Enzo Mazzi

Comunità di base e ministeri

 

Qualche riflessione nella quale tento di esprimere, sotto la mia responsabilità, cose, suggestioni, intuizioni, problemi, che però fanno parte costantemente della socializzazione comunitaria, sempre assai plurale (cfr. Comunità dell’Isolotto, Oltre i confini: trent’anni di ricerca comunitaria, LEF, Firenze 1995).

Le comunità di base non sono frutto di un progetto ideologico, calato dall’alto. Sono nate nel grembo delle cose, della vita, della storia ed è lì che va ricercato costantemente il senso del loro essere e del loro cammino.

Non si può indicare una precisa data di nascita delle comunità di base. Il loro concepimento si può far risalire agli anni ’50, nel clima del grande processo di trasformazione globale del dopoguerra. Il carattere inedito di queste formazioni sociali ed ecclesiali di base, il loro essere realtà di transizione che cercano il nuovo senza perdere una sola goccia del positivo espresso dal vecchio, il loro cercare dimensioni nuove di esistenza basate sul primato delle relazioni, oltre la cultura patriarcale che invece è basata sull’appartenenza tribale, la loro precarietà e provvisorietà, che rifugge dalle moderne imbalsamazioni istituzionali, il loro vivere costantemente fra “essere e non essere”, sempre in bilico fra il dentro e il fuori in posizioni di frontiera, tutto questo le rende un po’ come un campione reale della grande trasmigrazione sociale, materiale, psicologica e culturale, che in pochi anni, dopo la guerra, cambierà volto alla società.

Le comunità di base tentarono di realizzare in pratica, pur con tante difficoltà e contraddizioni, il sogno perenne dell’umanità che in quel momento premeva con particolare forza: dal primato delle istituzioni al primato dell’amore. Tale trasformazione poi troverà voce, anche per merito loro, nel Concilio e verrà accolta nei documenti conciliari. Specialmente nella “Lumen Gentium”, ma non solo, il Popolo di Dio è stato posto al Centro della Chiesa ed è stata tolta la centralità della gerarchia, dei ruoli, dei ministeri, sebbene sia stata riaffermata la costituzione gerarchica della Chiesa stessa. Qualcuno l’ha chiamata giustamente rivoluzione copernicana. Ma tale rivoluzione conciliare non è stata e non è un fatto tutto interno alla chiesa, non è una sciaguattata nell’acquasantiera. Perché si inserisce in un processo storico e culturale rivoluzionario di lunga lena e si lega a un bisogno sentito a livello generale della società mondiale: rifondare la modernità sulla centralità delle relazioni. Se c’è una radice profonda della modernità da sradicare è l’individualismo competitivo. E non si sradica a parole. Un mondo nuovo non ce lo regala la lotta di tutti contro tutti che è alla base della moderna società mercantile liberista.

E’ in questo preciso contesto storico che va collocato il dibattito sul senso attuale delle comunità di base, sulla loro vita, sulla loro configurazione, sul loro futuro.

Che ne è di quella straordinaria fioritura degli anni ‘70? Poche comunità restano vive. E’ un dato che non riguarda solo le comunità italiane, ma il movimento a livello mondiale. Che qualche realtà resista, però, è già un risultato, dopo la desertificazione di tutto ciò che era nato negli anni ’70, operata dalla spietata repressione e dal rimbecillimento del decennio successivo, gli anni ’80. Ma è sostanzialmente vero che il termine comunità è ormai inflazionato. Tanto che si fa molta fatica a parlarne. E soprattutto si rischia di esser fraintesi al solo pronunziare la parola. Si va dalla comunità europea alle comunità di accoglienza, dalle comunità scientifiche alle comunità religiose, comunità internazionali, comunità delle varie etnie. Perfino l’alleanza di stati in nome della guerra cosiddetta umanitaria si è spudoratamente chiamata comunità internazionale.

Tuttavia, questo proliferare strumentale e contraddittorio di comunitarismi può avere anche un risvolto positivo: può significare che il termine comunità è dotato tutt’ora di una forza intima, per cui conviene riappropriarcene, tentando di dare alla stessa significati all’altezza delle sfide attuali.

E’ quello che tentano di fare da sempre le comunità cristiane di base. Una nuova società ha bisogno di una nuova centralità delle relazioni e quindi necessita di reti di esperienze comunitarie oltre i confini. O, meglio, ha bisogno che uno spirito comunitario aperto informi tutte le formazioni e le strutture sociali. Altrimenti non si esce da questo dominio dell’individuo astratto. Il significato più pregnante della comunità consiste nel dare forza e spazio a qualcosa che ci precede tutti e cioè alla realtà degli ultimi, delle persone che non hanno comunità, del “figlio dell’uomo” più spoglio, per usare termini evangelici. Che è cosa molto diversa nella sostanza dalla carità, dall’assistenza, dal piegarsi sui diseredati e dalla stessa “scelta preferenziale” dei poveri. Lo sanno molto bene i cristiani di San Carlo Borromeo del Barrio de Entrevas a Madrid. Il vescovo ha chiuso proprio in questi giorni la loro parrocchia, la cui pastorale, liturgia, catechesi, impegno sociale, è da trent’anni integrata nella solidarietà con la lotta dei diseredati per la giustizia e i diritti, e l’ha chiusa per destinarla alle più tranquille e rassicuranti attività assistenziali della Caritas.

Roberto Esposito, studioso di storia delle dottrine politiche e filosofo, scrive in un saggio intitolato Communitas: l’origine e il destino della comunità: “Essa (la comunità) non è una proprietà, un pieno, un territorio da difendere e separare rispetto a coloro che non ne fanno parte, ma un vuoto, un debito, un dono nei confronti degli altri, che ci richiama nello stesso tempo alla nostra costitutiva alterità anche da noi stessi”. Quello che lo studioso desume dalle sue ricerche teoriche, noi lo abbiamo sperimentato delle nostre prassi, nei nostri cammini tortuosi che ci portano sempre lì, all’assenza, al vuoto, alla nostra alterità anche rispetto a noi stessi.

Mi rendo conto che qui c’è il rischio di un grave fraintendimento. Quasi che la comunità fosse in opposizione alla individualità. Dalla cultura della soggettività individuale e dallo statuto dei diritti individuali non si può tornare indietro. Qualcuno, ad esempio il giurista Pietro Barcellona, ha coniato un’espressione come titolo di un suo libro: L’individuo sociale. “La modernità – egli scrive – si è fondata su una pretesa autocostituzione dell’individuo come atomo senza legami sociali e sul controllo degli affetti da parte della ragione calcolante. Ma se fosse solo una fantasia di onnipotenza? C’è un legame che unisce l’ “io” al “noi”? Molte sono le domande che si affacciano alla nostra modernità… scoprendo la dimensione sociale dell’individualità (l’individuo sociale) finora negata e occultata dalla logica identitaria dell’universalismo astratto del mercato e del diritto formale”.

Rilevare questo bisogno di comunitarietà oltre i confini non significa affatto prospettare la stabilizzazione dell’esperienza storica delle comunità di base.

Il futuro delle comunità di base non è certo in un riprodursi della fioritura degli anni ’70. La storia non ha la circolarità delle stagioni. Potrebbero costituirsi in movimento stabilizzato, darsi una struttura capace di attrarre, di creare senso, di offrire segni di appartenenza, addirittura potrebbero dotarsi di “nuovi ministeri ordinati e consacrati democraticamente”, magari per elezione dal basso, istituire cioè una specie di democrazia sacrale per svilupparsi, riprodursi e durare. Alcuni possono anche essere attratti da una simile prospettiva. C’è un dibattito interno. Per molti però la stabilizzazione è un grosso rischio. Dove si va? Verso la comunità di base come una “quasi parrocchia”, con tanto di ministeri, prevista del resto dallo stesso diritto canonico (can 516)?

Sono in molti, potrei dire siamo in molti, che alla dimensione della stabilità preferiscono la dimensione della precarietà, del fermento che si nasconde e si mescola nella massa della farina e la fa lievitare tutta; del chicco di grano caduto in terra che deve morire per portare frutto: “se non muore, rimane solo; se invece muore, produce molto frutto” (Giov. 12,24). In genere queste immagini evangeliche vengono intese in senso sacrificale e moralistico, da applicarsi solo alla vita personale. Noi sappiamo però che, nel crogiolo che era la Palestina del primo secolo, quelle espressioni e quelle simbologie, desunte dalle culture sia profetiche che misteriche, avevano per il movimento di Gesù un significato di liberazione non solo religiosa e spirituale, ma anche politica e sociale.

Ma che significa in pratica oggi, per noi, essere fermento che si mescola e seme che muore? Questi ed altri intriganti interrogativi sono al centro del confronto fra una quantità di esperienze comunitarie di base. Ma non sono forse gli stessi interrogativi che riguardano l’insieme del movimento dei movimenti “per un nuovo mondo possibile”?

(da Viottoli 1/2007)

 

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