CARO SIGNOR SALEEM...
... sono sicuro che, nonostante le apparenze giornalistiche, lei senta nel cuore un’angoscia infinita per la violenza terribile compiuta contro sua figlia Hina. Anch’io sono padre e nonno. Ho 59 anni e sono nato e
cresciuto nel forte solco della tradizione religiosa cattolica. Ne ero così convinto e affascinato da aver scelto,
all’età di dieci anni, di entrare in seminario, dove ho studiato e sono stato formato per undici anni. Ma non è
di questo che desidero parlare con lei...
Leggo sulle cronache dei giornali che il grande rimprovero che lei rivolgeva a sua figlia era quello di
voler vivere “all’occidentale”, insofferente alle regole che la “tradizione” musulmana impone alle ragazze.
Da alcuni giorni ci rifletto e vorrei esporle il mio punto di vista. Perchè, vede, anch’io, come le dicevo prima,
sono nato e ho vissuto a lungo nel solco di una radicatissima tradizione religiosa, che predicava e praticava la superiorità dell’uomo sulla donna, perchè metteva (e continua a mettere) al centro dell’adorazione universale il “padre”, da quello divino a quelli umani: religiosi, spirituali, biologici. Leggerà qui di seguito la testimonianza di una donna che ha vissuto angosce simili a quelle di troppe ragazze, non importa se cristiane o musulmane.
Ho avuto bisogno di molta riflessione, grande caparbietà e resistenza e dell’aiuto di persone amiche,
sorelle nella fede e compagne nelle lotte, per riconoscere il male nelle tradizioni che negano la libertà individuale e autorizzano i padri a dominare. Ma nel momento della crisi, che mi ha portato a lasciare il seminario, all’età di 21 anni, e ad entrare in fabbrica come operaio, ho trovato un prezioso interlocutore proprio in mio padre. Che mi considerava, come dice il poeta Gibran, una freccia scagliata dal suo arco (con mia madre, santa donna) e mi ha sempre lasciato libero di fare le mie scelte, ma parlando, discutendo, mettendomi davanti i suoi dubbi e i suoi timori. Come vede, si può essere padri in modi diversi.
Nel giro di pochi anni sono consapevolmente uscito dal solco della tradizione cattolica, pur continuando
a crescere nella fede grazie alla compagnia di donne e uomini che da più di trenta anni vivono con me il
cammino di libertà nella comunità di base. Se oggi sono un credente felice e attento, lo devo anche a mio padre, che mi ha sostenuto e accompagnato in questa mia ricerca di libertà. Ed è quello che ho cercato di fare nei confronti di mia figlia e di mio figlio. Credo che servano a poco prediche e pressioni, quanto piuttosto la capacità di offrire loro sostegno e accompagnamento, dialogando sempre, anche quando i nostri punti di vista sono molto diversi. I figli diventano adulti consapevoli se crescono riflettendo... e la riflessione è un atto totalmente libero. La vita è loro: tocca a loro fare le scelte che preferiscono. Noi genitori li dobbiamo accompagnare e sostenere, rallegrandoci di vederli crescere in libertà e responsabilità. Così anche le nostre “frecce” saranno utili al bene del mondo.
Le allego, in proposito, la riflessione di Vincenzo Andraous, un amico che fa l’educatore in un istituto
per ragazzi “difficili”. Anche lui ha scelto di accompagnare e sostenere ragazzi che non sono suoi figli.
Un’altra piccola cosa vorrei dirle, con molta franchezza. Da quando avete ucciso Hina, leggo ogni
giorno su giornali, riviste, internet, interventi di donne femministe che puntano il dito contro il patriarcato,
indicandolo giustamente come cultura di dominio e di morte, responsabile di terribili ingiustizie nelle relazioni
tra uomini e donne. Io condivido, con profonda convinzione, le loro analisi: le nostre grandi tradizioni
religiose (cristianesimo e islam) sono nate quando il patriarcato era già solidamente radicato nella società
umana e l’hanno fatto proprio e predicato come ‘legge naturale’, imponendolo in modo acritico, dogmatico e
fondamentalista.
Così pure condivido le riflessioni di alcuni uomini che cominciano a sentire e a denunciare il peso su
di sé di questa cultura di morte, perché il patriarcato è “tossico per gli uomini e letale per le donne”, come
scrive Robin Morgan.
Ma non basta, secondo me. Non basta dire ‘basta!’. Noi uomini, dopo aver condiviso queste denuncie,
abbiamo ancora un compito a cui non ci possiamo sottrarre: fare, ciascuno nella propria mente,
nel proprio cuore, nella propria vita, un deciso passo indietro, concreto, materiale, quotidiano. E smettere di intimidire, picchiare, violentare, uccidere, costringere, imporre... Smettere di spacciare la cultura patriarcale per religione e la religione per fede. Scendere dal piedestallo che il patriarcato ci ha costruito sotto i piedi e riconoscerci “alla pari” con ogni altra creatura, cominciando dalle donne e dai cuccioli della nostra famiglia. E imparare il rispetto per ogni persona e per ogni creatura (animale, pianta o sasso che sia) che sia diversa da noi: “Chi è senza peccato scagli la prima pietra”. Ecco una buona idea: se i peccati sono l’incarnazione della nostra creaturalità, davvero nessuno e nessuna mai può sentirsi in diritto di giudicare e condannare. Rispettare vuol anche dire, io credo, non trattenere la freccia che abbiamo scoccato:
ogni figlio, ogni figlia, è una persona che dobbiamo accompagnare sulla strada dell’autonomia e della responsabilità; senza riconoscere la loro personale libertà, ciò sarebbe impossibile. Fanno delle scelte diverse dalle nostre? Cerchiamo di capirle, anche se non sempre ci è spontaneo rallegrarcene.
La tradizione, conservata e adorata come un idolo di pietra, come un idolo si comporta: schiavizza,
omologa, ci vuole tutti e tutte uguali, obbedienti, incapaci di opinioni personali. Questo è fascismo. Anch’io
l’ho conosciuto, in seminario e, in genere, nelle istituzioni della gerarchia cattolica. Mi sono semplicemente
ribellato, senza commettere violenze, ma scegliendo per me un altro modo di vivere. Da allora sono un uomo felice.
Questo auguro anche a lei, a ogni uomo della sua famiglia e ai ragazzi e alle ragazze come Hina: che
più nessuno e nessuna debba pagare con la vita il proprio desiderio di libertà. La libertà è strada di felicità
non solo per figli e figlie, ma anche per padri e madri.
Non so come farle arrivare queste righe: le affido alla bisaccia degli Uomini in Cammino, augurandomi
che qualcuno gliene recapiti una copia. Con affetto

Beppe Pavan


 

E’ DAVVERO IMPUTATA LA TELEVISIONE ?


La televisione non è il nostro genitore, neppure il nostro educatore, ancor meno il nostro compagno di viaggio.
Per cui affermare che “la vita mi è passata davanti e non me ne sono accorto”, perché la televisione mi
ha condizionato, o peggio ipnotizzato, è davvero una mera giustificazione.
La televisione è l’imputata? La corte che giudica saremmo noi? Coloro che non hanno tempo per una carezza né per una preghiera? O forse la verità è che siamo noi ad aver creato tanti bambini spot!!!
Perché non ammettere che quando cominciano i compromessi con le proprie responsabilità di genitori, di educatori, di accompagnatori, si è destinati a una proiezione virtuale, che indica nei ragazzi una imbecillità
non loro, ma piuttosto nostra?
La televisione non è il fine che compie il percorso della nostra vita, è solo un mezzo per informarci e intrattenerci; per un tempo necessario, e non per intero.
Dovremmo fare nostra la filosofia di S. Agostino, indipendentemente dalla fede che ognuno professa.
Filosofia del dialogo e della relazione improntata a ribadire il valore della memoria, dell’intelletto, della
volontà, per aiutarci a comprendere i segni di un disagio che è sempre più relazionale. Per non inciampare
nella vulnerabilità delle giustificazioni, nelle incredulità costruite, nelle inadeguatezze improvvise.
È una filosofia che potrebbe allontanare il pericolo incombente dell’inabitabilità dell’uomo con se stesso
e con gli altri, figuriamoci in una pseudo convivenza mediatica.
Il mondo comunque sarà sempre più basato sulle comunicazioni, ma ciò non contempla l’assunzione di un
soggettivismo e relativismo che non accetta più alcuna verità.
La famiglia, la scuola, la società sono sistemi divenuti complessi, e mettere ordine forzatamente equivarrebbe a creare un surplus di disordine.
Perché dove c’è una complessità essa non sottende una complicanza, infatti la differenza fondamentale sta
nel tempo… e di tempo non ce n’è mai, a quanto pare.
Ho l’impressione che non sia la televisione l’accusata, bensì le stagioni di parole che passano e che non riescono più a disegnare quelle lezioni straordinarie per non intendere, come ha detto qualcuno, che un semaforo rosso è solo il punto di vista del comune, non è una regola stradale.
Forse affidarci a risposte più sfumate non significa andare incontro a conclusioni errate, ma a un giudizio
meno approssimativo.
Esistono geometrie che non conosciamo, incertezze, solo i comandamenti sono certi, indiscutibili.
In conclusione siamo dentro fino al collo nell’era delle comunicazioni istantanee, stiamo diventando tutti navigatori- esploratori del multimediale.
Proprio per questo sarebbe bene tendere a fare gli entronauti di noi stessi, quanto meno per ascoltareguardare, con orecchi-sguardi nuovi, i tanti figli al palo, in attesa.
Accompagnare costa sicuramente di più in termini di tempo e denaro, ma consente di rispettare nei
più giovani il diritto a essere protagonisti attivi della propria crescita personale, e negli adulti di appropriarsi
finalmente di vista prospettica, quanto meno per tentare di evitare abbandoni devastanti...
di cui la televisione è sicuramente estranea ai fatti.

Vincenzo Andraous

 



PICCOLA STORIA ROMANA,
TANTO SIMILE A QUELLA DI HINA

Il mostro è il patriarcato, nelle sue varianti cattoliche o musulmane. Ho una mia personale piccola storia
tanto simile a quella della giovane pachistana uccisa a Brescia, ma...per fortuna oggi che ho sessant’anni
posso raccontarla.

Scena della storia

Roma (non profondo Sud d’Italia), fine anni ‘50- prima metà dei ’60 (non secoli fa), famiglia di piccola
borghesia impiegatizia (non poveri diseredati analfabeti), cattolica (non musulmana).

Primo atto

A 14 anni, mentre ero in terza media, calzini corti, bambina obbedientissima cattolica osservante, mai
parlato con un ragazzo perché avevo sempre frequentato scuole esclusivamente femminili, all’improvviso,
senza che ne sapessi o ne capissi niente, mi ritrovai fidanzata con un “vecchio” cugino di mia madre (13
10 anni più di me). Fidanzamento combinato dai miei perché lui era un giovane con grandi prospettive di carriera: nemmeno trentenne Console d’Italia ad Hannover (zona dei 4000 emigrati italiani lavoratori della Volkswagen).
Mai interpellata, mai che nessuno della mia famiglia mi avesse detto o chiesto qualcosa. Pensai
che se i miei dicevano che ero fidanzata (poi da adulta ho sempre usato il termine “venduta”, ma non è corretto perché i miei non ne hanno avuto niente se non un immaginato futuro prestigio), evidentemente le cose andavano così e così andava fatto. Fidanzata con un “vecchio” che vive ad Hannover, mentre facevo con grande piacere e successo il mio ginnasio e primo liceo a Roma. Ho ancora la fotografia di classe del mio
primo liceo al Visconti, in cui i miei compagni mi augurano un felice matrimonio. Sì perché, dopo una breve
visita in compagnia di mio padre e mia nonna ad Hannover, dove avevo potuto incontrare i matusalemme
ambasciatori inglese e spagnolo, ma anche poveri disgraziati lavoratori italiani che il mio futuro marito trattava come bestie, sicché mi ero convinta che, come moglie, sarei andata io in loro aiuto, era stato deciso
che mi sarei dovuta sposare prima di iniziare il secondo liceo e che, essendo sveglina, avrei finito il liceo
studiando da sola e avrei fatto l’Università in Germania.
Mia madre: mai un dubbio, mai una parola, mai una domanda, mentre il Console d’Italia, quelle poche volte
che eravamo lasciati soli, si masturbava tranquillamente su di me (l’ho capito e usato il nome appropriato solo anni dopo). Per mia fortuna nell’estate tra il primo e il secondo liceo mi presi la prima cotta della mia vita per un ragazzino conosciuto al mare: quindi la decisione di rifiutare il matrimonio. Crisi isterica, con tanto di canonico svenimento e terrore generale, per convincere mio padre che non potevo sposarmi. Salvezza e fine dell’atto.

Secondo atto


20 anni, Università La Sapienza, fidanzata con un mio coetaneo. Picchiata violentemente per la strada,
più e più volte, da mio padre perché tornata a casa a mezzanotte.


Terzo atto

Compio finalmente la maggiore età e, un mese dopo aver compiuto 21 anni, ritiro il libretto postale dove
i miei avevano depositato tutte le mie borse di studio dalle elementari in poi e scappo di casa. Vita in una
camera in subaffitto a Trastevere, in camere di amici al Colosseo: per mesi nascosta, tornando a casa per vie traverse e con lunghi giri che facessero perdere le mie tracce, telefonando alle mie sorelle di nascosto, dalle più improbabili e lontane cabine telefoniche, terrorizzata ma decisa a salvare pelle e vita: mio padre mi cercava con il coltello per ammazzarmi, perché pensava che fossi andata a vivere con il mio ragazzo.
Nel 1968 divento stipendiata di un gruppetto di nuova sinistra e me ne scappo a Torino (l’autunno caldo operaio deciderà la mia vita per sempre).
L’ultima volta che mio padre mi ha picchiato per la strada avevo 26 anni ed ero madre di due figli.
Se non fossi stata una brava studentessa universitaria, dotata di presalario e buone amicizie, che si muoveva all’interno di un paese e di una cultura che erano il suo paese e la sua cultura, avrei potuto essere una Hina, come altre giovani italiane allora e, diversamente, ancora oggi.
Differenze e distinguo tra cattolicesimo e islamismo? Ma certo, addirittura banale, tanto quanto banale è
l’enfasi di Giuliano Ferrara su questi distinguo. Ma il mostro in questione, nel caso di Hina come nel mio e
in altri, è il patriarcato, nelle sue varianti cattoliche o musulmane che siano, nelle sue fiammeggianti
forme premoderne o nelle sue sfilacciate moderne sopravvivenze e modernissime resistenze che mietono
un’infinità di vittime per mano di civilissimi, magari cristianissimi, maschi europei.

M.Grazia Rossilli - dal sito "Il Paese delle donne on line" (http://www.womenews.net/spip)

 

[torna indietro]