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UNA QUESTIONE DI VITA

di Cristina Arcidiacono

Parole

La morte è 'na livella, diceva Totò, accomuna ricchi e poveri, giovani e vecchi, uomini e donne. Le storie, la vita, ci dicono che non è così: la retorica della morte divide le morti eroiche in territori di guerra e le morti giustificate dal disonore di un padre che prova vergogna per una figlia sorridente.  Agli occhi del mondo la morte di una donna appare come “male minore”, d'altra parte essa per una donna si insinua nella vita in quell'evento di confine che è il parto. Morire di parto è l'ossimoro che le donne abitano: emblema, nelle Scritture ne è Rachele, che morirà dopo aver dato alla luce Beniamino ( Genesi 35,16-20), lei, che aveva lottato contro la sterilità per tutta la vita. E' però anche significativo che la prima grande morte ”naturale” riconosciuta nella Genesi,  sia quella di una donna, Sara. Sara ritorna nel grembo materno. Viene sepolta. L'unica, oltretutto, che possiederà la terra, un fazzoletto di terra come bara. Abramo acquista il campo per seppellirla..Curiosa ironia per colui che ha ricevuto la promessa della grande progenie e della terra e che si ritrova a dover comprare un fazzoletto di terra per dare sepoltura alla donna amata.

La morte di Sara al capitolo 23 del libro della Genesi viene narrata con la vita:

“La vita di Sara fu di centoventisette anni. Tanti furono gli anni della sua vita”. (Genesi 23,1)

Il testo massoretico, invero, parla di “cento anni, e venti anni e sette anni”: non basta un numero a narrare la complessità dell'esistere, le tappe che scandiscono la vita, soprattutto quella di Sara, a lungo sterile e poi “nata di nuovo” attraverso i dolori del parto. La vita di ognuno, di ognuna, passa attraverso cadute e risalite, sonni e risvegli, morte e vita. Accanto ad Abramo che è partito in nome di una promessa, c'è il coraggio tutto femminile di Sara, pronta ad affrontare nuovi inizi, non ultimo quello di una gravidanza così tarda e così desiderata. La scansione degli anni della vita di Sara ci  dice anche che in ogni vita si alternano morte e nuova nascita, buio e luce, in un cadere e rialzarsi che la sapienza femminile ha saputo trasformare ogni volta in nuova forza tratta dal dolore.

Proprio questo è il linguaggio biblico della resurrezione. L'Evangelo usa parole come “risvegliarsi”, “essere rialzato”, o “elevato”, e il linguaggio della vita. Gesù è il Vivente. Forse con la parola resurrezione noi rischiamo di dimenticare che essa, tanto quella di Gesù, quanto il ritorno in vita in alcuni suoi miracoli, ha a che vedere più con la nostra vita che con la nostra morte. Forse, scegliendo una parola così “tecnica” abbiamo lasciato che la resurrezione fosse confinata nello spazio, a volte angusto, delle chiese, dei funerali, e le abbiamo tolto il potere forte che vuole avere nella vita di ciascuno e ciascuna. Il  potere del desiderio di una vita piena, vissuta nella sua pienezza, il potere del dare la vita, e il potere della giustizia, del risollevare chi è caduta o è stata fatta cadere, del rimettere in piedi e ricominciare. 

 

Tre storie di vita in una

“Perché chi vorrà salvare la sua vita, la perderà; ma chi perderà la sua vita per amor mio e del vangelo, la salverà”. ( Marco 10,35)

 Voglio vivere sicura in casa mia blindata da ogni contaminazione con gli altri e le altre, con le vite degli altri, con sensibilità diverse, affinché la mia vita sia sicura? Allora sono morta. Sì, perché la mia morte non corrisponde “solo” alla fine della vita biologica. E' la mia vita biografica che subisce duri colpi ogni volta che la mia storia di donna non è ascoltata, o è trattata con paternalismo ( “dobbiamo proteggere le nostre donne” è lo slogan della sicurezza!): è la biografia di tante donne che viene violata quando la sopportazione, l'isolamento, l'indifferenza le rende “morte viventi”.

Le mie viscere si contorcono di fronte alla negazione dei diritti dei migranti e delle migranti, non ho paura di presentarmi come donna, nella mia povertà, di azioni, di mezzi, di potere, al Signore, cerco le relazioni con gli altri e le altre, anche se il mio tempo dovrebbe essere per altro, per difendermi dalla spacciata insicurezza della città, per una posizione sicura, per la mia “sicurezza”, e invece provo a mettere in circolo la vita ricevuta in dono, rischio di perderla, e allora sono viva. 

E' di questo che narra il Vangelo di Luca quando racconta di una donna “viva ma morta”, alle porte della città di Nain.

Luca 7,12-15

 Quando fu vicino alla porta della città, ecco che si portava alla sepoltura un morto, figlio unico di sua madre, che   era vedova; e molta gente della città era con lei.

 Il Signore, vedutala, ebbe pietà di lei e le disse: «Non piangere!»

 E, avvicinatosi, toccò la bara; i portatori si fermarono, ed egli disse: «Ragazzo, dico a te, alzati!»

 Il morto si alzò e si mise seduto, e cominciò a parlare. E Gesù lo restituì a sua madre.

 

Due cortei si sfiorano. Il primo è quello che segue Gesù, subito dopo la guarigione del servo di un centurione. Possiamo immaginarlo come un corteo ammirato, in cui magari ci si fa domande sull'identità di quest'uomo che compie miracoli e atti potenti.

L'altro è un corteo funebre, che accompagna la bara, la barella di un morto. Questi due gruppi di persone non hanno niente in comune tra loro, e potrebbero incrociarsi senza neanche toccarsi. Anzi è proprio così che devono andare le cose. Nulla in comune ci deve essere tra il corteo della vita e quello della morte e della sofferenza. 

Eppure Gesù vede la madre che piange il suo unico figlio e ne ha compassione, le viscere gli si stringono. E da questo moto scaturiscono tutte le azioni seguenti, che porteranno in vita non solo il ragazzo, ma anche la madre, morta vivente della scena. Di morte e di resurrezione dunque parla questo testo, attraverso un incontro che poteva essere mancato.

Gesù tocca la barella e il corteo si ferma. Infrange un tabù, superando la barriera dell'impurità che vieta di toccare un cadavere. Fa rialzare un morto, ma in realtà ne risuscita due. Se infatti il corteo funebre è lì per il morto, Gesù agisce perché ha visto sua madre. E' per colei che soffre che Gesù interviene..“ Le restituisce suo figlio”, le offre una nuova possibilità di vita, permettendole di essere semplicemente quello che è, e non una donna, sola in tutto e per tutto, in balia degli eventi. Il signore ha pietà di lei, non del ragazzo, vita spezzata, ma di lei. e ne ha pietà con le stesse viscere di misericordia del Dio che ode il pianto di Israele, della figlia di faraone che ode il pianto del piccolo Mosè... il pianto, tanto caro alle donne. Nel Talmud si legge che ”Dio conta le lacrime delle donne”. Le lacrime di gioia, certo, quelle che accompagnano il dolore per una nuova nascita, ma soprattutto le lacrime amare quelle che nessun recipiente può più contenere, perché sono straripanti. Straripanti delle storie di sofferenza e morte di donne di ogni famiglia, ogni paese, ogni città, ogni continente. Lacrime di morte erano le lacrime della donna, quelle per le quali Gesù si è fermato.

Rischiare parole e atti di resurrezione. A questo ci invita Gesù. Guardando, riconoscendo, ascoltando, toccando. Sconfinando. Non rimanendo nel nostro cantuccio ma osando rompere le barriere. Fuori e dentro le nostre case. Fuori della porta della città. Dove ci sono le escluse, i morti, i crocifissi.

E' all'incrocio dei due cortei che il Signore ci attende. Che cosa accade quando incrociamo il corteo della sofferenza, della povertà, dell'avvenire compromesso? Riusciamo a vedere, a essere mossi nelle viscere? Riusciamo a rompere le righe, ad attraversare i confini, a rischiare parole di consolazione, di resurrezione?

Ma a volte sono io come donna  a essere sopraffatta, a seguire il corteo funebre. A volte sono mie le lacrime. E' qui che Gesù si mostra non solo come colui che ha sofferto ed è morto su questa terra, ma anche come colui che è risorto e riporta in vita, fa rialzare dal buio della disperazione e restituisce la dignità.