Enzo Mazzi

Sommario e introduzione

 

Introduzione: la gestazione planetaria della speranza

Le riflessioni contenute in questo libro sono dovute a una ricca socializzazione comunitaria e hanno la loro radice nell’anima profonda del sessantotto, che secondo me è tutt’ora vitale e generativa. Sono molti i ’68. E’ gravemente scorretto e rozzamente superficiale ridurre, come fa molta parte della la cultura storiografica dominante, un imponente processo storico di trasformazione globale della società alla rivolta studentesca, considerata una folata velleitaria, contraddittoria e violenta, un conato o al massimo un sogno giovanile, senza passato e senza futuro. C’è ovviamente il ’68 degli studenti. Ma c’è anche il ’68 del movimento operaio, che inizia in quell’anno con lotte significative per esplodere l’anno successivo, e c’è il ’68 della psichiatria e della medicina alternativa, della magistratura, del mondo della scuola, del movimento femminista, del movimento conciliare nella Chiesa, perfino di un certo fermento democratico dentro la polizia. Tant’è vero che quando si tirano le somme della repressione giudiziaria del movimento complessivo del ‘68-‘69, si trovano accomunati in decine di migliaia di denunce e processi studenti, operai, preti e laici, insegnanti, psichiatri, medici, ecc. (cfr. “14.000 denunce, chi, dove, come, quando, perché”, a cura di L. Borgomeo e A. Forbice, ed. Stasind, Roma 1970). La domanda che sorge è la seguente: c’è qualcosa che accomuna i molti ’68, un etos, una spinta profonda, un orizzonte di senso?

Nel ’68, ho fatto anch’io molte scoperte, sostenuto dalle relazioni comunitarie (cito da: Comunità dell’Isolotto Il mio ‘68, Centrolibro, Firenze, 2000); ma una mi sembra che possa in qualche modo racchiudere tutte le altre: la gestazione planetaria della speranza. La speranza è perennemente in gestazione, ma la sua manifestazione nella storia è apparsa finora in forma episodica e settoriale. Nel ’68 invece ci siamo trovati davanti a un fenomeno planetario e globale, una specie di eruzione vulcanica che esplodeva da una miriade di camini in ogni angolo del pianeta, coinvolgeva tutti i settori della società e portava in superficie dall’anima profonda dell’umanità un magma incandescente ricchissimo di elementi creativi, capace di produrre un balzo in avanti della evoluzione culturale della specie. Si tratta di un punto di vista relativo. Non pretendo di assolutizzarlo. Ho detto e sono convinto che il ’68 è molti sessantotto. Non intendo contraddirmi.

C’è chi non vede affatto questo balzo in avanti. Magari perché non crede che la storia abbia una dimensione evolutiva dotata di senso. Io invece il balzo l’ho visto e lo vedo operante tutt’ora, nonostante la restaurazione. Questo non significa che non mi ponga interrogativi. Potrebbe essere il ’68 non un salto evolutivo ma una ennesima ripetizione, un ritorno ciclico della dialettica fra dominio e liberazione, fra paura e speranza, fra potere e amore? Non si può negare che in quell’anno fatale sia emerso il paradigma di sempre, che ha attraversato i millenni: il confronto insanabile fra la liberazione perennemente in divenire dell'amore universale, amore per la vita nella sua dimensione essenziale di finitezza, amore per tutti i viventi nella loro fragilità esistenziale, e il dominio della paura, della violenza, del patto con la morte. Tutto qui? Ma questo sarebbe il trionfo dell’inevitabile, del così è così sia per tutti i secoli dei secoli, che è l’opposto della speranza. Niente di nuovo sotto il sole? E la nuova lingua universale e unificante della speranza che vedevamo sbocciare in ogni angolo del mondo poteva non essere affatto un balzo in avanti dell’evoluzione umana ma piuttosto un passo di danza in un girotondo senza fine? E l’avanzamento della liberazione dall’angoscia per la finitezza dell’esistenza e il bisogno di felicità non illusoria che s’intravedeva al fondo degli obiettivi di lotta sarebbe stato un sogno senza storia e senza futuro? E pura ripetizione di una genesi storica altalenante sarebbe stato quella specie di parto a cui partecipavo, quel passaggio generativo dal “seno materno” costituito da istituzioni, ideologie, confini, patrie, chiese, abitudini, a un mondo nuovo senza contorni, magmatico, appena intravisto da occhi incerti ancora incapaci di distinguere il vuoto dal pieno?

Domande inquietanti e pungenti che restarono sospese nel pieno di quell’anno cruciale e che restano sospese tutt’ora dopo quarant’anni. Quando dico che vedo il ’68 come un balzo evolutivo della specie non dico che ho risolto quegli interrogativi ma solo che li sto elaborando all’interno di reti di relazioni intense. E lo faccio non teoricamente, quanto piuttosto analizzando fatti concreti di vita.

Le esperienze di cambiamento dal basso, che da anni stavamo portando avanti nel nostro piccolo spazio vitale, le scoprivamo condivise inconsapevolmente da realtà sociali diffuse in tutto il mondo. Nei mesi a cavallo fra il ’68 e il ’69 la vicenda vissuta dalla Comunità dell’Isolotto ebbe risonanza mondiale. La piazza dell’Isolotto divenne un crocevia internazionale. Potemmo comunicare col mondo. Ed avemmo la consapevolezza che a livello universale stava nascendo una società basata su valori nuovi e al tempo stesso antichi: pace, solidarietà, primato della coscienza, dissenso creativo, diritti umani e sociali come diritti di tutti e di ognuno/a, centralità delle relazioni: “il sabato per l’uomo e non l’uomo per il sabato”, comunitarietà oltre i confini. L’utopia che da sempre aveva animato i sogni di “uomini e donne di buona volontà” si stava rivelando ormai come la più autentica razionalità e si incarnava in mille e mille percorsi di ricerca positiva diffusi in tutti gli angoli della terra. Finora era sembrato che fosse la paura a tenere unito il mondo sotto la cupola di fuoco della bomba. Ora invece vedevamo che la grande forza unificante a livello finalmente planetario era la speranza. Si rivelò per noi come l’ecografia di una gestazione.

E vennero le doglie del parto. Fu la conferma, se ce n’era bisogno, che la gestazione planetaria e globale della speranza era incombente. Il sistema mondiale del dominio si sentì scosso dalle fondamenta e scatenò il conflitto. Perché la speranza è la grande nemica del potere. Il quale si nutre di disperazione, paura, rassegnazione e sottomissione. Come la speranza nuova prendeva forma a livello mondiale, così anche la strategia per pianificare l’aborto fu globale. Dietro la maschera dell’anticomunismo e con la scusa del confronto apocalittico fra i due grandi sistemi di dominio, fu messa in atto la strategia delle “guerre di bassa intensità”, per uccidere la speranza e riportare sul trono l’inevitabile. E in Italia venne la repressione spietata ed esplosero le bombe in una sequenza tragica di stragi. E la strategia della tensione generò o comunque alimentò il terrorismo come propria immagine speculare. L’aborto sembrò cosa fatta.

Anche nella Chiesa il conflitto fu inevitabile. E risultò tremendo e tragico. Perché la gestazione della speranza si configurava come vera e propria rivoluzione del sistema ecclesiastico del sacro travasato dal medioevo nell’età moderna. Era stato il Concilio che aveva dato voce e forza a tale rivoluzione. I documenti conciliari infatti avevano sancito un germe di trasformazione radicale definito da un grande teologo conciliare, Marie-Dominique Chenu, "Rivoluzione copernicana della Chiesa", in quanto poneva al centro non più la gerarchia ma il "Popolo di Dio". Lì, in quel germe appena enunciato, si può individuare il succo stesso del Concilio. Non che i ministeri scomparissero. Solo che riacquistavano la loro funzione di servizio in una Chiesa vissuta come "comunità di comunità in cammino", fondata sul protagonismo, la dignità e i diritti delle persone e della loro fede, a cominciare dagli ultimi. Quando tale "rivoluzione copernicana" dall’enunciazione di principio nei documenti ufficiali fu trasferita nella pratica di vita ecclesiale dal proliferare di una quantità di esperienze di base, fece paura e fu osteggiata da un intreccio perverso, composto da massoneria piduista, servizi segreti, Gladio, neofascismo, mafia: quel medesimo intreccio che in Italia tentò di bloccare il processo democratico complessivo, ricorrendo a tutti i mezzi compreso il terrore. Non sembri un’esagerazione. Quello che ho chiamato “intreccio perverso” esisteva realmente. E’ illuminante la valutazione dei giudici istruttori della strage di Bologna, Vito Zincani e Sergio Castaldo, contenuta nella sentenza-ordinanza del 1.6.1986: "Si può legittimamente trarre la conclusione che si era costituito in Italia un potere invisibile il quale, essendo collegato al tempo stesso alla criminalità organizzata e al terrorismo, ad ambienti politico-militari, a settori dei servizi segreti, alla massoneria, e muovendosi contemporaneamente su questi piani, ha potuto conseguire una capacità di controllo incredibile sui meccanismi istituzionali fino a divenire un vero e proprio Stato nello Stato. L’esistenza di questo potere invisibile, che sopra ho chiamato “intreccio perverso”, l’abbiamo toccata con mano. Le prove sono molte. Ne riporto succintamente solo una che nella terza parte descriverò in modo più esteso. A un certo punto, nel gennaio 1969, qualche mese prima della strage di piazza Fontana, la chiesa dell'Isolotto fu invasa da una delle prime squadre neo-fasciste che armate di spranghe, catene e bastoni, cacciarono le migliaia di persone che costituivano la comunità parrocchiale decisa a resistere pacificamente alla repressione. E una magistratura compiacente ignorò la violenza fascista e perseguì le vittime della provocazione incriminando e processando quasi mille persone della Comunità dell'Isolotto, totalmente innocenti, che dopo qualche anno saranno infatti pienamente assolte.

La genesi delle altre centinaia di comunità cristiane di base italiane trova costantemente sul suo cammino positivo e creativo la repressione intraecclesiale e insieme il macigno dell'intreccio perverso di cui abbiamo parlato sopra. Il quale usò come manovalanza le squadre neofasciste al Nord e la mafia al Sud per attuare azioni e provocazioni violente analoghe a quelle avvenute nella chiesa dell'Isolotto.

Successe anche nella Chiesa ciò che avveniva nell’insieme della società. Ovunque in occidente e specialmente in America Latina si usò la violenza stragista fino a rasentare in qualche paese il genocidio, per bloccare il movimento di crescita complessiva della società, culturale, religiosa e politica. A dir queste cose sembra di rimasticare romanzi dell’orrido. In realtà una tale valutazione storica che a noi sembra inequivocabile è completamente ignorata dalla storiografia dominante. Non bisogna quindi stancarsi di riproporla.

L’aborto, dunque, cosa fatta? L’ “uomo planetario” soffocato nel seno della gestante? E perfino la memoria devitalizzata con la riduzione del ’68 a roba da archeologia? Non è proprio questo il messaggio distruttivo che viene trasmesso ai giovani?

L’obiettivo più intrigante ottenuto dalla strategia repressiva è stato quello di aver annebbiato la fiducia nella visione della esistenza personale e della storia come tracciato non sempre lineare ma dotato di senso, passo dopo passo: dalla schiavitù al riscatto, dalla oppressione alla liberazione, dalla alienazione alla responsabilità, dalla sacralità come dominio esterno alla sacralità intrinseca al tutto, dall’angoscia per la finitezza dell’esistenza avida d’immortalità per esorcizzare la morte, all’accettazione fondamentalmente gioiosa del “nulla creativo” che ci avvolge. Non si può negare che di fronte al fiume di sangue versato nel dopoguerra, fino ad oggi, di fronte alle sofferenze inflitte per bloccare il processo di liberazione, di fronte lla vittoria su tutti i fronti e in tutto il mondo dell’intreccio infame, vacilla ogni speranza. E’ segno di una debolezza interna alle speranze? O forse la liberazione è in radice un processo senza fine e una scommessa perenne? E i salti evolutivi ci sono, e il ’68 fu uno di questi, ma non c’è un salto ultimo? C’è sempre un “oltre”? Può tale scommessa chiamarsi fede? Ma fede in che cosa?

Domande inquietanti che mi sono rimaste nell’anima. Da lì, alla ricerca di senso all’interno di reti di relazioni, partono le cose che cerco di dire in queste pagine.

 

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Sommario

Introduzione: la gestazione planetaria della speranza

Parte prima: guarire il profondo (oppure guarire l’anima)

I segni di questo tempo

Miriam e la scoperta del non essere.

Alla morte tutto è morto?

C’è qualcuno là fuori?

Parte seconda: tappe dell’esodo storico dall’angoscia della finitezza.

La forza dell’esodo

Gilgameš

Adamo ed Eva

Analogie e connessione fra l’Epopea di Gilgameš e la Bibbia

Prometeo

Pandora

La cultura sacrificale

Modernità e sacrificio

Parte terza: orme - uno sguardo su brani della propria esistenza fuori dalla nebbia del sacrificio.

L’assenza

Le mani vuote

La profondità misteriosa dell’essere

La rottura dell’uovo

Il distacco

Pinocchio e il luogo del nulla

Non sapere mai cosa si è

Il balzo nel vuoto

La rivincita della cultura del “tutto”

Dalla paura alla speranza

I segni dei tempi

L'arcobaleno

L’Eucaristia e la fame nel mondo

La scommessa

“Oltre”

1 - Oltre la vecchia frontiera fra laicità e religione.

2 - Oltre la violenza insita nel legame fra sacrificio e salvezza

3 - Oltre la violenza insita nel legame fra peccato e morte

4 - Oltre la violenza insita nel legame fra obbedienza e croce

5 - Oltre la violenza insita nella resurrezione come miracolo

 

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