d'un pezzo. Lui no. E questo può essere visto come un gran pregio. Paolo VI è il papa dell'enciclica Populorum progressio che suscitò entusiasmi per la sua apertura sui temi sociali ma anche dell'enciclica Humanae vitae che condannava senza appello la contraccezione e che generò un profondo e diffuso dissenso all'interno della Chiesa e nel mondo laico.

E' il papa che applica il Concilio: la riforma liturgica, la nuova ecclesiologia di comunione, il passaggio da una concezione di chiesa accentrata sulla gerarchia a una fondata sul nuovo concetto conciliare di "popolo di Dio"; ma lo fa senza concedere una virgola sul piano della struttura di partecipazione. Tanto che i papi successivi hanno avuto buon gioco nel rimangiarsi gran parte di quelle riforme più simboliche che reali. Ha tenuto insieme la chiesa universale ma creando vuoti nella parte più conciliare, favorendo così il recupero del fondamentalismo e della reazione. Un papa che non ha saputo, a mio avviso, trovare il bandolo per affrontare con coraggio una stagione di trasformazioni profonde della società: il sessantotto, il femminismo, la liberazione sessuale, il cambiamento dei costumi, la "desacralizzazione" della società occidentale. E' rimasto invischiato nella tela del ragno.

Non così, mi sembra, fu l'esperienza di papa Giovanni. La carriera di diplomatico aveva portato Roncalli a contatto con alcuni snodi storici cruciali del dopoguerra: la Bulgaria e la Turchia delle frontiere ecumeniche col mondo ortodosso e islamico, la Francia delle parrocchie missionarie e dei preti operai e infine l'Italia dell'opposizione all'assolutismo e all'anticomunismo pacelliano. Egli aveva preso coscienza di quanto la Chiesa intera avesse bisogno di essere fecondata dallo Spirito che soffiava forte nelle periferie e nella base. Intendiamoci, non voglio dire che lui fosse sempre d'accordo con le esperienze innovative che incontrava. Ma avrebbe voluto paternamente indirizzarle, secondo il suo stile di «buon pastore» che vuole evitare di trasformarsi in «organizzatore della vita collettiva», come ebbe a dire nel discorso dell'incoronazione. Ben presto però si accorse che egli, dal centro, poteva solo reprimere e soffocare. La riforma della Chiesa non poteva partire da lui. Non voleva essere un papa-riformatore.

E concepì il Concilio proprio per rompere il centralismo romano, per far tacere i «profeti di sventura» e quindi liberare le esperienze conciliari delle periferie e dare spazio ai «segni dei tempi». E' emblematica la vicenda, nota ma ormai dimenticata, dello schema chiave della deliberazione conciliare riguardante le fonti della Rivelazione. Papa Giovanni sconfessò praticamente lo schieramento dei vescovi italiani, spagnoli, molti latino-americani, guidato dai potenti cardinali curiali con in testa Ottaviani, il quale con cavilli procedurali voleva imporre lo schema proposto dall'alto, e diede spazio alle istanze della periferia. Senza l'intervento diretto di papa Giovanni, in quel caso come in altri, il Concilio avrebbe preso un indirizzo ben diverso anzi opposto. Paolo VI non trovò quel colpo d'ala.

E' emblematica l'esperienza di rapporto con lui che avemmo noi dell'Isolotto. E' per questo che la riferisco nelle linee essenziali. Il gruppo di giovani cattolici, "I Protagonisti", che il 14 settembre 1968 avevano simbolicamente occupato il duomo di Parma, in forma di riunione di preghiera, per una Chiesa povera e libera dall'autoritarismo e dalla collusione col potere, erano stati caricati dalla polizia intervenuta in assetto antisommossa all'interno del duomo stesso su richiesta del vescovo e denunciati. Paolo VI era intervenuto pubblicamente con aspre accuse verso gli occupanti. A quel punto scrivemmo una lettera al papa. Il documento, assai duro con la gerarchia, era stata letto durante la messa in tre chiese parrocchiali fiorentine: l'Isolotto, la Casella, il Vingone e firmata dai tre parroci, da altri preti e da qualche centinaio di fedeli. A me solo era chiesto di ritrattare pena la rimozione da parroco. La Comunità non solo percepisce la necessità di difendere il proprio parroco ma soprattutto sente il bisogno di affermare la propria soggettività e responsabilità collettiva. Siamo Popolo di Dio, il parroco è uno di noi. La necessità di rispondere è per così dire la cornice, l'occasione contingente. Al fondo noi sappiamo che c'era altro e ne siamo testimoni. La gestazione veniva da lontano. Era la stessa gestazione, lo stesso processo di trasformazione profonda della società e della Chiesa a cui papa Giovanni aveva dato voce e strumenti operativi convocando il Concilio.

E Paolo VI che fece? Mi scrisse una lettera autografa di tre fittissime pagine con calligrafia da scolaro diligente. In sostanza mi chiedeva, con accenti paterni, di sottomettermi all'autorità del vescovo. Obbedii e mi assentai dall'Isolotto. Durante la mia assenza avvennero lì all'Isolotto i fatti più drammatici. Mi rimprovero ancora di essere stato lontano dalla gente nel momento cruciale della vicenda, per un senso di obbedienza priva di umanità. Il vescovo, ai primi di gennaio 1969, mandò a celebrare un prete di curia accompagnato da una trentina di noti fascisti picchiatori, armati di catene e bastoni, una delle prime squadre neo-fasciste che si preparavano alla strategia della tensione. Celebrò due volte in una domenica solo per loro. Migliaia di persone erano uscite di chiesa e andate in piazza. La chiesa dell'Isolotto occupata dai fascisti fu una provocazione durissima e inaccettabile. La gente, molto responsabile e sostenuta anche da preti accorsi da molte parti della diocesi e d'Italia, decise di non abbandonare più la chiesa la domenica successiva. Ne scaturì la denuncia alla magistratura da parte del prete curiale incaricato di celebrare e quindi l'incriminazione di tre laici dell'Isolotto e di ben cinque preti, due dei quali fiorentini e gli altri tre di varie parti d'Italia.

Ho riferito questa vicenda particolare perché la considero appunto emblematica: il paternalismo sofferto, tormentato e contraddittorio di Paolo VI svuotò la parte conciliare della Chiesa, quella che tentava faticosamente di attuare il Concilio, accentrò su di sé la riforma, creò un "vuoto" di creatività e di partecipazione e aprì la strada al "pieno" aggressivo della reazione.

Enzo Mazzi

Comunità di base dell’Isolotto - Firenze

 

 

 

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