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Alfonso Pascale

CHIESA: IL DISSENSO HA QUARANT’ANNI

Mondoperaio n. 8 novembre 2009

Le Comunità cristiane di base rappresentano, nel panorama delle aggregazioni cattoliche, un movimento del tutto peculiare che si richiama al Concilio Vaticano II e, in particolare, alla riscoperta del valore delle chiese locali, quelle delle origini per intenderci, e di un cristianesimo che si incarna nella storia degli uomini. Esse hanno mantenuto in questi quarant’anni un collegamento tra loro senza mai considerarsi un modello di pratica ecclesiale.  Mentre i Neocatecumenali, i Focolarini, l’Opus Dei, i Legionari di Cristo, Sant’Egidio, Comunione e Liberazione si sono caratterizzati come movimenti in competizione tra loro ma legati direttamente al papa, spinti da una “spiritualità di conquista” per ritornare ad un “regime di ri-consacrazione” del cristianesimo, le Comunità di base hanno scelto di mettere costantemente alla prova la loro “fede in Dio e fedeltà alla terra” senza mai darsi un progetto organizzativo.  Vivono un’idea di chiesa ancorata alla lettura comunitaria della Bibbia per ispirare ad essa la propria iniziativa sui problemi concreti della società. Cercano, in sostanza, di costruire dal basso una chiesa che rispetti le scelte di ciascuna comunità, in una prospettiva di pluralismo teologico e istituzionale. Una chiesa povera dalla parte dei poveri praticata mediante i principi dell’autoconvocazione e della “porta aperta”, senza tuttavia negare all’istituzione ecclesiastica la sua funzione di garantire, nelle forme ritenute storicamente più idonee, la presenza cristiana nel mondo. Una chiesa priva di potere e dotata solo dei mezzi necessari per assolvere alla sua funzione di evangelizzazione.

Con siffatto impegno di prossimità agli ultimi, le Comunità di base contribuiscono a definire scelte politiche funzionali all’interesse generale nella convinzione che il patrimonio ideale e culturale comune è scritto nella Costituzione e non in altro libro sacro e che la politica è la forma più alta della carità se vissuta con rigore morale e competenza e non per perseguire interessi di parte cattolica.

Mario Campli e Marcello Vigli, entrambi impegnati nelle Comunità di base, raccontano le vicende di questo movimento che ha compiuto senza riflettori un cammino originale e che intende continuare a percorrerlo. La narrazione, scandita in modo avvincente dallo scorrere cronologico degli eventi riportati con precisione e puntualità, colma una grave lacuna nella conoscenzastorica di un periodo significativo della vicenda nazionale. Il volume ci fa comprendere, infatti, come il ’68 si sia caratterizzato in Italia nella forma di un moto di contestazione e liberazioneche scosse e trasformò le coscienze, i modelli di vita e l’organizzazione collettiva di parti estese della società italiana sia nelle città che nelle campagne mentre uscivano da profonde trasformazioni e che coinvolse pienamente anche il mondo cattolico alle prese con un processo inesorabile di frantumazione.

Con l’avvento della democrazia si era ormai incrinata l’unità del mondo cattolico, che costituiva una sorta di contenitore in cui stabilizzare i valori religiosi e culturali della cristianità per salvaguardarli contro ogni contaminazione esterna. E questo sgretolamento andava di pari passo con l’impetuoso disgregarsi del mondo rurale in un paese dove in pochissimi anni milioni di italiani avevano cambiato mestiere e residenza con costi umani enormi.

Gli scritti di don Primo Mazzolari e successivamente le riviste Il Gallo di Genova e Questitalia di Venezia circolavano normalmente nelle parrocchie e ponevano in un’ottica nuova il rapporto tra la chiesa e il mondo. Agli inizi degli anni ’60, la vicenda di don Lorenzo Milani, con la dura testimonianza delle Esperienze pastorali, sanciva la svolta egualitaria per una chiesa degli ultimi.  Nascono, in questa temperie, nuove riviste ed intorno ad esse si formano i primi gruppi spontanei e le prime Comunità di base. I temi più dibattuti sono l’antimilitarismo, la non violenza, la condizione degli oppressi, la lotta contro il concordato tra stato e chiesa, il connubio tra la chiesa e il potere politico ed economico.

La novità è che attraverso la lettura dei testi conciliari, che nel 1967 era già diffusa, veniva scoperto e praticato il diritto-dovere di discutere nella chiesa e della chiesa. Sicché da un dissenso genericamente cattolico nasce un dissenso ecclesiale che porta con sé anche i caratteri di una specifica contestazione politica e sociale. I temi posti al centro del confronto diventano, infatti, il divorzio, il celibato ecclesiastico, la scuola confessionale, il ruolo della donna nella coppia, nella società e nella Chiesa, la libertà nel voto. Temi che non sollevano unicamente l’esigenza di un diverso modo di essere chiesa, ma richiedono anche nuove classi dirigenti capaci di leggere i mutamenti, di superare le divisioni ingiustificate e che avevano a pretesto la “guerra fredda”, e di adeguare le forme di partecipazione alla voglia di protagonismo di nuovi soggetti sociali.

Non a caso, mentre si acuiscono i contrasti tra le Comunità, da una parte, e le gerarchie ecclesiastiche, dall’altra, che tentano di reprimere il dissenso, le grandi forze politiche tacciono e guardano con distacco, non comprendendo il carico di sofferenza di quei conflitti analogo a quello che si sprigiona in tutte le lotte sociali. Come giustamente rilevano gli autori, nel dissenso ecclesiale sono pienamente coinvolti il Mezzogiorno e le campagne, i luoghi dove il cristianesimo ha rappresentato non solo un elemento di oppressione delle classi subalterne per i legami che tenevano insieme la chiesa e i potenti, ma anche un elemento di coesione tra i ceti più poveri, in ragione di una diffusa religiosità popolare che si caratterizzava anche per i segni evidenti di ripulsa nei confronti dei ricchi e, dunque, anche dei vescovi e dei preti.

Del resto, senza le modificazioni ideali e culturali delle aree rurali non ci sarebbe stata la vittoria del referendum sul divorzio. Che quel nuovo orientamento fosse diffuso nelle campagne italiane i vescovi dovevano ben saperlo in quanto conoscevano i risultati di un’inchiesta sociologica, effettuata tra il 1970 e il 1971 da 800 assistenti ecclesiastici della Coldiretti. E tuttavia le gerarchie ecclesiastiche non riuscirono a convincere Fanfani perché evitasse lo scontro; egli infatti si fece portare fuori strada da Berlinguer che, convinto a sua volta di perdere il referendum, voleva a tutti i costi raggiungere un’intesa per scongiurarlo.  Entrambi i partiti maggiori, in sostanza, non furono in grado di leggere le trasformazioni avvenute in quegli anni.

L’ansia di rinnovamento che permeava tutte le pieghe della società era alimentata da una forte carica liberatoria: la soggettività, che non metteva in discussione solo il legame tra consumi e bisogni essenziali ma anche il rapporto tra politica e società e tra chiesa e società.  Tuttavia questo elemento non era affatto nuovo perché non derivava dalla società industriale, bensì da quei valori della coscienza individuale e dell’autonomia della persona che erano insiti nei caratteri del mondo rurale dell’Occidente, contaminato da elementi di religiosità popolare propri del cristianesimo, e che in un contesto di democrazia sono emersi in tutta la loro portata eversiva.  Dinanzi a processi di sviluppo in cui l’innovazione tecnologica aveva assunto un finalismo totalizzante, gli spazi aperti venivano cementificati senza alcun criterio razionale e l’organizzazione sociale assumeva forme dirigistiche e di massificazione indistinta e anonima, i nuovi soggetti sociali che provenivano in gran parte dalla cultura individualistica del mondo contadino hanno reagito per sollecitare la riconduzione del modello di sviluppo al fondamento individuale della democrazia occidentale, riproponendo la centralità della persona.

La politica italiana è ancora oggi alla ricerca di soluzioni al problema posto dal ’68 e i partiti sorti ultimamente non danno segnali di volerlo affrontare con un nuovo e più efficace sistema politico, che permetta forme effettive di partecipazione democratica e di evitare derive populistiche. Nella chiesa le distanze tra le gerarchie cattoliche e le Comunità di base anziché accorciarsi si sono ulteriormente allargate, determinando al proprio interno un’accentuazione di forme autoritarie e centralistiche.  Non a caso oggi scontiamo proprio sulla laicità dello stato e sui temi eticamente sensibili una difficoltà democratica nel nostro paese dovuta anche al fatto che si volle archiviare la domanda di cambiamento di 40 anni fa: essa poneva un salto di qualità della democrazia in ambedue le sfere, quella delle istituzioni politiche e quella della istituzioni ecclesiastiche, da affrontare ovviamente in modo distinto e per vie del tutto autonome e precipue. Ma l’intreccio e l’influenza reciproca dei due ambiti, come appare in tutta evidenza dal libro, ci ricordano che la democrazia è un valore universale. E’ dunque un “segno dei tempi” – per usare un’espressione introdotta da papa Giovanni e cara ai “cattolici del dissenso” - se è rimasta nel paese una diffusa rete di Comunità che continuano a coltivare la speranza di una chiesa plurale: è motivo di speranza per tutti coloro che si riconoscono nei valori della laicità dello stato e della democrazia.

 

 

M. Campli-M. Vigli, Coltivare speranza.  Una chiesa altra per un altro mondo possibile, Ed. Tracce, pagg.  215, Euro 13.