Il sogno di Dio: «Beati i poveri!»

 Vedendo le folle, Gesù salì sulla montagna e, messosi a sedere, gli si avvicinarono i suoi discepoli. Prendendo allora la parola, li ammaestrava dicendo:
«Beati i poveri in spirito, perché di essi è il regno dei cieli.
Beati gli afflitti, perché saranno consolati.
Beati i miti, perché erediteranno la terra.
Beati quelli che hanno fame e sete della giustizia, perché saranno saziati.
Beati i misericordiosi, perché troveranno misericordia.
Beati i puri di cuore, perché vedranno Dio.
Beati gli operatori di pace, perché saranno chiamati figli di Dio.
Beati i perseguitati per causa della giustizia, perché di essi è il regno dei cieli.
Beati voi quando vi insulteranno, vi perseguiteranno e, mentendo, diranno ogni sorta di male contro di voi per causa mia.
Rallegratevi ed esultate, perché grande è la vostra ricompensa nei cieli. Così infatti hanno perseguitato i profeti prima di voi (Matteo 5, 1-12).

 


Il manifesto del regno di Dio

Il testo delle beatitudini è senz’altro una delle pagine più belle e allo stesso tempo più complesse e più studiate del Secondo Testamento. Si tratta di una serie di “congratulazioni” che fanno parte di un genere letterario che più volte troviamo nella Bibbia (cfr. Salmi 1,1-2; 12,12).

Le beatitudini aprono il Discorso della Montagna del vangelo di Matteo (cap.5-7) e rappresentano in qualche modo il discorso programmatico, il manifesto del regno di Dio annunciato da Gesù. Egli proclama, infatti, apertamente che Dio si schiera dalla parte degli ultimi. «Perché è un Dio difensore di quelli che difesa non hanno in questo mondo» (G. Barbaglio in I vangeli, Cittadella, Assisi 1975, pag. 155).Per il nazareno il regno è l’ingresso di Dio nella storia per creare giustizia e pace, per quelli che giustizia non riescono ad ottenere, ed in questo senso la sua predicazione si inserisce nella lunga tradizione del profetismo israelitico come riportato in Isaia: «Lo spirito del Signore Dio è su di me perché il Signore mi ha consacrato con l'unzione; mi ha mandato a portare il lieto annunzio ai miseri, a fasciare le piaghe dei cuori spezzati, a proclamare la libertà degli schiavi, la scarcerazione dei prigionieri, a promulgare l'anno di misericordia del Signore, un giorno di vendetta per il nostro Dio, per consolare tutti gli afflitti, per allietare gli afflitti di Sion, per dare loro una corona invece della cenere, olio di letizia invece dell'abito da lutto, canto di lode invece di un cuore mesto» (Is 61,1-3).

Il discorso delle beatitudini è paradossale, inquieta, muove meccanismi di non facile comprensione. «Gesù si congratula con i poveri, gli oppressi, gli indifesi, gli emarginati e proclama loro il lieto annunzio della venuta imminente del regno, cioè che Dio sta per intervenire nella storia a rendere giustizia. È paradossale perché di fatto essi vivono in condizioni di ingiusto disagio. Eppure egli si felicita con loro. Perché? Non per una mistica esaltazione della povertà e della miseria, ma per il fatto che Dio sta entrando in azione per toglierli dalla loro condizione disumana» (ivi). È questo intervento del mistero nella storia che sconcerta, che appare ridicolo all’uomo di potere. Potrebbero sembrare le parole di un folle, eppure riescono a toccare le realtà più intime del cuore dell’uomo e, nello stesso tempo, la dimensione politica, sociale, l’impegno e la presenza degli uomini e delle donne nella storia.

Le beatitudini possono apparire contraddittorie. Come si può, infatti, affermare la felicità del povero, dell’afflitto, di chi ha fame di giustizia o di chi è perseguitato? Una condizione di oppressione che viene però contrapposta ad una promessa di liberazione: di essi è il regno dei cieli. Ma anche una serie di condizioni di svantaggio esistenziale come l’essere miti, misericordiosi, puri di cuore, costruttori di pace, ecc, di fronte ad un mondo dove a vincere è la legge del più forte, dell’opportunità, della furbizia, dell’arrivismo, un mondo dove molti faticano a trovare le forze necessarie per guardare oltre, per andare avanti.

Ma nell’ottica del regno di Dio ad avere la meglio è chi costruisce rapporti sociali sulla base della nonviolenza; chi ha cuore puro; chi con la schiena curva, perché carica di un pesante fardello, si presenta davanti alla Sorgente della vita.

Beati i poveri


Nella Bibbia i poveri, gli umili, sono chiamati in ebraico anawim, sono i «poveri di Jhwh», quelli che Dio libera. Gesù nel suo discorso della montagna avrebbe usato quindi il concetto relativo alla parola ebraica anawim. In greco, la lingua in cui sono stati redatti definitivamente i vangeli, non esiste un termine corrispondente a «poveri di Jhwh» per cui in Matteo la parola anawim fu resa con «poveri in spirito» mentre nel parallelo del vangelo di Luca viene usato semplicemente il termine «poveri» («Beati i poveri…», Lc 6,20ss).

Per una corretta interpretazione delle beatitudini non possiamo non tener conto del contesto in cui questa parola fu pronunciata e soprattutto del retroterra culturale, teologico e storico del popolo di Israele. Gli anawim, i poveri di Jhwh, sono i diretti destinatari dell’annuncio evangelico. (Cfr. Is 61, 1-3).

La prima beatitudine: «Beati i poveri in spirito, perché di essi è il regno dei cieli» (Mt 5,3), quindi, è la beatitudine che in qualche modo riassume tutte le altre, che ne sono una diretta emanazione: gli afflitti, i miti, coloro che hanno fame e sete della giustizia, i misericordiosi, i puri di cuore, i costruttori di pace, i perseguitati per causa della giustizia... Tutti coloro ai quali si rivolge Gesù e per i quali è destinato il regno di Dio.

Tuttavia questi «poveri in spirito» possono farci pensare all’atteggiamento di chi è totalmente disponibile alla volontà del Signore. Rimandano in qualche modo al dinamismo dello spirito, che è soffio e forza vitale. «In questo contesto acquisisce senso scegliere uno stile di vita povero. La povertà materiale in quanto tale, cioè come mancanza dei beni necessari per vivere con dignità, non è amata da Dio» (G. Gutierrez, Condividere la Parola, Queriniana, Brescia 1996, pag.174).

Il rischio, come più volte dimostrato nella storia della Chiesa, è quello di spiritualizzare i poveri, di renderli delle creature celesti prive di bisogni materiali. Oppure di effettuare il processo inverso. Rappresentare chi non è povero come povero in spirito, cioè come un individuo proiettato verso altri mondi spirituali e totalmente disincarnato dalla storia (ma sempre con lo stomaco pieno). Un’altra identificazione perversa che è stata fatta nella storia della Chiesa, e ancora oggi viene presentata in alcuni ambienti, è: regno di Dio = Chiesa. Come disse uno dei padri del modernismo Alfred Loisy: «Gesù predicò il Regno e venne la Chiesa».

È per evitare questi rischi che bisogna affermare, con coraggio e chiaramente, che il regno di Dio è per i poveri «per il semplice fatto di essere poveri in quanto tali, qualunque sia la situazione morale o personale in cui si trovino, Dio li difende e li ama, e sono i primi destinatari della missione di Gesù» (Puebla n. 1142, cit. in J. Sobrino, Gesù Cristo liberatore. Lettura storico-teologica di Gesù di Nazareth, Cittadella, Assisi 1995, pag. 143). Dio è “partigiano”, non può non esserlo, e la sua giustizia interessa questo mondo, questi poveri, questi emarginati... La sua giustizia interessa la storia, la nostra realtà quotidiana, e ne segna una svolta decisiva (Cfr. G. Barbaglio, Gesù ebreo di Galilea. Indagine storica, EDB, Bologna 2002, pag. 289).

Noi e i nostri poveri


Certamente i poveri sono cambiati rispetto al tempo di Gesù. Ma non sembrano cambiate le condizioni che generano la povertà. Gesù nelle sue beatitudini si rivolge ai poveri sociali, marginali, che proprio perché persone di modesta condizione, sono alla mercé dei potenti e dei violenti… Egli afferma con un elenco di temi, il cui svolgimento andrà cercato poi lungo tutto l’evangelo, la felicità di chi – secondo i nostri standard – felicità non può avere:

Felici i poveri,

perché a loro favore è il potere regale di Dio.

Felici gli affamati

perché da Dio saranno saziati.

Felici quelli che sono afflitti,

perché da Dio saranno consolati.

Forse si tratta di affermazioni che ci mettono in una condizione che è anche esistenziale e che ci coinvolge nell’inquietudine, nella sofferenza, nella fede. Si manifesta un’afflizione perché il regno – dentro ciascuno di noi e nel mondo – non è come dovrebbe essere.

Facciamo fatica a vedere questo sogno di Dio nella nostra realtà. E, di fronte alle grandi tragedie, alle ingiustizie, alla povertà della maggioranza delle persone che vivono su questa nostra Terra, di fronte allo scempio ecologico, ai diritti non riconosciuti, alle violenze contro le donne, non potendo farne a meno continuiamo a domandarci: Dov’era Dio…?Dov’è Dio…?

Gabriele