Un nuovo incontro col mistero e col sacro oltre la mediazione della casta.

 

Come si può vedere da questi pochi accenni, l’esodo dalla casta non riguarda solo i preti. Interessa tutti perché il sacro ce lo portiamo dentro e la casta ce ne sottrae la gestione. La casta ce lo rende estraneo, lontano, separato e di conseguenza ci rende estranei a noi stessi, cioè a quella parte di noi che soggiace alle consapevolezze acquisite, la parte di noi inesplorata che è intrecciata con la parte inesplorata del Tutto chiamata anche “mistero”.

Il sogno che cova in molti, più o meno consapevolmente, è un nuovo Sinai, cioè un nuovo incontro col mistero e col sacro, che testimoni e riveli la sacralità di tutto il creato e di ogni donna e uomo senza più bisogno della separatezza del sacro e della sua gestione da parte della casta. Un nuovo Sinai che faccia incontrare e intrecciare e contaminare il sacro con la vita quotidiana.

E’ il sogno espresso ad esempio da Ernesto Balducci, con la forza e la chiarezza che gli erano consuete, nella stessa Tavola rotonda sulla Violenza del sacro in cui parlò anche Ingrao citato sopra, nell’ambito del Convegno delle comunità di base sulla Laicità svoltosi a Firenze nel 1987. “Io sono convinto - egli disse - che non ci può essere cultura di pace se non con la eliminazione del sacro: la fine del sacro è la fine della cultura di guerra” (trascrizione dal magnetofono). Pronuncia una frase così netta riconoscendo che l’affermazione ha un carattere assertorio dovuto alla brevità del tempo a sua disposizione. Poi Balducci spiega che il “sacro” è una realtà complessa. Non va identificato, egli dice, con uno spazio determinato. Il sacro non va reificato. Il sacro è la percezione del relativo, il bisogno di trascendere il relativo in cui siamo immersi. Il sacro quindi è la funzione critica della società. Esso richiede una gestione profetica, una consapevolezza che parta dal basso, dal terreno della vita. Un sacro così inteso e vissuto è il sogno del figlio di un minatore dell’Amiata, che approdato a Firenze e condotto in un primo tempo a intrecciare rapporti con i salotti della élite intellettuale e con le stanze del potere aveva poi sperimentato il suo “esodo” (Diario dell’esodo è il titolo di uno dei suoi libri più significativi) come ritorno alle radici della sua origine popolare. Ciò che va eliminato - spiega ancora Balducci - è il sacro reificato, sequestrato dal potere, separato dalla vita, collocato in spazi e luoghi e gesti e riti determinati, gestito da persone sacralizzate. E’ il sacro che dalla rivoluzione del neolitico in poi ha assolto la funzione di integrare la forza dentro le regole della ragione. Non di eliminare la forza ma di sacralizzarne e regolarne l’uso come cultura: cultura di guerra, momento dirimente dei conflitti sia interni che esterni alla città. Va eliminata la sacralità come funzione del potere, del dominio e della espropriazione dell’uomo. E’ proprio questa eliminazione del sacro reificato l’esperienza che fecero le comunità del primo annuncio del Vangelo. Balducci ricorda come i primi cristiani vivevano al di fuori delle strutture sacrali: celebravano l’eucaristia in casa, non nel tempio, anzi furono gettati fuori dal tempio, non avevano sacerdoti, i loro ministri erano presbiteri, cioè anziani, rifiutarono le parole sacrali. Il loro momento espressivo era la cena; non c’erano fra di loro gerarchie ma ministeri, quindi anche questa struttura sacrale della gerarchia non esisteva. La loro collocazione nella società era di tipo “laico”. Quando è avvenuto l’inserimento delle comunità cristiane negli spazi del potere c’è stata la sacralizzazione della chiesa. Il Cristianesimo si è inserito nei quadri della cultura sacrale ed ha assolto la funzione di religione della società. E la religione in una società dal neolitico ad oggi ha il compito di portare il sigillo della sacralità alla violenza della società. Il Cristianesimo è divenuto il sigillo della sacralità della cultura di guerra. E rimane tale anche quando condanna a parole la guerra. La sua funzione di sacralizzazione della violenza è strutturale, va oltre le parole e i documenti. Questa suggestione di Balducci mi sembra affine alle osservazioni che facevo sopra a proposito della funzione sacralizzatrice della casta, al di là delle buone intenzioni dei singoli preti.

La proprietà del Vangelo invece, seguendo ancora il pensiero di Balducci espresso nel Convegno delle comunità di base e in altre sue pubblicazioni, è quella di metterci in una intransigente lotta contro il sacro dovunque esso si trovi, non solo quello che si annida nel tempio. La fede cristiana ci rende intransigenti nei confronti di qualsiasi sacralizzazione che è alienazione dell’uomo. Le comunità di base, dice Balducci, sono il segno di una tale intransigenza evangelica. E sbaglieremmo se identificassimo il sacro con la sua espressione di tipo religioso. Il sacro, quello reificato, è ovunque si creano strutture di sacralizzazione del dominio e della violenza. Oggi però, ed ecco il colpo d’ala del figlio del minatore amiatino, ecco l’esodo profeticamente da lui intravisto, oggi siamo a un passaggio cruciale: il sacro può di nuovo tornare a fare alleanza con la vita. Questo passaggio è reso possibile, anzi inevitabile, perché è venuta meno la logica che ha governato la cultura del passato dal neolitico ad oggi, che era la possibilità di integrare la violenza entro i confini della ragione. Nell’era atomica, per l’eccedenza dello strumento che abbiamo in mano, per la capacità distruttiva di cui l’uomo dispone, non è più possibile contenere la forza entro i limiti della ragione. L’era atomica chiude l’era della cultura di guerra ed apre il tempo di un nuovo Esodo. Noi dobbiamo guidare l’esodo da questa cultura che integrava la forza nella formalità razionale ad un’altra cultura che elimini la violenza. Il Vangelo ci appare di nuovo allora come l’annuncio del mattino, come una proposta di alternativa, come un grande esodo dalla violenza del sacro che faccia emergere nelle coscienze e nelle strutture sociali la sacralità intima della vita e delle relazioni. E cita e fa propria la famosa implorazione del mistico medioevale Eckart, teologo domenicano, che nel XIII-XIV secolo invitava a liberarsi da ogni forma di possesso e in primo luogo dal possesso della oggettivazione della sacralità divina: “Io prego che Dio mi liberi di Dio”.

 

Può esistere un “sacro” che non sia separato dalla vita e che non preveda la mediazione della casta?

 

Si apre qui una contraddizione intrigante: come può avvenire l’incontro diretto del sacro con la vita se il sacro è essenzialmente separazione? Umberto Galimberti, professore di filosofia della storia e saggista, ha scritto un libro dedicato proprio a indagare una tale contraddizione: Orme del sacro (Feltrinelli, Milano, 2000).

“Sacro” - egli scrive nella introduzione - è parola indoeuropea che significa “separato”. Dal sacro - argomenta Galimberti - l’uomo tende a tenersi lontano, come sempre accade di fronte a ciò che si teme, e al tempo stesso ne è attratto come lo si può essere nei confronti dell’origine da cui un giorno ci si è emancipati. Questo rapporto ambivalente è l’essenza di ogni religione che, come vuole la parola, recinge, tenendola in sé raccolta (re-legere), l’area del sacro. Al contatto con il sacro sono preposte persone consacrate e separate dal resto della comunità cioè i sacerdoti. Le religioni mitiche assolvevano al compito di gestire il rapporto dell’uomo col sacro socchiudendo appena la porta dietro la quale si aggira la violenza dell’indifferenziato e del caos cioè del mistero, quasi che inoculando un po’ di caos si potesse resistere al Caos. Il cristianesimo invece, con la incarnazione di Dio, pone le premesse della rimozione del sacro. Non c’è più un tempo sacro e un tempo profano, un tempo di Dio e un tempo dell’uomo, ma un unico tempo, in cui sia Dio sia l’uomo concorrono alla redenzione del mondo. Ciò significa che tutto il tempo è stato sacralizzato o, che è lo stesso, che tutto il sacro è stato “profanato”. Dando un senso al tempo, orientando il tempo verso la redenzione definitiva, il cristianesimo ha istituito il tempo come storia, storia della salvezza. Ma affievolendosi poi la fede religiosa, il senso del tempo da storia della salvezza è diventato teoria delprogresso dove il tema della redenzione viene recuperato nella forma di liberazione. Galimberti cita a questo proposito Schlegel il quale afferma che “Il desiderio rivoluzionario di realizzare il regno di Dio è il punto elastico di tutta la cultura progressiva e l’inizio della storia moderna”. Storia secolarizzata quanto si vuole ma sostanzialmente cristiana, sia che si tratti dell’illuminismo, sia del socialismo, sia del liberismo.

Galimberti nel corso del suo denso e talvolta faticoso ragionamento giunge a una conclusione che a me sembra esprimere una certa nostalgia del sacro reificato e separato e della sua gestione da parte della religione. In prima istanza, anche lui, come Balducci, vede nell’oggi quasi un crinale apocalittico. “Giunti al punto in cui la nostra capacità di fare è enormemente superiore alla nostra capacità di prevedere, il sacro, che la nostra cultura ritiene di aver confinato nella preistoria, torna a farsi minaccioso, e per giunta a nostra insaputa, senza che noi lo si possa riconoscere, perché del sacro abbiamo perso non solo l’origine, ma anche la traccia che segnava il limite oltre il quale era prudente non avventurarsi”… Siamo divenuti orfani del sacro perché il cristianesimo “… producendosi in discorsi che ogni società può fare tranquillamente da sé (i discorsi sull’etica, ndr), lascia la gestione della notte indifferenziata del sacro alla solitudine dei singoli che, privi come sono di quelle metafore di base dell’umanità che hanno fatto grandi le religioni storiche, producono quelle premesse vuote, ma più spesso tragiche, che sono il nutrimento di quella religiosità da New Age che viene incontro a quel nucleo di follia che ciascuno di noi avverte dentro di sé come non interpretabile, non culturalizzabile, non leggibile. Per capire questa dimensione religiosa … è necessario che il cristianesimo compia un ‘esodo’ da se stesso e partecipi non solo culturalmente ma anche psicologicamente a queste diverse visioni del mondo dove un dio, dimenticato dalla pratica del cristianesimo storico, agita le menti”. Se Galimberti vuol dire che il cristianesimo deve uscire dalla dimensione dell’etica per tornare a gestire il sacro in quanto realtà reificata e separata allora è più vicino a Messori che a Balducci. Anche il noto scrittore cattolico, ligio credente, autore fra l’altro di un libro a quattro mani addirittura con Giovanni Paolo II, in una intervista a la Repubblica del 30 dicembre 2000, sostiene che il Magistero ecclesiastico deve ritrarsi dal dettar norme etiche e occuparsi di più di Dio, di Cristo, della fede. “Cosa è questo continuo frugare tra embrioni, uteri, cellule, contraccezione, riproduzione assistita, - si chiede Vittorio Messori - se non un vero e proprio tentativo di ridurre la fede cristiana a semplice opzione moralistica? Gli uomini di chiesa tornino ad annunciare, prima di tutto, la fede in Cristo e la smettano di dare l’impressione di guardare solo nella camera da letto”. Sia a Messori che a Galimberti, i quali peraltro dicono alcune cose che considero condivisibili quasi ovvie, sfugge mi sembra la dimensione del potere che invece ha ben presente Balducci. Non solo l’etica ma anche il sacro, anche Dio, anche Gesù, anche la fede cristiana vanno ricondotti nelle mani degli uomini e delle donne, di tutti noi in quanto laici, e vanno sottratti al monopolio degli “uomini di Chiesa”. E in questo senso la New Age, verso cui Galimberti è impietoso, non sarà la soluzione ma può essere un tentativo, una ricerca a tentoni da guardare criticamente ma non da demonizzare globalmente e soprattutto non va assolutamente confusa con le sette fanatiche che producono suicidi di massa.

Il problema della separatezza del sacro ritengo che non si risolva affidandolo di nuovo alle religioni, quasi come in una riedizione dello scambio ormai anacronistico fra poteri laici e poteri religiosi: voi ci lasciate l’etica e la politica e noi vi lasciamo il mistero, i fini ultimi e il sacro. Forse non c’è una soluzione definitiva ma una indicazione secondo me corretta e attuale è quella che ha animato il Convegno fiorentino delle Comunità di base sulla laicità e sulla violenza del sacro, citato sopra, e che si può sintetizzare distinguendo da un lato il sacro come reificazione violenta del mistero e dell’inesplorato, operata dal potere, e dall’altro lato il sacro come miniera profonda e fonte nascosta di inedito che soggiace alla razionalità, alle provvisorie conquiste umane, alle consapevolezze acquisite o “edite”. Questo secondo universo del sacro è sì “separato” ma non dalla vita di cui invece è l’anima segreta. Allora in che senso è separato? In quanto è “altro” rispetto alla cultura dominante e come riserva di criticità rispetto a tutte le sacralizzazioni delle nostre provvisorietà. Infine è separato come il sogno dalla realtà diurna. E il sogno attuale che ho cercato di delineare è proprio una nuova divisione delle acque per aprire il tempo di un grande esodo, di un nuovo deserto e di un nuovo Sinai.

Possiamo assumere come luogo simbolico di questo nuovo Sinai il crocicchio, la strada, la piazza, insomma ciò che si trova quando si esce dalle reificazioni del sacro in tutte le sue dimensioni, cioè dalle mura, dalle porte blindate, dai sacri recinti della casta?

 

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