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Gruppo biblico della CdB di S. Paolo

DOPO NAPOLI: PREGARE, OGGI, IN UNA CDB

 

Dopo il contributo che la nostra comunità di base di S. Paolo in Roma ha elaborato e inviato in previsione dell’incontro di Napoli vorremmo, come Gruppo Biblico della comunità stessa, soffermarci un poco a riflettere sul significato attuale della prima parte della frase di Bonhoeffer che è stata posta ad insegna dell’incontro e cioè “pregare”, nella speranza di fornire un esempio concreto, alla luce anche delle interessanti e proficue discussioni in merito ascoltate a Napoli il 17-19 settembre u.s., di come si attua questa dimensione in una comunità cristiana, oggi. Questo aspetto, infatti, non è stato molto approfondito durante il convegno, se si eccettua l’esposizione della “disciplina dell’arcano” di Bonhoeffer (ma relativa appunto a Bonhoeffer) fatta da don Pino Ruggieri nella sua magistrale relazione. Gli accenni offerti poi dall’autore sul tema della preghiera nel § 3, dedicato all’ “oggi”, sono necessariamente sobri, come di chi ritenga che non si possano approfondire, nell’economia della relazione, concetti ed atti che si danno per scontati e che sono certamente familiari a don Pino. Nella nostra esperienza il tema è alquanto più problematico.

Chi, infatti, provenendo da esperienze ecclesiali tradizionali, frequentasse per qualche tempo la nostra comunità, troverebbe probabilmente che in essa si prega poco, almeno nell’accezione più consueta del termine. Ed esprimerebbe forse, come già è più volte avvenuto, questa sua sensazione dicendo che nella comunità ha trovato “poca spiritualità”.

Non intendiamo polemizzare contro questa comprensibile sensazione e men che mai proporre il nostro “modo” di pregare come migliore di altri, ma invitare piuttosto a riflettere sul fatto che la preghiera potrebbe, anche tra di noi, assumere  modi diversi di essere, e come questi modi siano strettamente collegati, e anzi in qualche modo dipendenti dalla nostra storia.

Chi ha avuto occasione di conoscere un po’, attraverso i vari testi che ne trattano, questa storia, sa che la CdB di S. Paolo rappresenta il punto di arrivo (naturalmente provvisorio) di quasi quaranta anni di cammino durante il quale le esigenze concrete di sopravvivenza in un contesto nuovo e privo di certezze esteriori (come un piccolo esodo) hanno indotto a determinate scelte concrete sul significato delle quali è ancora aperta la riflessione in termini biblici e teologici.

In tale contesto si è ovviamente sviluppato tra gli altri, supportato dalla più generale riflessione teologica, anche femminile, il discorso su una percezione di Dio possibile nel nostro tempo, che è naturalmente preliminare ad ogni riflessione sulla preghiera. Il “come” pregare è infatti strettamente connesso al “chi” pregare.

Ora, senza pretesa di sviluppare qui un trattato teologico, non si può tuttavia ignorare che la più avanzata ricerca – riprendendo e ampliando antiche intuizioni come quelle sul “Dio ineffabile” del card. Cusano – si muove verso un’idea di  Trascendente il quale, se non può essere razionale (perché altrimenti la ragione verrebbe prima del trascendente) sia almeno ragionevole, cioè non in contrasto con la ragione della quale, per chi crede, il Trascendente stesso ci ha dotati. Vediamo così, se il pregiudizio non ci ottenebra, sempre più messa in discussione dalla scienza e dalla ragione l’immagine tradizionale di un Dio antropomorfo che con tanto piacere vorremmo sentire al nostro fianco nei momenti di necessità come una mamma amorevole e onnipotente ma che tanti problemi ci procurerebbe poi ove deludesse le nostre attese: questo sarebbe appunto il Dio “tappabuchi” di Bonhoeffer, che non possiamo prendere a scusante della nostra inerzia.

Molto più proficuo appare invece, a noi e a molti, prendere come punto di partenza per un discorso del genere, l’idea di un Dio incarnato, quale lo percepirono già coloro che vedendo Gesù di Nazareth "operare con autorità", scacciare "i demoni" e perdonare i peccati, sentendolo dire "se io opero con il dito di Dio, ciò vuol dire che il  Regno di Dio è  fra (dentro?) di voi" (Mt., 12, 28)  si meravigliavano e ringraziavano l'Eterno "di aver dato un tale potere agli uomini" (Mt., 9,8). Ai discepoli poi parve che questa "partecipazione al divino" si manifestasse (incarnasse) in tutti coloro che aderivano alle istanze fondamentali del Maestro, divenendo in tal modo a loro volta "figli di Dio" (Gv., 1,12). Un Dio, quindi, presente nell'umanità, la quale dunque - diremmo noi oggi -  ha in sé, tra le  tante sue debolezze, anche una scintilla divina. Proseguendo su questa strada ci è data  la possibilità di intravedere, sullo sfondo, non un muro invalicabile, ma una promettente prospettiva di riflessione su un dio che sia nel medesimo tempo trascendente e intimamente presente nel nostro essere; ma se è presente, lo è da sempre, da quando cioè il Cristo fu generato, poi variamente e gradualmente percepito, infine in modo precipuo nell’incarnazione, morte e resurrezione del Gesù di Nazareth, essendo arduo pensare ad un intervento esterno nel corso dell'evoluzione.

E qui si innesta il richiamo a Gal 3,28. Partendo dalla estrema audacia di Paolo, che in Cristo vedeva superata una divisione allora apparentemente insuperabile tra popolo eletto e goim noi dovremmo fare un passo avanti, facendoci interpellare come lui dai tempi e dai contesti nuovi. L’affermazione di Gal 3,28 infatti, pur rappresentando il massimo che l’apostolo con il suo straordinario intuito poteva fare allora, contiene un limite agli occhi degli uomini e delle donne di oggi: altri muri, altre divisioni religiose sono nate che non c’erano ai suoi tempi. Lui dice che in Cristo non c’è più alcuna divisione. Dunque, per beneficiare della salvezza che Cristo rappresenta per noi tutti dall’eternità (cfr. per tutti  II Tim 1, 9-10) bisogna battezzarsi, farsi cristiani, aderire ad una Chiesa, ecc? Sembra una contraddizione. Eppure, seguendo il pensare dell’apostolo Paolo, cioè portando avanti il suo pensiero, a noi sembra che se ne possa uscire: se Cristo non è solo un nome, una icona, un santino, ma quello che rappresenta, cioè l’Amore di Dio manifestato al mondo (I Gv 4,16 e passim), allora il versetto 28 del capitolo 3° della lettera ai Galati può essere inteso così: nell’Amore non solo non c’è più giudeo né greco, né schiavo né libero, né uomo né donna, ma non c’é più né cattolico né protestante, né anglicano né ortodosso, né cristiano né mussulmano, né indù né buddista, ecc… né credente né ateo, perché uno è il mondo e uno l’Amore che lo vivifica. Sembra un’affermazione audace, anzi estrema, eretica, viziata da quel relativismo che l’attuale istituzione cattolica, tutte le istituzioni religiose esclusiviste vedono come il fumo negli occhi (salvo poi darne esempi clamorosi). Ma non erano altrettanto audaci, estreme,  eretiche le parole dell’Apostolo Paolo in Gal 3, 28 ai suoi tempi?

Con le sue intuizioni Paolo si immette così nel vivace dibattito in corso tra evoluzionismo e creazionismo, esclusivismo e pluralismo, vangelo e legge, offrendo anche alla fede, che nella sua sostanza (l’Amore), e nella sua storia e tradizione resta intatta per i cristiani, la possibilità di essere ragionevole, con tutti dialogante e anche con la scienza senza complessi di superiorità o di inferiorità e nella distinzione tra i due piani. Certo, la sfida è quella, ardua, di capire il linguaggio delle scritture e di scoprire, se c'è, il senso di  molte figure metaforiche, di avere, per chi ci crede, un'immagine di Dio meno antropomorfica, un Dio che non fa il tappabuchi pur essendo all'origine della vita e della sua evoluzione e misteriosamente partecipandovi attraverso quell'umanità che il Cristo attraversò in modo così emblematico.

Chi sostenesse che questo è un modo arbitrario e soggettivo di leggere la Bibbia, dimentica la spregiudicatezza di Paolo in proposito. La lettera di un testo è valida proprio se continua a offrire suggestioni nuove. Un testo che non dice più nulla, come un organismo che non muta, coi tempi è destinato a morire. La Chiesa Istituzione dopo la fine dello Stato pontificio è stata bravissima ad adeguare la sua propensione ad invadere di nuovo il campo temporale, come la cronaca di tutti i giorni insegna. Ma non ha avuto altrettanto coraggio nell’aggiornare le esigenze evangeliche più profonde, forse ben consapevole, come si evince da molti interventi ascoltati nell’incontro di Napoli, che questa fedeltà all’evangelo troppo le  sarebbe costato in termini di potere. 

Ma allora, se il Dio Trascendente è sceso tra gli uomini e le donne e vi ha trovato la morte per poi risorgere in ciascuno di noi, perché meravigliarsi se il nostro pregare si manifesta precipuamente nell’eucaristia, che nel suo essere  dono esigente (prendete…fate questo…) è il cuore del nostro essere cristiani? E quale preghiera è più significativa ed espressiva della preghiera eucaristica, nel suo rifare sempre di nuovo la storia del nostro essere cristiani, e per di più svelando, in un certo modo, un ulteriore senso profondo dell’altra grande e amata preghiera che ci ha insegnato Gesù, il Padre nostro?

Solo alla luce dell’eucaristia, ci pare, hanno ancora un senso non solo la preghiera di ringraziamento, ma anche quella di intercessione e la richiesta di perdono. Altrimenti, a che titolo chiedergli "Signore, aiutaci a far questo o quest'altro, a capire la tua volontà, ad amarti nel prossimo; fa che il tale guarisca, o almeno che non soffra, che io deponga la mia ira e che abbia il coraggio di parlare al mio nemico; che senso ha l'invocazione:  "Ascoltaci, Signore"? Certo, se non abbiamo rinunciato all'idea escatologica di un Regno di Dio che ci viene incontro sul nostro cammino viene spontaneo augurarsi e auspicare che questo cammino si compia il più presto possibile (Marana tha) per vedere alfine trionfare la pace, figlia della giustizia. Sostanzialmente, tuttavia, le preghiere di intercessione e richiesta espresse nel corso dell'assemblea eucaristica sono un modo di "scoprire le carte" dei nostri problemi attuali, concreti e specifici,  di offrirli alla comunità per sollecitarne la memoria e l'impegno per la loro soluzione o attenuazione, perché da soli non ce la possiamo fare. In questo senso interpelliamo il Trascendente che non conosciamo attraverso il trascendente che conosciamo, cioè i nostri fratelli e le nostre sorelle, in osservanza dell'insegnamento evangelico (cfr. I Giov., 4,20) offrendo loro nel contempo la nostra collaborazione e con-passione. Tentiamo di esprimere, in modi diversi, la fiducia che il nostro desiderio d’Amore andrà a buon fine ancorché al di là dei nostri sforzi e delle nostre previsioni. In questo senso, anche, il grido lacerante di Gesù sulla croce "Signore, Signore, perché mi hai abbandonato?" come più anticamente il grido di Giobbe, sono offerti più a noi che a Dio, come invito a prenderci sulle spalle la nostra parte di responsabilità per lenire le piaghe di Giobbe e denunciare la violenza del potere, senza chiuderci in un egoismo autoreferenziale che esclude l'avvento di ciò che ancora ci sfugge e ci sovrasta, ma anzi aprendoci allo Spirito e offrendogli un corpo nel quale possa incarnarsi (Ebr., 10,5). In questo senso anche l'invito alla insistenza nella preghiera, che si legge ad es. in Lc., 11,5 sgg. e che sembra in contrasto con l'invito alla sobrietà di Mt., 6, 7.8 già citato, assume un senso ben preciso. A condizione che sia accompagnato dai fatti e non si risolva nella vuota ed ipocrita invocazione  di Mt 7,21 :“Signore, Signore!”  Ed eccoci così introdotti alla seconda parte della frase di Bonhoeffer: “fare ciò che è giusto tra gli uomini” che è stata così proficuamente discussa e illustrata a Napoli e che è talmente collegata alla prima da farne quasi un tutt’uno come avviene dei due grandi e fondamentali comandamenti di amare Dio e il Prossimo (Mt 22,37 e par.).