Forum sociale europeo Firenze 6-10 novembre 2002 Seminario - venerdì 8 novembre 2002 testi delle relazioni tenute da Enzo Mazzi, Daniela Di Carlo, Giulio Girardi

 

 

Forum sociale europeo Firenze 6-10 novembre 2002

Seminario - venerdì 8 novembre 2002

La nonviolenza come rivoluzione?: alle radici della violenza e della guerra nelle sistemazioni religiose e culturali, in particolare in quelle che connotano l’identità europea.

 

1) Relazione

Esistono radici della violenza nelle religioni monoteiste

e più in particolare nel cristianesimo?

A cura di Enzo Mazzi (Comunità dell’Isolotto)

 

Premessa:

Il fondamentalismo intollerante e violento è una degenerazione o è invece costitutivo delle istituzioni religiose?

Il presidente Ciampi ha di recente sostenuto (a Bratislava il 9 luglio scorso – così ci dicono i giornali) l’idea di inserire nella nuova Costituzione europea un esplicito riferimento alla comune matrice religiosa cristiana. Posizione ribadita da Giuliano Amato (vicepresidente della Convenzione europea incaricata di scrivere il testo comune), il quale, col plauso di Gianfranco Fini, ha detto che “la Carta dovrà contenere anche i valori identitari della società e tra questi la religione, potente fattore di difesa dei principi di tolleranza tipici della società europea. … Le religioni hanno una forza straordinaria, non vedo ostacoli a inserirle nella Costituzione europea”.

Tralasciamo il problema specifico della Costituzione europea, che merita altre competenze e altri spazi. Invitiamo invece a porsi la domanda, che hanno evitato di porsi Ciampi, Amato e Fini, se è vero, o meglio se è totalmente vero, che le religioni, e più in particolare la religione cristiana nelle sue diverse connotazioni confessionali, sono un “potente fattore di difesa dei principi di tolleranza”. Se lo sono state in passato e se lo sono adesso. Se il fondamentalismo intollerante e violento è una degenerazione o se è invece costitutivo delle istituzioni religiose, dei loro impianti ideologici e simbolici, e in questo caso se è costitutivo di tutte o solo di alcune religioni.

C’è chi sostiene che le religioni sono radicalmente intolleranti e fonte di intolleranza. Il fondamentalismo non sarebbe una degenerazione ma un connotato costitutivo di tutte le religioni.

Condividiamo una tale analisi? Ci rassegniamo a consegnare alle strumentalizzazioni del potere, che esistono e sono forti, una immensa risorsa di valori e di esperienze positive e creative quali sono le religioni?

Il problema esiste e resiste.

 

Dio-Assoluto o Dio-relazione e quindi re-lativo?

La nostra tesi, o meglio la nostra esperienza, è che le religioni sono un potente fattore di tolleranza, ma soltanto per una specie di codice genetico impresso nel profondo dalle esperienze che le hanno generate. Non lo sono invece per gli assetti ideologici e istituzionali che le religioni hanno assunto nella loro storia di connubio col potere. Le religioni sono un potente fattore di tolleranza nella misura in cui i “credenti” hanno il coraggio e la forza di ritrovare e rivitalizzare e portare a pienezza epoca per epoca quel codice genetico. Non lo sono nella misura in cui i “credenti” si assoggettano, si rassegnano, si adattano agli assetti ideologici e istituzionali della codificazione violenta. Non sono fattore di tolleranza se i “credenti”, che magari si impegnano per condannare e contrastare l’intolleranza, la violenza e la guerra nella società laica, economica e politica, non esprimono uguale impegno nel ricercare e contrastare le radici di intolleranza, di violenza e dei guerra che si annidano negli ordinamenti ideologici, dogmatici e simbolici della loro stessa fede.

Prendiamo spunto dal film di Pam Nalin Samsara. In prima istanza è il protagonista, un giovane lama, che critica l’assolutismo radicalmente violento e intollerante della rinuncia come unica via al nirvana. La sua non è una critica di sole parole. Esce dal monastero, si innamora, si sposa e ha un figlio. Poi però dopo varie esperienze sente di nuovo l’attrazione del monastero e come Budda abbandona moglie e figlio per tornare alla vita della rinuncia radicale. Infine è la moglie di lui che accusa il buddismo di essere una esperienza di maschi per maschi. Intollerante verso la donna. Incapace di capire e valorizzare il contributo femminile alla illuminazione. Che illuminazione è quella del Budda, il maschio che abbandona la moglie e il figlio? E’ una illuminazione a metà, è una illuminazione escludente e intollerante. “Buon viaggio” dice la moglie al marito che l’ha abbandonata e che dopo un drammatico colloquio sarebbe anche disposto a tornare a lei e al figlio. E così lo lascia ai suoi tormenti di maschio, eterno bambino, “credente” ma di una esperienza spirituale e in qualche modo religiosa che promette miracolose illuminazioni ma rende incapaci di relazioni piene. L’illuminazione è relazione sconfinata.

In termini diversi, la critica contenuta in Samsara si può applicare sostanzialmente anche alle altre religioni. Più a fondo conosciamo la religione cristiana e cattolica e su questa ci diffonderemo. Come l’illuminazione buddista, anche la salvezza cristiana dovrebbe tendere a trovare il suo fondamento primo nelle relazioni attualizzando epoca per epoca l’esperienza da cui sono scaturiti i Vangeli. Il Vangelo è essenzialmente primato assoluto delle relazioni: ama Dio e ama il prossimo. Il resto, tutto il resto viene dopo. E dovrebbero venire dopo, nel cristianesimo, la verità, il sacramento, la rivelazione, il potere di sciogliere e di legare, il dogma , la legge. E dovrebbe venire dopo anche l’ovile, cioè la Chiesa come appartenenza. Prima è la relazione in quanto relazione aperta, costantemente alla ricerca di un “oltre”, protesa al superamento di tutti i confini e di tutte le appartenenze. Si direbbe che prima è l’amore critico e creativo. Dio stesso, il Dio del Vangelo, è relazione. Dio non è l’Essere perfettissimo, l’Assoluto, l’Onnipotente, l’Unico. Questa concezione di Dio come onnipotenza, unicità, assolutezza è la proiezione umana del senso del dominio e del potere. Ci torneremo dopo. Il Dio dei Vangeli non è onnipotenza ma paternità, è Padre. Sorvoliamo sul fatto che anche Dio-Padre può essere visto come proiezione del potere patriarcale. Anche in Dio-Padre c’è una radice di violenza. Qui c’interessa però il primato della relazione introdotto nel concepire Dio dai partecipi alla esperienza da cui nascono i Vangeli. Dio è padre è figlio è spirito. Non è monoteista. Il monoteismo non viene dai Vangeli ma dal connubio successivo dei poteri ecclesiastici col potere imperiale. E’ il potere imperiale romano che per essere onnipotente deve essere unico ed ha bisogno di specchiarsi in una divinità monoteista. E nel momento in cui il cristianesimo accetta di piegarsi a coprire e sostenere l’unicità e l’onnipotenza del dominio romano sul mondo allora conosciuto, in quel momento modifica il suo Dna, diviene monoteista e viene costituzionalmente inserito nel sistema di guerra. Dio unico e onnipotente, non è più che di nome il Dio del Vangelo, in realtà è il dio della guerra.

 

La violenza insita nel monoteismo

Per affrontare questo aspetto è d’obbligo riferirsi a uno studio fondamentale di

Erik Peterson: Il monoteismo come problema politico, Queriniana, Brescia, 1983. Il libro esce in Germania nel 1935 da un dotto teologo tedesco che prima era stato protestante e poi si era convertito al cattolicesimo in polemica con l’accondiscendenza ai poteri politici delle dirigenze ecclesiastiche protestanti. Peterson è un oppositore del nazismo e scrive il libro proprio in funzione antiregime. Egli mostra e dimostra che il cristianesimo all’origine non è monoteista. Il dio del Vangelo è essenzialmente relazione e in qualche modo pluralismo: è un Dio trinitario, è un Dio amore in quanto relazione fra persone diverse. E’ da Costantino che il cristianesimo diventa fede monoteista, cioè adorazione di un Dio unico, Padre onnipotente, creatore e signore del cielo e della terra, in funzione di giustificazione e sostegno all’assetto imperiale universale del potere romano. E all’inizio lo fa per contrastare l’accusa che veniva fatta ai cristiani di essere nemici dell’impero e negatori della divinità dell’imperatore. Sono i Padri della Chiesa che dicono in sostanza: guardate che i veri difensori della sacralità dell’impero siamo proprio noi. La nostra religione è superiore alle altre proprio perché noi crediamo in un solo Dio in cielo dal quale deriva la verticalità del potere anche sulla terra. E’ il politeismo la causa delle guerre fra popoli e delle ribellioni. Perché ognuno ha il proprio Dio e tutti questi dèi sono in lotta perenne fra loro. Solo la fede in un dio unico può portare a un unico dominio, quello dell’imperatore romano, e alla pace stabile se non eterna fra le nazioni e i popoli.

Tale problema esisteva ancor prima di Costantino. Sembra che gli imperatori romani precedenti avessero già tentato di incoraggiare e diffondere il culto a un dio generico, universale, un dio supremo e celeste in cui tutti gli altri culti e religioni e anche i cristiani stessi potessero riconoscere qualche tratto del proprio dio: e questo dio universale era stato individuato nel “dio sole”. Sembra che Costantino nella battaglia del ponte Milvio contro Massenzio non avesse sui labari l’insegna di Cristo ma proprio quella del dio sole. Solo in un secondo momento, diventato unico imperatore, avrebbe assunto la religione cristiana come strumento di sacralizzazione della sua autorità unica e cemento dell’unità dell’impero.

E lo fa col consenso del potere ecclesiastico ormai saldamente in mano ai vescovi. I quali si appoggiano nel governo della Chiesa a intellettuali influenti e convincenti che vengono chiamati “Padri della Chiesa” in quanto davvero hanno generato la ideologia cristiana detta tradizione ecclesiastica, cioè il dogma, la morale, l’etica dell’ordinamento liturgico e canonico, la visione complessiva della realtà. Orbene, i Padri della Chiesa da Costantino in poi, seguono tutti la stessa linea ideologica: uno l’impero, uno il potere, uno Dio, uno il Salvatore universale Cristo Gesù.

- A cominciare da Eusebio, il primo storico ecclesiastico vissuto in Palestina dal 265 al 340 circa e divenuto vescovo di Cesarea di Palestina nel 313. Grande amico di Costantino, suo biografo e da lui ricoperto di onori e ricchezze.

Esiste un profondo legame in Eusebio– scrive Peterson – fra la fine degli stati nazionali e la fine del politeismo, fra la monarchia di Augusto e la venuta di Cristo, fra la pax romana e la pace portata dal “principe della pace”.

“Chi potrebbe non meravigliarsi – sono parole di Eusebio – se pensa tra sé e riflette che non può essere opera di uomini, che soltanto a partire dai tempi di Gesù e non prima, la maggior parte delle nazioni dell’ecumene siano giunte sotto l’unico dominio dei romani e che contemporaneamente all’inaspettata venuta di Cristo fra gli uomini, lo stato romano abbia cominciato a fiorire? Augusto diventò unico sovrano sulla maggior parte delle nazioni … che ciò non coincidesse casualmente con l’insegnamento del nostro salvatore, chi non lo vorrebbe ammettere, se si pensa che per i suoi discepoli non sarebbe stato facile muoversi in tutte le direzioni se le nazioni fossero state isolate fra loro … avendo ciascun popolo la sua sovranità? Dio che è sopra di tutti aveva davvero preparato loro la via e, attraverso il timore nei confronti dell’impero, aveva fatto cessare le esplosioni di ribellione da parte dei superstiziosi del politeismo … ma quando apparve il Signore e Salvatore e contemporaneamente al suo avvento, Augusto, primo tra i romani, diventò sovrano fra le nazioni, si dileguò il frazionamento pluralista della sovranità nelle singole nazioni e la pace avvolse tutta la terra … sotto il nuovo nome di Cristo, innumerevoli popoli e nazioni hanno abbandonato i loro dèi tradizionali e il loro vecchio superstizioso errore politeistico richiamati a colui il quale è Dio unico … per questo viene ora donata ad essi la pace più profonda poiché non esiste più una sovranità pluralistica e una regalità locale, al contrario ognuno si riposa dal suo lavoro agricolo all’ombra di una vite o di un fico poiché niente più lo spaventa”

Per cui, secondo Eusebio - commenta Peterson –, il monoteismo è iniziato in linea di principio con la monarchia di Augusto e con la fine delle nazionalità. E’ Augusto che inaugura il monoteismo. Ciò che però ha avuto inizio con Augusto diventa realtà piena con Costantino. All’unico re sulla terra corrisponde l’unico re in cielo e l’unica religione sovrana quella di Cristo.

Le idee di Eusebio hanno avuto un’enorme influenza storica. Le ritroviamo ovunque nella letteratura dei padri della Chiesa.

Prudenzio poeta cristiano spagnolo, latino, del terzo secolo scrive:

“Vuoi che ti dica, romano, qual è la causa del così grande successo dei tuoi sforzi, il sostegno che ha permesso alla tua gloria di accrescersi al punto da imporre al mondo il freno del tuo dominio? I popoli avevano lingue differenti, i regni civiltà discordanti, Dio volle riunirli sottomettendo a un solo impero tutto ciò che era civilizzato … affinché l’amore della religione tenesse uniti i cuori degli uomini; infatti non c’è unione degna di Cristo se uno spirito unico non associa intimamente le nazioni – infatti che posto potrebbe esserci per Dio in un mondo violento e nel cuore degli uomini in disaccordo e che difendono in diversi modi i loro diritti, come fu una volta?”.

S. Ambrogio, vescovo di Milano, del VI sec.: “Tutti gli uomini hanno imparato, vivendo sotto un unico impero universale, a proclamare col linguaggio della fede l’impero dell’Onnipotente”.

S. Girolamo, filosofo e biblista latino, del VI sec,: “Dopo che si giunse alla sovranità di Cristo, Roma ottenne di essere governata da un unico potere, e la terra divenne accessibile al cammino degli apostoli, e furono loro aperte le porte delle città ed il comando di uno solo fu consolidato dalla predicazione di un solo Dio”.

E via di questo passo…..

Peterson conclude criticando il monoteismo come degenerazione pericolosa anche per il suo tempo, il tempo della dittatura nazista. Rovesciando il ragionamento di Eusebio, secondo cui come si è visto sarebbe soltanto dal monoteismo in cielo e dal governo di uno solo sulla terra che verrebbe la vera pace, Peterson sostiene invece che proprio nel monoteismo si annida la radice della dittatura, della violenza e della guerra. Insomma la pax romana esaltata dai padri della Chiesa non è vera pace, anzi è guerra infida, ancor più pericolosa e distruttiva della guerra dichiarata. E’ sistema di guerra che si ammanta di pace e così riesce ad abbassare le difese etiche e psicologiche e a farsi accettare come bene supremo. E’ una guerra vinta nelle coscienze prima ancora di essere combattuta.

Egli rivendica piuttosto il ruolo teologico e politico del dogma cristiano della Trinità di Dio in opposizione al dogma del Dio unico o monoteismo.

Va riconosciuto a Peterson il valore della sua analisi storica sulle origini del monoteismo e apprezzato il suo sforzo nell’individuare nel monoteismo stesso radici della cultura del dominio violento. Ma risulta debole quando trova la soluzione nella Trinità intesa in senso dogmatico, personalizzato e totalmente trascendente.

Questo modo di intendere la Trinità è riduttivo. Un Dio relazione trinitaria, ma relazione chiusa in se stessa in quanto astratta dal mondo, relazione autosufficiente, relazione che crea e governa dall’alto tutte le relazioni umane, in che si differenzia dal Dio unico?

Forse occorre andare oltre il dogma e oltre la trascendenza separata dal mondo e dalla vita.

 

Già il Dio della Bibbia, Javhè, non nasce monoteista, lo diventa come proiezione del potere monarchico. Il re David aveva preceduto Costantino.

Studiosi, storici e teologi, ci dicono che il problema della esclusività del culto di Dio per il popolo d’Israele, sancito dal primo comandamento (Non avere altro Dio fuori di me, o tradotto in modo più appropriato: Non avere altro Dio al mio cospetto – Esodo, cap.5, 7), non ha nulla a che fare col monoteismo, il quale sarebbe invece un approdo molto posteriore alla codificazione del decalogo.

Sembra che il decalogo biblico, le famose tavole della legge, si radichi in antiche esperienze di vita nomade e che prima della immigrazione in Palestina non esistesse un "popolo d'Israele” schiavo in Egitto, ma solo tribù e gruppi tribali senza legame fra loro. Erano le tribù del nomadismo povero senza diritti, diverse dai beduini i quali erano proprietari di cammelli e potevano avanzare diritti su un certo territorio. Vivevano pacificamente nella steppa ai margini meridionali della terra palestinese coltivata, dove l’estate dopo il raccolto trovavano pascolo per il proprio bestiame minuto. E’ forse da questa esperienza di sradicamento che nasce in tali tribù il culto verso una divinità anch’essa sradicata, non legata ad alcuna località, ma accessibile solo attraverso un patto di reciproca elezione fra tribù e Dio, patto simboleggiato dalla tenda. E sarà questa religione della tenda che le tribù del nomadismo povero si porteranno con sé quando in determinate circostanze storiche riusciranno a insediarsi nella terra coltivata non più solo per una stagione ma per tempi via via più lunghi. Il primo comandamento è una disposizione legata al culto non dogmatica né ideologica: quando prestate culto a me spogliatevi degli altri dèi. Essa trae significato da uno sfondo che lo storico delle religioni definisce politeistico, infatti è proprio perché gli ebrei convivevano pacificamente con più divinità che nel momento del culto collettivo a Jahvè sentono il dovere e il bisogno di dedicarsi a lui solo (Gerhard Von Rad, Teologia dell’Antico Testamento, Paideia, Brescia, 1975, vol I pag. 244).

Ma la storia d’Israele non finisce con la immigrazione dal nomadismo alla terra coltivata della Palestina. Il processo successivo è la conquista della terra e poi la nascita dello stato monarchico.

Con la unificazione politica operata dalla monarchia, anche Jahvè viene centralizzato e diventa il dio unico.

E Jahvè cammina e precisa la propria identità col precisarsi della identità del suo popolo. E’ così che con la conquista, con la unificazione di tutte le tribù, con la nascita dello stato, col consolidasi della monarchia, con l’affermarsi del dominio di Israele sugli altri popoli della Palestina, anche Jahvè acquista potere e s’impone. E quando David trasporta a Gerusalemme l’arca e quando Salomone costruisce il tempio, il Dio nato errante e sradicato diviene oggetto di un culto di stato in un luogo istituzionale.

E’ a cominciare da questo periodo storico di unificazione e di relativa potenza che inizia il processo di riflessione su Dio che condurrà all’esclusivismo di Jahvè non più solo nei momenti del culto ma come principio ideologico. E’ qui insomma che nasce il monoteismo. Si sviluppa nei circoli di corte, in un clima culturale che oggi definiremmo di secolarizzazione, quando gli ambiti della vita e quelli del culto si differenziano e si separano.

Il monoteismo è un prodotto della mente che si emancipa dalla natura. La nascita di Dio come entità assoluta ed escludente, la cui identità è definita dagli intellettuali di corte ed è imposta a tutti come elemento politicamente unificante, coincide con la morte di Dio del deserto, anima del mondo, fermento della vita, della morte, delle relazioni, amore che unifica e libera dal di dentro, forza da cui emanano direttamente e di volta in volta i carismi capaci di condurre il popolo anche nelle azioni belliche. Ora anche la guerra non è più un evento di popolo, legato alla lotta per la sopravvivenza, ma un affare di stato e un sistema di potere. Il legame fra il trono di Jahvè e il trono di David diviene indissolubile.

E così nel Dna del Dio della Bibbia si è inserito il gene del sistema di guerra.

Contro quel gene si sono opposti molti profeti, alla radice di quel gene ha posto la scure l’esperienza di Gesù di Nazareth.

 

Dal Dio-relazione-amore dei Vangeli a Dio “cifra assoluta della aggressività umana”.

Nel cristianesimo avviene lo stesso processo di trasformazione di Dio che si è verificato nella tradizione ebraica. Possiamo dire con Peterson, citato, che il Dio dei Vangeli è relazione trinitaria. Precisando però, cosa che non fa il ricercatore tedesco antinazista, che tale relazione trinitaria è anima della rete infinita delle relazioni umane e cosmiche, e non dominio trascendente-separato. Senza questa precisazione sostanziale, anche la relazione trinitaria diventa imperiale e fonte d’imperialismo. Quindi Dio é relazione a sua volta compresa, realizzata creativamente da tutte le relazioni umane e cosmiche. Non basta dire Dio Trinità. Forse bisogna dire Dio-relazione incompiuta, Dio-relativo, imperfetto e bisognoso, Dio-speranza, Dio-futuro.

Ci sono pagine di Ernesto Balducci che esprimono con rigore e radicalità una tale trapasso storico compiuto nel cristianesimo.

In un Convegno delle comunità di base, a Firenze, nel salone dei 500, nel 1987, egli affermò:

"Io sono convinto che non ci può essere cultura della pace se non con la eliminazione del sacro: la fine del sacro è la fine della cultura di guerra...quando è avvenuto l'inserimento delle comunità cristiane negli spazi del potere, c'è stata la sacralizzazione della Chiesa ... il Cristianesimo si è inserito nei quadri della cultura sacrale ed ha assolto la funzione di religione della società; e la religione di una società ha il compito di portare i sigilli alla violenza della società. …Il cristianesimo è lacerato al suo interno in maniera irrimediabile da questa doppia polarità. Da una parte il cristianesimo pretende di essere la religione della società, chiede spazi, concordati, riconoscimenti. Allora esso è inevitabilmente funzionale alla logica della violenza, senza rimedio. Ma il cristianesimo in quanto fede profetico-messianica è un annuncio e una esperienza di liberazione dell’uomo da ogni forma di alienazione, da ogni forma di sudditanza alla forza, e quindi è di per sé una profezia e una esperienza di pace. Le comunità di base sono comunità di pace nel senso forte e ricco della parola. Esse mirano ad esorcizzare la violenza che attraverso la stessa pedagogia della fede abbiamo introiettato, la violenza che si annida anche nei nostri riti, per inventare una forma di mediazione del messaggio evangelico del tutto libera dalle categorie sacrali. ". (Enzo Mazzi, Ernesto Balducci e il dissenso creativo, Manifestolibri, Roma, 2002 – sezione a cura di Sergio Gomiti).

Poi Balducci spiega che il “sacro” è una realtà complessa. Non va identificato, egli dice, con uno spazio determinato. Il sacro non va reificato. Il sacro è la percezione del relativo, il bisogno di trascendere il relativo in cui siamo immersi. Il sacro quindi è la funzione critica della società. Esso richiede una gestione profetica, una consapevolezza che parta dal basso, dal terreno della vita. Un sacro così inteso e vissuto è il sogno del figlio di un minatore dell’Amiata, che approdato a Firenze e condotto in un primo tempo a intrecciare rapporti con i salotti della élite intellettuale e con le stanze del potere, aveva poi sperimentato il suo “esodo” (Diario dell’esodo è il titolo di uno dei suoi libri più significativi) come ritorno alle radici della sua origine popolare. Ciò che va eliminato - spiega ancora Balducci - è il sacro reificato, sequestrato dal potere, separato dalla vita, collocato in spazi e luoghi e gesti e riti determinati, gestito da persone sacralizzate. E’ il sacro che dalla rivoluzione del neolitico in poi ha assolto la funzione di integrare la forza dentro le regole della ragione. Non di eliminare la forza ma di sacralizzarne e regolarne l’uso come cultura: cultura di guerra, momento dirimente dei conflitti sia interni che esterni alla città. Va eliminata la sacralità come funzione del potere, del dominio e della espropriazione dell’uomo. E’ proprio questa eliminazione del sacro reificato l’esperienza che fecero le comunità del primo annuncio del Vangelo.

Sono affermazioni forti. E soprattutto sono centrali nella elaborazione dello scolopio, figlio di un minatore dell’Amiata, rimasto fedele alla cultura popolare delle proprie origini. Purtroppo sono per lo più ignorate dai biografi di lui o annegate nel mare di temi meno compromettenti per la sua futura santificazione.

In una conferenza del 1988 e in una successiva conferenza sulla Rivoluzione della nonviolenza fu ancora più esplicito:

"Le religioni, nate come sono in questa cultura di guerra, sono sempre religioni di guerra, nonostante che esse magari esortino alla pace, invochino la pace. Esse legittimano il costume di guerra, le categorie mentali della guerra....Per vivere, esse devono morire".

 “Il rapporto decisivo, sia per valore simbolico sia per una sua fondamentalità metafisica, è quello uomo-Dio, che è servito da schermo e da sigillo ideologico della cultura della violenza. Si tratta dell’asse antropologico in cui le mie esperienze conflittuali sono più frequenti, quotidiane e quindi mi perdonerete se vi insisto.

Le cose che devo dire sono certamente le più scandalose perché non appena tocchiamo i centri nevralgici della nostra violenta sistemazione culturale la reazione si fa più forte. Abbiamo esaltato all'infinito, sacralizzandoli, i nostri istinti di aggressività nell'idea di Dio. Dio è la cifra assoluta della aggressività umana. L'uomo ha scritto che Dio ha fatto l'uomo a sua immagine e somiglianza. La verità è l'opposto: l'uomo ha fatto Dio a propria immagine e somiglianza. Il Dio a cui siamo stati assuefatti è un Dio aggressivo, discriminante, implacabile, giusto nel modo con cui noi pensiamo che si debba essere giusti, capace di mantenere in totale estraneità da sé i cattivi per tutti i secoli dei secoli. All'interno di un Dio così pensato abbiamo collocato il Vangelo di Gesù Cristo”. Teologicamente è avvenuto questo (i testi di teologia studiati per secoli dai preti sono lì a dimostrarlo): prima si è dimostrato, in forza di ragione, come se la ragione fosse un metro allo stato puro, conservato in edenica purezza, che Dio c'è e che cosa è Dio. Poi abbiamo detto che questo Dio ideologicamente definito si è incarnato in Gesù Cristo il quale ha fondato una Chiesa la quale ha tutti i poteri. ... Il cerchio si chiude! L’aggressività passata attraverso Dio, sacralizzata ai vertici, scende su di noi. La teocrazia fu la sistemazione teorica massima di questa aggressività con la teologia sacrificale, secondo la quale Dio non perdona l'uomo finché l'uomo non ha fatto una espiazione pari al peccato, cioè infinita; non essendo questa espiazione possibile all'uomo, che è finito, era necessario che ci fosse un uomo-Dio per cui l'espiazione fosse dell'uomo - e perciò del soggetto peccatore - ma anche di Dio - e perciò infinita. Ed ecco Gesù Cristo uomo-Dio! Questo è il cerchio della teologia aggressiva.

Noi riscopriamo che il Dio di Gesù Cristo non è questo Dio. Noi che siamo i promotori di una rivoluzione nonviolenta, all'interno della Chiesa, dobbiamo compiere questa rivoluzione e scoprire il Dio di Gesù Cristo. Il Dio di Gesù Cristo non è scoperto dalla ragione umana che è sotto sospetto, ma è manifestato dall'uomo Gesù di Nazareth. …. Dio si manifesta nel mondo come servo sofferente, non come padrone dominante. … Soltanto i miti conoscono Dio … Dio si conosce con la mitezza interiore, cioè col superamento della violenza, l'abbandono di ogni atteggiamento di violenza, anche conoscitiva. … Dobbiamo allora liberarci dalla cultura della violenza perfino nella nostra vita di fede. Non è cosa da poco” (Testimonianze 328/1990, pagg 26-27).

 

Lavori in corso

Balducci, da buon intellettuale, usava l’indicazione “dobbiamo”: “dobbiamo liberarsi dalla cultura della violenza perfino nella nostra vita di fede”. Noi da gente della strada abbiamo un’altra indicazione: “lavori in corso”. Stiamo parlando della esperienza delle comunità di base e di altre simili. E’ davanti a noi il discorso di liberazione di Gesù a Nazareth e i segni profetici delle guarigioni inviati dallo stesso Gesù a Giovanni Battista. Lavoriamo per liberarsi e liberare per sanarsi e sanare. E non lavoriamo solo nelle regioni della consapevolezza. Lavoriamo anche oltre le frontiere delle consapevolezze e perfino oltre i limiti del sogno, ai confini dei grandi silenzi, silenzi nostri e soprattutto della gente umile, della gente da sempre repressa, da sempre inginocchiata a chiedere la salvezza dall’onnipotenza, incapace perfino di sognare, ai confini del silenzio di donne e uomini dove l’inconscio si apre all’ignoto. Ai confini di quel silenzio che in noi, come in un utero pregno, cova nascite di mondi nuovi. Ai confini di quei silenzi che dotti e maestri e sacri pastori ignorano per cieca fiducia nella loro rumorosa, onnipotente razionalità necrofila, “verità vera”, razionalità senza mistero. Lavoriamo per far emergere e sanare traumi spirituali e morali che la mente e tutto il corpo hanno patito perfino a loro insaputa e che si manifestano poi come blocco della speranza, spavento senza parola, vuoto dell’anima (tutto questo è in straordinaria consonanza con le nuove frontiere della psicanalisi  - cfr. Patrizia Cupelloni La ferita dello sguardo, Angeli 2002, in Corriere della sera 22 maggio 2002 p. 37). Lavoriamo per passare dalla perdita inconsapevole e dall’angoscia talvolta senza nome alla ricerca di senso e di speranza: questo vuol dire per noi comunità, primato delle relazioni senza confini, cristianesimo dei segni dei tempi, religione dell’amore critico e creativo. Anche da qui, da questa rivoluzione delle e nelle religioni passa l’anima sociale e solidale del processo di globalizzazione.

Le nostre esperienze e riflessioni hanno individuato nel Dio-Assoluto-Onnipotente una delle radici principali della violenza e del sistema di guerra.

Intrecciate con questa e forse sue derivazioni altre radici s’insinuano in ogni piega degli assetti religiosi sia del cristianesimo sia delle altre religioni istituite.

Solo a titolo di esempio, presentiamo alcuni aspetti:

 

- Lo stretto legame fra sofferenza, morte e peccato-ribellione.

Dio-Bontà e Perfezione assoluta non ha creato il dolore del mondo e nemmeno la morte, li ha solo previsti nella sua onniscienza. Ha creato esseri liberi. E’ dalla libertà che nasce la ribellione al progetto di Dio, cioè il peccato, il male assoluto. E’ dal peccato-ribellione-male assoluto che vengono la sofferenza e la morte. Il peccato-ribellione-male assoluto è il nemico radicale della felicità. Per questo non ci sono limiti alla lotta contro il peccato. La violenza e la guerra sono in radice necessarie. Anzi sono connaturate alla funzione delle religioni come fulcro della lotta divina e umana contro il peccato. Contingenze storiche possono consigliare più misericordia e meno violenza e possono addirittura escludere la violenza e condannare in certi casi la guerra. Mai però si può escludere la lotta contro il peccato attraverso il sacrificio.

Mi sembra molto significativa una pagina del cardinale Carlo Maria Martini, un testimone del travaglio in cui si dibatte la parte più illuminata e aperta della ortodossia teologica cattolica col timbro dell’ufficialità. “L’ira di Dio” è il titolo di una conferenza del 1993 che poi ha dato il titolo a una raccolta dei suoi scritti (Longanesi, 1995).

Prima di tutto egli riconosce che in passato Dio era davvero la proiezione dell’aggressività umana. Oggi c’è una ricerca nuova. Il fulcro di tale ricerca sta nella distinzione fra “ira esterna” di Dio e “ira intrinseca”. Dio non interviene dall’esterno per punire. Non ne ha bisogno. E’ dall’interno della relazione con lui, dall’interno dell’Alleanza, che viene automaticamente il castigo quando l’Alleanza viene infranta. “In altre parole – scrive testualmente Martini – è l’umanità che si prepara con le sue mani un castigo. Se l’alleanza significa felicità, la perdita dell’alleanza equivale a infelicità”.

Ma il cardinale va oltre. Non gli basta questo automatismo intrinseco dell’ira di Dio. Capisce bene che ha tolto a Dio la spada fiammeggiante ma lo ha armato di una violenza ancor più distruttiva perché infida: è la violenza introdotta nella coscienza intima dell’uomo, introiettata dall’uomo. Il padrone il quale riesce a convincere lo schiavo che sarà felice solo se ubbidisce e sarà invece infelice se disobbedisce, quel padrone non ha più bisogno della frusta esteriore, La frusta l’ha impressa nell’interiorità dello schiavo.

Questo è un passaggio necessario, ma non è l’approdo del cardinale. “Tuttavia, una nozione di giustizia immanente … - scrive testualmente - non coglie tutto il mistero dell’ira di Dio. Dovremmo allora tornare a una nozione del Dio vendicativo che scaglia personalmente i fulmini contro i peccatori? Credo che ci sia una terza via, quella dell’ira salvifica di Dio, espressa nel Vangelo a proposito di Gesù”. Devi insistere nella citazione riportando i brani più toccanti, perché è impossibile riassumere un pensiero così complesso. “Il calice dell’ira di Dio … è bevuto da Gesù … Gesù, a nome dell’umanità, assume l’ira di Dio, meritata dai nostri peccati, nel suo corpo, l’ira immanente che è l’ingiustizia del mondo … E’ il mistero della croce … E’ Dio stesso che, nel Figlio, si lascia schiacciare dalle conseguenze del peccato realizzando il massimo dell’ira e il massimo della misericordia. E’ un mistero che nasce dalla Trinità … Non potremo mai capire appieno questo mistero, però lo abbiamo tra le mani nell’eucaristia; è il mistero per cui la divinità stessa si carica dell’ingiustizia del mondo per riscattarla attraverso autodonazione … Siamo di fronte a un grande quadro nel quale specchiarsi come persone chiamate a essere in qualche modo profeti del Nuovo Testamento; non ad accusare la società, a lamentarci di essa quasi fosse lontana da noi, bensì a coinvolgerci nelle sue difficoltà e nei suoi drammi, nelle sue sofferenze e nei suoi problemi. E’ la nostra sofferenza che salva la società, l’umanità; è il pianto di Gesù che è già salvifico”.

Ciascuno può confrontarsi con un tale pensiero e dare la propria valutazione. Devo però contestare al cardinale Martini la seguente affermazione:

il mistero per cui la divinità stessa si carica dell’ingiustizia del mondo per riscattarla attraverso l’autodonazione … è, potremmo dire, la punta più profonda della vera teologia della liberazione”. Innanzitutto quando dice “vera teologia della liberazione” sottintende che c’è una “falsa teologia della liberazione”. Quale? Forse la teologia della liberazione innervata dalla prassi di liberazione delle comunità di base ed espressa da teologi-testimoni come Ignazio Ellacuria (massacrato in El Salvador nel 1989)?

In effetti la teologia della liberazione compie un percorso idealmente rivoluzionario. Rovescia la prospettiva, anche quella di Martini, che incentra su Dio-Assoluto-Onnipotente tutto il potere.

E’ l’essere umano nel quale l’umanità è più nuda, “l’ultimo” come si dice, il centro della storia e della vita. In questa prospettiva non è la sofferenza, non è il sacrificio che salva la società, ma l’impegno storico e la lotta pacifica (pacifica perché l’ultimo non ha armi, ha solo la propria nuda umanità).

 

- Lo stretto legame fra peccato e sacrificio, stabilito da Dio-Assoluta Giustizia.

Per vincere la morte eterna Dio ha bisogno di vite infrante su questa terra, ha bisogno di sangue versato. L’innocente stesso non può non essere sacrificato. Perché mai, se lui è un essere così docile e buono? La risposta della teologia dominante non solo nel cristianesimo ma, in forme diverse, in tutte e tre le cosiddette religioni del libro è questa: Abele, prototipo dell’innocente, non può non essere sacrificato perché in realtà anche lui non è innocente.

Anche il martire, prima di essere assunto da Dio come testimone, è al fondo come tutti peccatore e in quanto tale destinato alla morte eterna e al supplizio senza fine. Di fronte al peccato di origine con cui Adamo ed Eva hanno inquinato tutta l’umanità per tutti secoli dei secoli non c’è bontà che tenga. La giustizia infinita di Dio non può transigere di fronte all’offesa infinita appunto perché è una giustizia infinita e perfetta. Per salvare il genere umano peccatore e quindi per salvare anche il martire ha bisogno di sangue versato. Caino e tutti i massacratori della storia sono al fondo strumenti della giustizia divina, perversi quanto si vuole, liberamente perversi, ma sempre strumenti, previsti e messi nel conto dalla onniscienza di Dio.

La cosa poi nel cristianesimo si complica ulteriormente perché tutto il sangue dei martiri e tutte le sofferenze e tutte le morti non sarebbero affatto sufficienti. Il peccato di origine ha prodotto un’offesa “infinita”, perché è ribellione a un Dio infinito, e quindi ci vuole una riparazione anch’essa di valore infinito. Ecco il martirio di Dio fatto uomo, Gesù. Solo lui, assumendo un corpo umano ma restando Dio, con la morte di croce apre la salvezza al mondo intero. La croce è la sofferenza e la morte di un uomo ma ha un valore infinito perché quell’uomo è Dio. E così Dio dimostra il suo grande infinito amore. La giustizia infinita è placata ma è soddisfatto anche l’amore infinito. Così stanno insieme giustizia infinita e amore infinito.

Ma allora, se Cristo da solo è sufficiente, perché i martiri? Non se ne poteva fare a meno? Non bastava il sangue e la morte dell’uomo-Dio? No, perché i credenti in lui, i salvati, i buoni, sono la continuazione nel tempo del suo corpo e quindi non possono non passare attraverso la partecipazione alla sofferenza e alla morte di lui. Per risuscitare con lui alla vita e alla felicità eterna non possono non essere crocifissi in  qualche modo con lui e con lui sepolti nella morte terrena. La felicità eterna ha bisogno di sofferenza terrena; la risurrezione ha bisogno di morte. Ogni sofferenza e ogni morte è in qualche modo un martirio attraverso cui si può accedere, se Dio lo vuole, alla vita eterna.

 

La trasformazione della eucaristia in sacrificio perenne.

L’eucaristia, come viene concepita e vissuta, è la codificazione del legame inscindibile fra peccato e sacrificio e il sanzionamento della perennità della violenza nel mondo.

Nel Vangelo non sembra che sia così. Tradotto in termini espliciti, e quindi riduttivi, il messaggio che emana dalla simbologia evangelica dell’ultima cena potrebbe essere questo: la via della salvezza non passa attraverso il sacrificio rituale, che è solo consolatorio, anzi è un imbroglio mascherato di sacro (il Tempio ridotto a spelonca di ladri). La via della salvezza sta nella condivisione degli elementi offerti dalla natura e dal lavoro dell’uomo, essenziali alla vita, simboleggiati dal pane e dal vino. E il sacrificio? E’ scomparso? No, non è affatto scomparso. E’ anzi inserito, con un significato però rovesciato, come elemento essenziale nella profondità del significato della condivisione. La condivisione eucaristica del pane e del vino non è una qualsiasi spartizione contrattuale: io do una cosa a te e tu dai una cosa a me. La eucaristia è una condivisione esistenziale che non è mai appagata dai livelli di giustizia raggiunti storicamente dalle spartizioni contrattuali. Cerca e vuole livelli sempre più alti di giustizia e quindi tende di continuo a un “oltre” che sfugge a ogni possesso. Perché il corpo e il sangue, la vita umana, non si possono esaurire mai in un contratto o in un programma politico. Il corpo e il sangue sono l’anima della trasformazione continua della storia. Sono il motore intimo della lotta inesausta per la giustizia.

E’ sottile e profondo questo significato della eucaristia nel Vangelo.

Condividere il pane e il vino è salvifico, produce salvezza, perché è condividere corpo e sangue, è condividere la vita.

E condividere la vita, ecco un ulteriore passaggio, è accettare che la vita sia limitata e mortale. E quindi in qualche modo è anche vincere la morte. E’ un vincere pieno di drammaticità ma anche di positività: è gestire e superare l’angoscia della morte. Tant’è vero che il Gesù dei Vangeli affronta la conflittualità, con cui i dominatori del Tempio tentano di contenere e reprimere il carattere destabilizzante di quella condivisione, affronta lo scontro mettendo in gioco il proprio corpo e il proprio sangue. E così poi faranno i primi cristiani che affronteranno col martirio la conflittualità con la cultura e il potere dell’Impero, che vuole dominio sulla spartizione e non condivisione.

L’eucaristia è l’anima della ricerca inesausta e anche della lotta pacifica per la giustizia. Non si può condividere pane e vino, i simboli della eucaristia, senza condividere corpo e sangue.

E venne la transustanziazione a devitalizzare l’eucaristia.

Quando è avvenuto l'inserimento delle comunità cristiane negli spazi del potere c'è stata la sacralizzazione della Chiesa. E' cominciata l'avventura della fede dentro le categorie del sacro. Il cristianesimo-potere ha rovesciato il senso di questa simbologia insita nell’ultima cena. E’ stata sancita la transustanziazione. Il pane eucaristico non è più condivisione perché non è più pane ma è il corpo di Cristo. Il pane è annullato per rendere perenne la necessità del sacrificio. Il pane e il corpo sono stati di nuovo contrapposti. La vita, la natura e il sacro sono stati di nuovo separati. E all’ansia di giustizia e alla lotta pacifica per la giustizia è stata tolta una parte dell’anima. E l’eucaristia è stata devitalizzata. E al posto della giustizia e del diritto si è insediata la “carità cristiana”.

 

Le radici della violenza e del sistema di guerra nelle religioni è un tema che non può essere escluso dai nuovi traguardi per una globalizzazione sociale.

Il problema intriga da vicino anche l’attuale movimento “New global”.. La fase che si sta aprendo con Seattle, con gli incontri di Genova 2002, col Forum sociale europeo di Firenze richiede una particolare attenzione al rapporto col fenomeno religioso. La globalizzazione non è solo economica e politica. La dimensione religiosa e culturale della globalizzazione è altrettanto importante. Anche i centri del dominio globale di oggi hanno bisogno, come Costantino, di specchiarsi in un dio unico e onnipotente. Il monoteismo è moderno. Anzi è post-moderno perché s’intreccia con la religione del mercato e del danaro: un solo dio in terra, cioè il danaro, valore assoluto, un solo dio in cielo, cioè l’Assoluto.

“Dopo l’11 settembre occorre prendere le distanze dal fondamentalismo economico, politico e religioso” ha detto Naomi Klein nella videointervista all’affollato incontro padovano del Sherwod Festival 2002. Ma si doveva aspettare il crollo delle torri gemelle per rendersene conto? Ancora una volta a rimorchio?

Un mondo diverso ha bisogno di religioni diverse. Religioni diverse non solo nella forma o nelle parole, ma nella sostanza. Diverse perché capaci di diversa fedeltà al loro codice genetico generativo.

Per essere onesti però dobbiamo riconoscere che non sono affatto chiari né l’obbiettivo né il percorso. Che significa l’impegno di Balducci, “aiutare le religioni a morire”? Che significa il motto buddista “essere pace e non soltanto operare per la pace”? D’altra parte, di fronte a queste domande sta un altro interrogativo che è un po’ anche una risposta: chi l’ha detto che per incamminarsi verso un mondo diverso bisogna avere chiari obbiettivi e percorsi? Sono forse chiari gli obbiettivi e i percorsi di una economia solidale? Insomma se si aspetta di aver chiari obbiettivi e percorsi si resta fermi, come il millepiedi che pretendeva aver chiaro il meccanismo e la successione del movimento di tutte le sue zampine. Immaginare e tendere a costruire un mondo diverso significa scommettere e rischiare. Anche a livello degli orizzonti simbolici-religiosi.

C’è qui un ulteriore passaggio fondamentale. Aiutare le religioni a morire, con tutta la incertezza e il rischio che comporta, e con tutta la saggezza che richiede, non può essere ancora una volta un impegno religioso e per soli religiosi. Ha ragione il sociologo Franco Ferrarotti nel sostenere che la fame di sacro e il bisogno di religione vanno sottratti all'abbraccio mortifero della religione-di-chiesa, burocratica e gerarchicamente autoritaria, ma aggiunge che ciò va fatto con una lotta su più fronti, "dentro ma anche fuori della chiesa".

Insomma i laici non possono più continuare a chiamarsi fuori dai problemi religiosi, ecclesiali e perfino teologici.

Le frontiere della laicità non si possono più disegnare in base al muffito metro del credere/non credere. C'è bisogno di consapevolezze nuove e di percorsi inediti.

Ci si scalda quando gli interventi ecclesiastici ci toccano negli interessi diretti e immediati: contraccettivi, aborto, omosessualità, ingerenza politica, scuola cattolica, violenza psicologica sui bambini a base di colpevolizzazioni. Ci si esalta e giustamente quando i prelati o i preti condannano la guerra o denunciano la ingiustizia o vivono da eroi fra i poveri. Il resto è considerato questione interna alla religione. Questo giocar di rimessa con le religioni è una caratteristica congenita del laicismo. Cent'anni fa, quando era "certo" che la religione, considerata residuo dell'età infantile dell'umanità, sarebbe stata superata dal progresso, poteva apparire razionale lasciar sopravvivere la teocrazia come gioco da riserva indiana. Oggi tale atteggiamento è chiaramente distruttivo. Perché il liberismo sta cavalcando la ripresa delle religioni a livello mondiale con una capacità di penet«razione i cui effetti si vedranno a lunga scadenza. Il sistema di dominio globale se ne fa un baffo delle condanne ecclesiastiche. Le mette nel conto come pedaggio. A lui serve che l’abbraccio materno delle religioni, contribuendo a rassicurare e consolare, stabilizzi il potere.

Scrive Rita Levi Montalcini:

Come affermato da A. Koestler (1969): «una delle caratteristiche principali della condizione umana è questa suprema esigenza e bisogno di identificarsi con un gruppo sociale e/o con un sistema di credenze che è indifferente alla ragione, indifferente all’interesse dell’individuo e anche all’istinto di conservazione … Siamo così portati alla conclusione, che contrasta con quella dominante, che il problema della nostra specie non deriva da un eccesso di aggressività per autodifesa ma da un eccesso di devozione trascendentale» …I sistemi etico-sociali ai quali l’individuo è stato esposto sin dall’infanzia …dettano la condotta del giovane e dell’adulto … I messaggi recepiti negli anni nei quali il cervello è immaturo, dall’infanzia all’adolescenza, periodo nel quale esso gode della massima plasticità neuronale, assume un valore fondamentale nel comportamento dell’individuo adulto” (La Repubblica, 7 maggio 2002)

 Le stesse cose che dice la scienziata del cervello le aveva dette lo studioso della psiche, Eric Fromm, nel suo studio sulla Anatomia della distruttività umana (1973). Insomma ci portiamo dentro a nostra insaputa, e si porta dentro la intera società, la violenza insita nei grandi sistemi etico-sociali e quindi nelle religioni.

E’ su questo “eccesso di devozione trascendentale” che il sistema di dominio mondiale fonda la propria stabilità, oltre che sugli strumenti di condizionamento economico e sul sistema di guerra.

Ed è su questa radice profonda della violenza che bisogna lavorare.

 

E’ veramente possibile liberare le religioni dal gene della violenza e della guerra?

La ripresa delle religioni è moderna perché moderna è l'esigenza da cui scaturisce.

La specie umana sta scoprendo la propria mortalità, come più volte è avvenuto nella storia in altri contesti, ma oggi in maniera altamente drammatica, e si scontra con le sfide che ne derivano: la sfida del senso, dell'identità, della solidarietà. Tutti siamo dentro tali sfide. Ignorarle pensando che siano questioni da risolvere con scelte individuali è un regalo che si fa allo stesso sistema di dominio globale. Ignorarle significa lasciare campo libero al bisogno forte di esorcizzare la finitezza della specie stringendosi nell'abbraccio materno degli assoluti e dei leaders religiosi o laici che sembrano incarnarli. Il quale abbraccio però tanto è amorevole e allettante quanto ambiguo e capace di generare mostri di distruttività e violenza anche quando a parole li esorcizza. E comunque è un abbraccio che fa parte della morsa con cui il globalismo liberista sta stringendo il mondo.

Si pone qui la domanda cruciale: è realmente possibile liberare le religioni dalla violenza iscritta, come dice Balducci, nel loro codice genetico?

Sono possibili un cristianesimo, un islamismo, un ebraismo non-religiosi e non-monoteisti, è possibile un buddismo non distrattivo e non consolatorio?

E’ realmente praticabile la convergenza auspicata da Ferrarotti fra il “dentro” e il “fuori” o meglio un superamento di tale confine ormai anacronistico?

Val la pena di tentare?

 

 

2) Relazione

Le radici della violenza e della guerra nella cultura patriarcale

A cura di Daniela Di Carlo Centro ecumenico Agape

 

Per due millenni i cristianesimi sono stati movimenti di dominazione maschile e sottomissione delle donne.

Movimenti che hanno cospirato con il capitalismo per costruire un sistema globale economico, politico, spirituale totalmente centrato sul desiderio di dominio maschile.

Come accade attualmente nel mondo delle multinazionali, che controllano e incanalano l’esistenza della gente offrendo non tanto un prodotto, per soddisfare dei bisogni, quanto uno stile di vita attraverso la filosofia che il marchio che rappresentano propone, i cristianesimi attraverso la “vendita” del marchio Cristo, hanno controllato e ancora impongono “uno stile di vita” nel quale, offrono in particolare alle donne, ma non solo, sottomissione, sacrificio, silenzio.

 

“Noi donne siamo invisibili come chiesa- suggerisce la teologa cattolica Elisabeth S. Fiorenza- non per caso o a motivo di una nostra disfatta, bensì per quelle leggi patriarcali che, a causa del nostro sesso, ci escludono dal ruolo ecclesiastico…Sono le strutture patriarcali della chiesa che hanno causato il silenzio e l’invisibilità delle donne; e vengono mantenute tali da una teologia androcentrica, cioè definita da uomini…” . (1)

 

“L’immagine biblica e popolare di un Dio simile a un grande patriarca celeste –dice Mary Daly- che ricompensa o punisce secondo la propria misteriosa e apparentemente arbitraria volontà ha dominato la fantasia di milioni di persone per migliaia di anni. Il simbolo del Dio Padre, proliferato nell’immaginazione umana e reso credibile dal patriarcato, a sua volta ha reso un servizio a questo tipo di società facendo sembrare giusti i suoi meccanismi per l’oppressione della donna. Se Dio nel suo (di lui) cielo è un padre che governa il suo (di lui) popolo, allora è nella natura delle cose e conforme al progetto divino che la società sia governata dai maschi” (2)…”se Dio è maschio, allora il maschio é Dio. Il patriarca divino continua a castrare le donne finché gli si consente di sopravvivere nell’immaginazione umana”. (3)

Così M.Daly nel 1973 denunciava le chiese, il loro operato, la loro perenne adesione a quel patriarcato che denominava le strutture sociali sessiste. Quel patriarcato che è tuttora una forma di organizzazione sociale, economica, politica in cui il potere è nelle mani di pochi uomini legittimati da quel Dio Padre che diventa il garante di un ordine socio-simbolico caratterizzato da rapporti di disuguaglianza egemonica, di paternalismo, di imperialismo e di colonialismo.

 

I cristianesimi parlano di chiese, ancora adesso, che spesso vivono una condizione di alienazione dal tempo in cui viviamo.

Chiese che non prendono posizione di fronte alla discriminazione di genere (in molte religioni le donne non hanno la possibilità di accostarsi attraverso la predicazione ai testi sacri), alle contraddizioni del neoliberismo, allo stato di guerra permanente in cui molti popoli vivono.

Chiese che vivono, come la chiama Hanna Arendt, nella “lacuna del presente”, protese, cioè, verso un passato significativo, quello dell’incarnazione di Dio attraverso Gesù Cristo, passato che non riescono spesso risignificare di nuovo oggi; o verso una dimensione escatologica futura del Regno che verrà, così lontana e imprendibile da essere inutile.

Quella lacuna del presente che per Hanna Arendt potrebbe essere capace di affermare un proprio cammino “in grado di correggere radicalmente la logica rovinosa dello scontro tra passato e futuro” offrendo all’umanità quel presente che è la radice del nostro essere e quindi quella possibilità di saper parlare al proprio tempo. (4)

Dio è stato spesso addomesticato e condizionato dalle diverse confessioni cristiane affinché potesse supportare quelle strutture di oppressione create dall’avidità umana (dallo stermino degli ebrei all’apathaid, dalla proibizione dell’aborto anche in caso di stupro di massa –ricordiamoci della dichiarazione della chiesa cattolica di fronte alle donne bosniache- all’uso di banconote in cui possiamo leggere “in god we trust” necessarie per alimentare i commerci di armi e quindi i conflitti nel mondo).

 

Nel loro tentativo di autoaffermazione, le chiese in quanto istituzioni, hanno dato luogo a fenomeni eticamente inaccettabili in rapporto ai loro stessi fondamenti originari.

”Questo si è verificato con le Crociate e con la repressione violenta delle sette ereticali tramite l’inquisizione, con l’antisemitismo teologico nel Medioevo, in età moderna con le guerre di religione e le conversioni forzate dell’epoca del colonialismo, e nell’età delle rivoluzioni liberali nazionali europee con il sostegno sistematico alla reazione politica, attuata all’insegna del binomio del Trono e dell’Altare. In tutti questi casi il valore universale della charitas, predicato dal Vangelo, si è pervertito –sostiene Carlo Tullio Altan- nella messa in  pratica dell’intolleranza”. (5)

 

Le donne hanno un rapporto difficile con la storia in genere, perché la storia e in particolare quella della teologia e delle chiese le ha relegate nella sfera dell’irrilevante.

Basta pensare alle storie di estrema crudeltà, che troviamo anche nella letteratura veterotestamentaria, di donne offerte in sacrificio pur di vincere una battaglia, è questo il caso del guerriero Jefte e di sua figlia, o delle figlie di Lot offerte per essere stuprate affinché potessero essere salvati gli ospiti della casa.

Il Dio dell’ AT giustiziere, re, padre e padrone è stato visto con sospetto non solo dall’ermeneutica femminista , persino Marcione, che visse verso la seconda metà del II secolo pensava che il Dio dell’AT non fosse altro che un “demiurgo, cioè un dio minore, responsabile di una creazione malvagia, fondata sul principio della retribuzione e privo di bontà ed amore” (6) bontà e amore che solo raramente toccava  l’esistenza delle donne.

Anche il rapporto con il cristianesimo  non è facile per le donne perché sin dai primi anni della sua vita, dopo aver abbandonato la spontaneità del movimento di Gesù per costituirsi come chiesa, proprio il cristianesimo ha violato la differenza femminile accostando ai testi biblici neo testamentari, che hanno una apertura verso le donne, una tradizione non meno autorevole di quella biblica.

 

Non sono rari gli esempi che troviamo nella letteratura gnostica o in quella patristica in cui l’unico modo per le donne per essere in presenza di Dio è legato alla metafora del “diventare maschio”. (7)

Diventare maschio come soluzione di passaggio da uno stato inferiore a uno superiore.

Nell’evangelo gnostico di Tommaso leggiamo:

“Simon Pietro disse loro: “Che Maria si allontani da noi, perché le donne non sono degne della vita”. Gesù disse: “Io stesso la guiderò per fare di lei un maschio, affinchè anche lei possa diventare uno spirito vivente simile a voi maschi. Perché ogni donna che si fa maschio entrerà nel regno dei cieli” (logion 114).

 

Clemente di Alessandria a proposito della moglie cristiana gnostica che si libera dalla schiavitù della carne e raggiunge la perfezione allo stesso modo del marito, scrive: “Le anime non sono né maschi né femmine, quando non prendono più moglie né sono date in matrimonio. Non è forse diventata uomo la donna che è femmina più di quanto lo sia lui. Ed è una donna perfetta, virile”.

 

Origene sostiene che “Uomini e donne sono distinti secondo le differenze del cuore. Quante donne appartengono al sesso femminile, mentre di fronte a Dio sono uomini forti, e quanti uomini invece devono essere considerati donne deboli e indolenti”. L’obiettivo della salvezza viene descritto come l’abbandono dello stato femminile, come un cessare di essere donna mediante un cambiamento di sesso.

 

 “…Didimo traccia una chiara linea di demarcazione tra il mondo dei sensi da un lato e quello spirituale dall’altro. Nel primo è stato Dio a decretare se una persona debba essere uomo oppure donna, e la natura da lui assegnata non è modificabile; invece nel mondo spirituale si può sceglie di diventare uomo. Una donna può, progredendo spiritualmente, diventare uomo e quindi anche diventare un maestro con l’autorità di guidare e ammaestrare altri, ossia può conseguire una legittima autorità. Soltanto essendo un uomo spirituale in costante progresso l’anima può raggiungere la più alta perfezione”.

 

Afferma Gerolamo “Finchè una donna è soggetta al parto e alla cura della prole, differisce dall’uomo come il corpo differisce dall’anima. Se però sceglie di servire Cristo più che il mondo,  allora cesserà di essere una donna e sarà detta uomo, giacchè noi tutti aspiriamo a diventare un uomo perfetto”. Quindi, solo se una donna diventa ascetica cessa di essere donna e può essere chiamata vir.

 

Palladio scrive: Non dire donna bensì essere umano, perché essa è un uomo nonostante l’apparenza esterna del corpo”…oppure Gerolamo descrive, in una lettera a Lucino, Teodora, la moglie di quest’ultimo così: “essa è diventata tua sorella, da donna si è trasformata in uomo, da tua suddita a tua pari.

 

Ma non solo la letteratura patristica ha influenzato la costruzione dell’identità della donna cristiana anche la filosofia ha offerto il suo lugubre contributo.

Non possiamo dimenticare, ad esempio, che Aristotele “spiega la debolezza della costituzione femminile con l’umidità e la freddezza, provocate dalle perdite della sostanza sanguigna che le donne subiscono regolarmente: mentre gli uomini perdono occasionalmente il sangue per scelta, ad esempio in guerra, le donne invece subiscono le perdite ematiche, senza poterle controllare…-e sostiene anche che- la generazione di figlie femmine è dovuta a un’imperfezione, a una parziale impotenza del seme maschile: quest’ultimo, quando è al suo meglio, dovrebbe generare infatti solo figli maschi. Quando invece c’è debolezza maschile e la materia non è dominata, prevale l’animalità, si apre cioè la strada ai mostri, di cui il primo grado è la femmina…”. (8)

 

Rimane quindi un problema di fondo, cioè che: “nel sistema patriarcale androcentrico e misogino la donna – come dice Wanda Tommasi - non disponga di un luogo proprio, cioè non possa amarsi né ritornare a se stessa senza passare attraverso l’amore e lo sguardo dell’altro, del maschio. Secondo la rappresentazione patriarcale di come le donne dovrebbero essere, vi è l’impossibilità, per la donna, di specchiarsi nello sguardo delle proprie simili per ritornare a se stessa senza essere deportata in un ordine simbolico estraneo a sé”. (9)

 

Se penso alle mie madri cioè alle donne valdesi che dal 1215 furono considerate eretiche e quindi perseguitate non posso di nuovo che attestare l’atopicità delle donne. Nonostante fosse loro riconosciuta una capacità magistrale teologica e biblica all’interno del primo movimento valdese, Bernardo, abate di Fontcaude scrive nei verbali dell’inquisizione: “Oltre agli errori già detti, alle donne che accolgono nel loro consorzio consentono di insegnare, nonostante ciò sia contrario alla dottrina apostolica” (10).

Furono quindi condannate perchè osarono accostarsi ai testi biblici, patrimonio indiscusso maschile, fonte di autorità suprema e per gli inquisitori misura da usare per condannare e mettere a morte coloro che non camminavano, secondo loro, con fedeltà evangelica nella vita.

E’ in questo modo che furono uccise molte donne mentre altre si salvarono dopo essere state costrette al pubblico pentimento e a rilasciare dichiarazioni, suggerite ovviamente dai chierici,  nelle quali si autodenunciavano definendosi come quelle che “Dopo la predicazione ogni giorno più lautamente mangiavamo, ci sceglievano ogni notte nuovi amanti, trascorrevamo il tempo senza essere sottoposte ad alcuno, senza preoccupazioni, senza impegni di lavoro, senza pericoli...” (11)

 

In quegli stessi anni, 1298,  la chiesa cattolica prese una decisione drastica anche rispetto alle donne che vivevano nei conventi. Mentre in passato proprio i conventi potevano essere visti come piccole oasi, quindi luoghi di frontiera, in cui era possibile ricevere una formazione culturale e teologica con il decreto “Periculoso” Bonifacio VIII, impone la clausura.

“Noi ordiniamo con questa costituzione, la cui validità è perpetua e che non potrà mai essere messa in discussione, che tutte le monache e ciascuna di essa, presenti e future, a qualsiasi ordine possano appartenere, dovranno ormai restare nel loro monastero sotto una clausura perpetua”.

 

Questi solo alcuni degli esempi dei frutti di quel patriarcato che ha generato e continua a generare violenza e guerra.

 

Mary Daly sostiene su “Via Dogana” che “ poichè (Dio) l’uomo- il Dio dei maschi- non ha alcun potere di creare, di dare la vita, esprime la sua impotenza cosmica distruggendo le donne e la natura. Guerre, stupri, assassini, atti di tortura sono legittimati da questo simbolo: le nuove tecnologie riproduttive che umiliano, mutilano e torturano le donne vengono legittimate da Dio. La sofferenza atroce e la morte di animali, la manipolazione genetica di piante inflitta dai bioingegneri hanno dimostrato che vogliono diventare un tutt’uno don Dio. Questo significa che scelgono di identificarsi sempre di più con il loro ruolo di distruttori di vita” …”Il nostro mondo viene distrutto dai seguaci di ‘Dio’. Dobbiamo trovare il Coraggio di Peccare – di parlare ed agire contro il patriarcato e le sue legittimazioni teologiche. E dobbiamo aver fiducia che le donne seguano il nostro esempio e acquisiscano il Coraggio di vedere, attraverso tutti gli inganni che imperversano. Dobbiamo osare fare questo, perché la sopravvivenza della nostra vita su questo pianeta dipende da noi”. (12)

 

CHE FARE ALLORA?

Penso semplicemente che Dio vada immaginato di nuovo, radicalmente da capo, vada liberato/a dalla costruzione in cui i maschi “cristiani” lo hanno costretto/a.

 

Quando parlo di immaginazione non intendo parlare di fantasia, voglio invece parlare di quell’immaginazione che non è legata alle idee astratte, al sogno. Parlo invece di quell’immaginazione legata alla vita concreta e materiale. La vita di tutti i giorni che ci vede legati/e alle relazioni che abbiamo con le/gli altri, ai nostri e agli altrui bisogni.

 

Dio, così come io lo immagino, mi trascende e sapete che trascendere significa attraversare, fare ponti, costruire nessi, dunque un Dio che attraversa la mia esperienza e che è intento/a con me a costruire ponti tra me e lui/lei, tra me e le altre e gli altri.

In questo gesto che ci vede intenti a costruire nessi e ponti mi sembra che Dio acquisti di nuovo movimento cercando di parlare al mio, al nostro tempo.

 

Leggendo la teologa argentina Marcella Althaus-Reid ho imparato una nuova parola “cuceb”.(13)

“Cuceb” è una parola che il popola maya dell’America Latina usava per descrivere quella che noi oggi chiamiamo rivoluzione. Letteralmente significa scoiattolo ed è il simbolo dei cambiamenti sociali e di rapidi cambiamenti di direzione, difficili da prevedere.

“Cuceb” descrive bene il Dio in cui credo: un Dio difficile da prevedere, impossibile da possedere ma capace nel contempo di tracciare una strada inaudita.

“Cuceb” è quel Dio capace di sorprenderci proprio perché è così mobile da proibire a chiunque di tradurne l’universale Parola proprio perché le Parole del “cuceb” sono tante. Nessuna di esse è definitiva perché viaggiano e si modificano con il tempo per arrivare a noi mutate e arricchite dalle nostre storie.

“Cuceb” è quel Dio che può aiutarci a resistere alle mille strutture di peccato di questa società, divisa in pochi ricchi e sempre più poveri, società che genera e alimenta la paura, e che uccide l’amore visto come espressione di solidarietà e generosità.

 

Nello svolgimento di questo esercizio di immaginazione mi sono imbattuta anche nel lavoro degli hacker.

Gli hacker sono donne e uomini che programmano con passione e che ritengono che la condivisione delle informazioni sia un bene positivo. Credono inoltre che sia un dovere etico non solo condividere le loro competenze ma anche e soprattutto facilitare l’accesso alle informazioni e alle risorse di calcolo ogni qualvolta sia possibile. (14)

Un/una hacker ha a che fare con l’abilità e con la dedizione per ciò che  fa e proprio loro mi hanno suggerito un modo diverso di vedere il mondo.

Hanno infatti creato:

1. una nuova etica del lavoro che sfida quella mentalità che ci ha resi schiavi di quell’etica del lavoro  individualista legata solo alla produttività. In un lontano passato il lavoro era legato alle condizioni del tempo e della natura (luce, notte, stagioni…). Nel corso della storia i monasteri cattolici, iniziando a scandire la propria attività con l’orologio per segnare il tempo dell’horas officiis (laudes, prima, sexta, nona, vespera, completorium, matutinae), offrono un modello lavorativo diverso, ripreso in seguito dalla tradizione protestante, e tuttora utilizzato per ordinare il tempo lavorativo e spesso anche quello libero. Anche quest’ultimo infatti viene legato ad una qualche forma di produttività. 

Gli hacker, invece, vedono il lavoro come intrattenimento svincolato dalla produttività. Ciò che li muove è la passione per quello che fanno. Il percorso diventa quindi più importante dell’obiettivo perché questo viene raggiunto in forma collettiva dopo che le scoperte individuali vengono mandate in rete e modificate per tornare di nuovo alla fonte dalla quale erano partite.

2. Una nuova etica del denaro, quell’etica cioè di condivisione delle informazioni che non rappresenta il modo dominante di fare soldi nella nostra epoca.

E’ questo, anche, il principio etico secondo il quale l’attività degli hacker non deve essere motivata dal denaro ma soprattutto dal desiderio di creare qualcosa che la comunità di pari possa liberamente e gratuitamente scambiarsi. Ed è proprio questa pratica che origina ciò che viene ritenuto patrimonio collettivo e valore comune.

3. Una nuova etica del network o netica. Quella capacità, cioè,  di dare un grande valore al legame e quindi importanza alla rete e al piacere per la relazione con e per le altre e gli altri.

 

Ecco che allora vedere Dio come un “cuceb” e noi come hackers può aiutarci ad avere una nuova visione del mondo. Una visione che coglie Dio nel movimento e noi nella lotta e nella resistenza, con Lei/Lui, a tutti quei meccanismi neoliberisti che creano un mondo in cui la ricchezza di pochi produce la povertà di moltissimi/e attraverso un’iniquità che a molti/e appare come norma.

In questo esercizio teologico “cuceb-hacker” forse sarà possibile iniziare ad amare di nuovo, ad avere di nuovo occhi per vedere, con disincanto, ma anche con speranza, già ora, un nuovo mondo possibile perchè:

“L’atto di amare, di manifestare amicizia, di far regnare la giustizia è il nostro modo di incarnare Dio nel mondo....Con noi, grazie a noi, attraverso di noi Dio vive, Dio diviene, Dio cambia, Dio parla, Dio agisce...”. (Carter Hayward) (15)

Abbandonando ogni categoria teologica sedentaria, monologistica e fallocentrica si può allora coltivare quell’arte della slealtà  (16) verso quest’epoca incivile, che però già vede delle sacche di resistenza testimoniate da noi che siamo qui a Firenze e da tutte/i quelle/i che quotidianamente creano mondo nuovo, attraverso parole e gesti in cui sia possibile fare della politica, non un esercizio di guerra e di potere, ma come dice Simone Weil (17), una politica che cominci ad essere:

“L’ARTE DELLO STARE INSIEME E LA CURA DEL BENE COMUNE”

 

 

NOTE

1.  Marga Buhrig, Donne invisibili e Dio patriarcale. Introduzione alla teologia femminista, Torino, Claudiana, 1989, pag. 11.

2. Mary Daly, Al di là di Dio Padre.Verso una filosofia della liberazione delle donne, Roma, Ed. Riuniti 1990, pag. 21 .

3. Ibid., pag. 27.

4. Laura Boella, Le parole chiave della politica, Mantova, Edizioni Scuola di Cultura Contemporanea, 1993, vedi pagg. 5-22.

5. Carlo Tullio-Argan, Le grandi religioni a confronto. L’età della globalizzazione, Milano, Feltrinelli, 2002, pag. 134.

6. Thomas Romer, I lati oscuri di Dio. Crudeltà e violenza nell’Antico Testamento, Torino, Claudiana, 2002, pag. 8.

7. All’interno del volume a cura di Kari Elizabeth Borresen, A immagine di Dio. Modelli di genere nella tradizione giudaico-cristiana, Roma, Carocci, 2001, vi è un bellissimo saggio di Kari Vogt proprio sulla metafora del diventare maschio dal quale ho ripreso le citazioni presenti nel testo.

8. Wanda Tommasi, I filosofi e le donne, Mantova, Tre Lune Edizioni, 2001, pag. 59.

9. Ibid., pag. 63.

10. Pagine molto interessanti sull’argomento sono state scritte da Augusto Armand Hugon, La donna nella storia valdese, Torre Pellice, Società di Studi Valdesi, 1980.

11. Grado Giovanni Merlo, “Le ‘misere donnicciuole’ che predicavano” nella rivista Beidana, n. 3, maggio 1986, pag. 18.

12. Via Dogana. Rivista di pratica politica, n. 48, febbraio 2000, pag. 9.

13. Marcella Althaus-Reid ha utilizzato la parola “cuceb” all’interno di un articolo apparso sulla rivista teologica Concilium, 1996, dal titolo “L’indecenza del nostro insegnamento. Note per un insegnamento cuceb di teologia femmnista”, pagg. 199-210.

14. Molto bello è il libro di Pekka Himanen, L’etica hacker e lo spirito dell’età dell’informazione, Milano, Feltrinelli, 2001 che indirettamente mi ha suggerito la figura della/del credente come hacker.

15. Luce Irigaray (a cura di), Il respiro delle donne, Milano, il Saggiatore, 1997, pag. 121 .

16. L’”arte della slealtà” è una espressione che devo alla lettura di Rosi Braidotti, Soggetto nomade. Femminismo e crisi della modernità, Roma, Donzelli, 1995 usata dall’autrice per proporre la pratica di resistenza del nomadismo di “un soggetto –cioé-  in transito e tuttavia sufficientemente ancorato ad una collocazione storicamente determinata da accetarne le responsabilità e , grazie a questo, in grado di risponderne” pag. 14. Uno sguardo critico, quella della nomade, che “è assimilabile a ciò che Foucault chiama contromemoria; è una forma di resistenza all’assimilazione e all’omologazione…” pag. 31.

17. Alessandra Bocchetti, Cosa vuole una donna. Storia, politica, teoria. Scritti 1981/1995, Milano, La Tartaruga, 1995, pag. 244.

 

 

3) Relazione

La Teologia della Liberazione e la costruzione della Pace nel contesto geopolitico attuale:

tra monolitismo e pluralismo religioso

Giiulio Girardi

 

Problema della pace e problema dell’alternativa        1

Non c`è pace senza sovversione (del disordine vigente)      1

Ruolo delle religioni , in particolare del cristianesimo, nella costruzione della pace sovversiva        2

Le contraddizioni interne al cristianeisimo      3

Il cristianesimo tra pluralismo e monolitismo religioso           3

L’impatto omologante della globalizzazione neoliberale        4

La trasmigrazione di popoli,culture e religioni            4

La guerra contro il terrorismo islamico           5

I-         IL MONOLITISMO CRISTIANO-CATTOLICO      6

ISPiRATORE DI VIOLENZA E DI GUERRA          6

Il monolitismo cristiano-cattolico, ispiratore della conquista. 6

Il monolitismo cattolico attuale, sorgente di violenza?          8

II IL MONOLITISMO ISLAMICO, LEGITTIMAZIONE  DELLA VIOLENZA E DELLA GUERRA SANTA           9

La jihad, guerra di liberazione e di affermazione dell’Islam   10

La jihad, terrorismo legittimo e necessario    10

La jihad, fondamentale dovere religioso        10

La jihad, guerra contro l’imperialismo con i suoi stessi metodi          11

III –IL PLURALISMO RELIGIOSO E LAICO NELLA COSTRUZIONE DELLA PACE            12

Come sorge  in prospettiva cristiana il problema del pluralismo religioso     12

Che cos’è il “pluralismo religioso”       13

Una premessa  metodologica 13

Definizioni mistificate del pluralismo religioso 13

Descrizione del pluralismo religioso    14

Fondamento filosofico  del pluralismo religioso e della pace  15

Fondamento teologico del pluralismo religioso e della pace  15

La teologia del pluralismo religioso e della pace, espressione di una esperienza di fede profondamente rinnovata            16

Rapporto  fra pluralismo religioso e pluralismo laico  17

III-IL MACROECUMENISMO POPOLARE INDOAFROLATINOAMERICANO          18

Genesi del movimento 18

Senso del movimento macroecumenico “assemblea del popolo di Dio”         19

Nuovi orizzonti aperti dal movimento macroecumenico all’ecumenismo e alla teologia         20

IV- IL MACROECUMENISMO POPOLARE HA UN FUTURO IN EUROPA?  21

Domande che il nuovo  contesto multietnica, multiculturale e multireligioso impone all’impegno macroecumenico dei cristiani            21

CONCLUSIONI :           Macroecumenismo e teologia della pace        22

 

 

Problema della pace e problema dell’alternativa

 

Il presente contesto geopolitico  , all’interno del  quale intendiamo impostare il problema della pace, è caratterizzato fondamentalmente , come  hanno mostrato le  nostre analisi precedenti, elaborate in sintonia con il movimento di Porto Alegre,  da due grandi fenomeni , il processo di globalizzazione neoliberale e la guerra antiterrorista...

La globalizzazione neoliberale ci si è rivelata come una guerra economico-politica di conquista e di colonizzazione del mondo, condotta da una minoranza privilegiata dell’umanità contro la grande maggioranza. La guerra antiterrorista  poi non ci è apparsa come un avvenimento  particolare, del quale sarebbe possibile indicare l’inizio e la fine, ma come una prassi  diventata permanente,  diventata cioè lo strumento “normale” di una politica di dominio del mondo da parte delle grandi potenze, in primo luogo degli Stati Uniti. La guerra economico-politica e la guerra militare sono parte dello stesso progetto neoimperialista.

In tale contesto,  il problema della pace coincide con quello  dell’alternativa di civiltà. Dire che “un altro mondo è possibile”, che è “in costruzione”,  significa dire che “è possibile la pace, che essa è in costruzione”.Il popolo di Porto Alegre  nel suo impegno per progettare un mondo diverso ha ritenuto essenziale affermare che “un mondo senza guerre è possibile”. Individuando poi nell’esercizio della democracia partecipativa , cioè dell’autodeterminazione solidale il centro propulsore dell’alternativa di civiltà, ha chiarito che per affermare fondatamente la possibilità di un mondo senza guerre è necessario  mostrare la possibilità di un mondo dal quale siano eliminate le cause della guerra, e quindi in primo luogo la volontà di dominare gli altri;  è necessario inoltre mostrare che è possibile istaurare un sistema di rapporti  fondato sull’amicizia e la solidarietà liberatrice, tra le persone, i popoli, le razze i continenti; tra l’umanità presente e la futura;  tra l’umanità e la natura.

 

Non c`è pace senza sovversione (del disordine vigente)

 

            La pace   intesa come alternativa di civiltà è la pace dei popoli e non quella degl’imperi. Essa ha come perno l’esercizio dell’autodeterminazione solidale  di tutti i popoli  e si contrappone per questo alla pace degli imperi , alla pace americana, fondata invece  sulla sottomissione della maggioranza dei popoli al gruppo dei popoli  più ricchi e potenti, egemonizzati dagli Stati Uniti.

            Dicendo che la pace consiste in una alternativa di civiltà,  vogliamo dire che essa , per essere autentica e stabile, non può consistere unicamente  nella cessazione della guerra, ma che essa implica lo sradicamento delle cause della guerra, che sono oggi il processo di globalizzazione neoliberale e l’egemonismo delle grandi potenze. Quanto dire che la pace dei popoli implica la sovversione del disordine vigente;  e che quindi la sua costruzione suppone una lunga lotta popolare.

            E’ quindi esatto che “non c’è pace senza giustizia”; ma bisogna completare  l’affermazione dicendo: “non c’è pace senza sovversione del disordine vigente; non c’è pace senza una lunga lotta popolare”

 

Ruolo delle religioni , in particolare del cristianesimo, nella costruzione della pace sovversiva

 

La  nostra riflessione  si propone di collocare in tale contesto le religioni, e particolarmente  il cristianesimo. Nella costruzione della pace ( e quindi dell’alternativa di civiltà) le religioni sono (come spesso pretendono) parte della soluzione o parte del problema? Sono fattori di pace o promotori di guerre?

Una prima risposta clamorosamente negativa la fornisce oggi il terrorismo islamico, denunciato dal potere americano e occidentale come il nemico principale della civiltà. In effetti, qualunque cosa si pensi della legittimità  delle guerre scatenate in nome dell’Islam, è evidente  che una versione integralista di questa religione giustifica ed esalta la “guerra santa”.; che quindi non è un fattore di pace ma di guerra.

Molti  occidentali pensano  però che, comunque,  un’accusa di questo genere non si possa  rivolgere  al cristianesimo,  che appare invece come un promotore della pace.. Dopo l’11 settembre, , il papa convocò particolarmente cristiani e musulmani  all’incontro di Assisi del 24 gennaio 2002, per proclamare che  “la religione non deve mai diventare motivo di conflitto”Tuttavia il nostro problema  non è di stabilire ciò che le religioni, e in particolare il cristianesimo,  debbono o non debbono essere, ma ciò che esse sono e sono state storicamente su questo terreno.

La stessa denuncia dell’integralismo  islamico da parte dei cristiani avrebbe un tono molto diverso se fosse accompagnata dal riconoscimento che l’integralismo  non è proprio dell’Islam, ma è presente in molte religioni, e particolarmente nella storia passata e presente del cristianesimo.

E’ sulla storia del cristianesimo  che vogliamo  ora concentrare la nostra attenzione,  nella convinzione che solo una coscienza critica delle nostre responsabilità  possa creare le condizioni di un dialogo  con l’Islam , che induca anche alcuni dei suoi  fedeli a riflettere autocriticamente sulla loro storia.

Ci domandiamo quindi, alla luce della storia,  qual’ è nel presente conflitto geopolitico la scelta di campo del cristianesimo? Cual’è il suo progetto di civiltà? E’ impegnato dalla parte  degli oppressi o degli oppressori?dalla parte del diritto o della violenza? dalla parte dell’ordine imperiale o della alternativa popolare ?è  un fattore di omologazione o di identità dei popoli?   il suo progetto di pace coincide con quello dei popoli o con quello degl’imperi?

 

Le contraddizioni interne al cristianeisimo

 

Analizzando il cristianesimo alla luce della storia , e non solo dell’ideologia,  ci rendiamo conto che la risposta a queste domande  non può essere univoca. Il cristianesimo è lacerato da profonde contraddizioni interne, che ci obbligano a parlare piuttosto di “cristianesimi”, cioè di modelli diversi ed antagonisti , che si  o sotto lo stesso nome e che assolvono storicamente ruoli diversi e contrapposti. Esistono cioè   dei cristianesimi “imperiali”, alleati , da Costantino ai giorni nostri , con i poteri oppressori ed esistono cristianesimi  popolari , identificati con gli oppressi e con le loro lotte di liberazione.

Questi due modelli di cristianesimo danno alla domanda fondamentale che ci preoccupa due risposta antagoniste.Il cristianesimo  imperiale  ha giustificato il processo  di colonizzazione e unificazione del mondo intorno agli imperi, e per ciò stesso,  la violenza militare, politica ed economica che fu suo strumento; . Il cristianesimo popolare invece riconosce il diritto  dei popoli oppressi all’autodeterminazione solidale e pertanto alla diversità  culturale e religiosa. Lottare per la pace e per l’alternativa significa per esso  impegnarsi a costruire  una civiltà  segnata appunto dall’esercizio  dell’autodeterminazione solidale del popolo e dei popoli.

Tuttavia , come cercheremo di chiarire, le religioni e in particolare il cristianesimo possono giungere autenticamente ad essere costruttrici di pace solo se prendono coscienza del fatto che storicamente sono state spesso fattori di guerra, di guerre religiose e di guerre politico-economiche. Sono state e continuano ad essere fattori  di guerra nella misura in cui hanno, come il cristianesimo, un carattere monolitico: nella misura cioè  in cui si considerano le uniche religioni pienamente vere e pertanto chiamate a diventare la religione universale, il pensiero religioso unico dell’umanità. Si considerano quindi legittimate a squalificare le altre religioni ed a imporsi esse stesse con la violenza culturale e magari con la violenza politica e militare. Con questo riferimento  al monolitismo religioso come fattore di guerra stiamo introducendo il tema  centrale della nostra riflessione sulla pace, quello del pluralismo religioso e laico.

 

 

 

Il cristianesimo tra pluralismo e monolitismo religioso

 

            In questa contrapposizione tra due modelli di cristianesimo, assume oggi particolare importanza la presa di posizione di fronte al pluralismo religioso, l’alternativa tra pluralismo e monolitismo. Il problema s’impone per varie ragioni, che desidero esplicitare.

 

            L’impatto omologante della globalizzazione neoliberale

 

In primo luogo, la globalizzazione neoliberale è un processo di colonizzazione e di omologazione del mondo da parte delle grandi potenze,  che conculca  il diritto dei popoli all’autodeterminazione e alla diversità, non solo politica ed economica , ma anche culturale e religiosa. Ma a questa aggressione molti popoli,  in particolare indigeni,  cercano di resistere, riaffermando il loro diritto alla diversità anche  culturale e religiosa. E’ questo che come cristiani ci domandiamo : la nostra religione è schierata dalla parte del processo di colonizzazione o dalla parte della resistenza dei popoli.

            La risposta o le risposte  a questo interrogativo fondamentale dipendono dall’atteggiamento di fronte alla teologia del pluralismo religioso. Se la si respinge e condanna, come fa il magistero cattolico, ci si allinea alla tendenza omologante del processo, dissociandosi dalla resistenza dei popoli, delle culture, delle religioni che rivendicano il diritto all’autodeterminazione ed alla diversità. Se invece si riconosce questo diritto , come fa la teologia del pluralismo religioso, ci si schiera al fianco della resistenza e dell’alternativa popolare al neoliberalismo.

           

            La trasmigrazione di popoli,culture e religioni

 

            Ma l’urgenza di questo problema dipende anche da altri fattori. Il processo di globalizzazione neoliberale ha tra la sue conseguenze una spinta senza precedenti  alla trasmigrazione di masse popolari verso i paesi ricchi, in cerca di lavoro e di sopravvivenza. Con i popoli, trasmigrano necessariamente le loro culture e religioni. Particolarmente numerosi i fedeli musulmani.

Di fronte a questo fenomeno, gli europei assumono atteggiamenti contrastanti, sia a livello economico sia a livello culturale e religioso. A livello economico, gli “extracomunitari” rappresentano per alcuni una minaccia, che toglie il lavoro ai nazionali, che promuove il narcotraffico ed altre forme di delinquenza, che crea in molti quartieri condizioni di insicurezza; sono per altri una risorsa di cui le economie europee hanno urgente bisogno.

Anche a livello culturale e religioso, gli extracomunitari, in particolare i musulmani,  sono per alcuni una minaccia di contaminazione e di corruzione delle nostre religioni.  Assai diverso sarebbe l’atteggiamento dei cristiani che fossero aperti alla teologia del pluralismo religioso e che quindi potessero vedere nell’incontro con altre culture e religioni  uno  stimolo capace di aprire nuovi orizzonti ai rapporti di collaborazione, scambio e fecondazione mutua fra culture e religioni.

            Nei confronti , in particolare, dell’Islam, è molto diffusa la convinzione che esso sia per sua natura integralista e che quindi non possa diventare l’interlocutore di un autentico dialogo. Ma quasi a dissipare questo pregiudizio è uscito recentemente un quaderno della rivista Alternatives Sud, intitolato Teologie della liberazione,  nel quale compaiono due articoli  sulla teologia islamica della liberazione . Questi contributi rivelano la presenza di un certo pluralismo all’interno dell’Islam e incoraggiano la ricerca di interlocutori musulmani non integralisti.

 

La guerra contro il terrorismo islamico

 

            Ma vi è un altro fondamento dell’attualità di questo problema che vogliamo segnalare. Come abbiamo ricordato in apertura, uno dei fenomeni che segnano la nostra epoca è la guerra antiterrorista. In occidente poi, il terrorismo viene associato all’integralismo islamico. Questa situazione determina una demonizzazione dell’Islam, associato quasi automaticamente  all’integralismo ed al terrorismo. Per cui l’ipotesi di aprire un dialogo fecondo con sorelle e fratelli musulmani non viene neppure preso in considerazione.

            Ora, è doveroso domandarsi: in che misura la teologia e l’educazione cristiana  dispongono i fedeli, i sacerdoti, i vescovi a questa demonizzazione e quindi a questa guerra culturale e religiosa? Che cosa cambierebbe su questo terreno nel comportamento dei cristiani se essi si aprissero ad una prospettiva pluralista? Quale potrebbe essere in questa prospettiva  il loro contributo alla pace culturale e religiosa e quindi alla pace senz’altro?

Il cristianesimo , e concretamente ogni cristiano ed ogni cristiana, si trova quindi nella necessità di scegliere tra monolitismo e pluralismo ; ed ognuna di queste opzioni è carica di implicazioni politiche e teologiche  antagoniste, che è necessario esplicitare. .

Questa scelta impone ai cristiani ed alle comunità che l’assumono ,di affermare la loro autonomia nei confronti della gerarchia e quindi di ridefinire la loro identità senza includervi la sottomissione  alla gerarchia, ma in funzione dell’identificazione  con gli oppressi e le oppresse come soggetti.  Mentre cioè riconosciamo il diritto  degli altri all’autodeterminazione religiosa, difendiamo lo stesso diritto per i cristiani e le loro comunità  nei confronti della gerarchia.

La nostra riflessione sulla pace si concentrerà in primo luogo sul monolitismo religioso, specialmente cristiano e islamico, come ispiratori di violenza e di guerra; per poi parlare del pluralismo religioso e laico come costitutivo essenziale della pace.  Tra le forme di pluralismo religioso daremo particolare rilievo al macroecumenismo popolare indoafrolatinoamericano; per concludere domandandoci se il macroecumenismo popolare abbia un futuro in  Europa e particolarmente in Italia.

 

I-         IL MONOLITISMO CRISTIANO-CATTOLICO

 ISPIRATORE DI VIOLENZA E DI GUERRA

 

Vogliamo ora concentrare la nostra attenzione su uno dei più gravi ostacoli alla pace, su una delle radici della violenza: il monolitismo religioso, più spesso denominato “integralismo”o anche “settarismo”.Per “monolitismo religioso” intendo la convinzione di una religione di essere l’unica vera e l’unica salvifica, e quindi di essere chiamata a diventare la religione universale e  la norma etica fondamentale della società e del mondo.

Perché il monolitismo religioso è una delle radici della violenza? Perché la convinzione di essere l’unica vera e salvifica  induce facilmente una religione a volersi imporre con la violenza non solo culturale ma anche, dove possibile, politica e militare , squalificando, reprimendo e perseguitando le altre , contrapponendo il diritto di Dio e della vera religione al diritto delle persone e dei popoli all’autodeterminazione (particolarmente religiosa).

            La costruzione della pace implica l’individuazione e lo sradicamento di tutte le forme di violenza. La pace non si può  definire assenza di guerra, ma  assenza di qualsiasi forma di violenza, ossia di qualsiasi violazione dei diritti delle persone e dei popoli, primo fra tutti il diritto di autodeterminazione politica, economica, culturale e religiosa.

La formula “assenza di violenza” è apparentemente negativa, ma sostanzialmente positiva. Significa infatti il riconoscimento effettivo dei diritti di tutti, riconoscimento che suppone una visione solidaristica dei rapporti tra le persone e tra i popoli.

La formula “assenza di violenza”è apparentemente statica, in realtà è dinamica e conflittuale: in una società segnata dalla violenza dei rapporti di dominio, l’eliminazione della violenza, cioè la riaffermazione dei diritti violati, non può che essere l’approdo di una lunga e ardua lotta:in una società segnata dalla violenza dei  rapporti di dominio, l’eliminazione della violenza,  cioè la riaffermazione dei diritti violati, non può che essere l’approdo di una lunga e ardua lotta.

Il monolitismo cristiano-cattolico, ispiratore della conquista.

 

Per noi l’aspetto più importante ed anche più incandescente del problema è quello che nasce dal monolitismo cristiano cattolico.La storia del cristianesimo da Costantino ad oggi è forse il documento più evidente e più clamoroso del rapporto fra monolitismo religioso e violenza: “a partire da Costantino”, cioè da quando il cristianesimo, prima emarginato e perseguitato, diventa religione ufficiale dell’impero.Si apre  allora una storia infinita di violenza, esercitata in difesa della “verità rivelata”, quindi in nome di Dio: esercitata contro i seguaci di altre religioni ed anche contro i cristiani che rifiutano di sottomettersi alla dottrina ufficiale. In occasione del giubileo l’attenzione del mondo è tornata a concentrarsi , per esempio,sul destino di personaggi come Gerolamo Savonarola o Giordano Bruno. Le femministe hanno denunciato con forza la caccia alle streghe, come espressione epocale della violenza religiosa contro le donne.Ma probabilmente il momento più significativo e più tragico del rapporto fra monolitismo cristiano e violenza, è quello della conquista dell’America, ricordato e celebrato dalla chiesa cattolica come quella della “prima evangelizzazione” del continente.

Significativo e tragico per l’evidenza con cui si manifesta il ruolo della religione nella giustificazione e nell’esercizio della violenza conquistatrice e colonizzatrice. Conquista e colonizzazione sono giustificati, anzi sacralizzati dalla chiesa, perché renderanno possibile l’evangelizzazione di quelle popolazioni. Evangelizzazione necessaria per la loro salvezza, in forza del principio: “fuori della chiesa non vi è salvezza”. E’ quindi il monolitismo della chiesa che legittima e consacra la violenza: sia la violenza politica e militare della conquista, sia la violenza culturale e religiosa implicata nell’evangelizzazione conquistatrice.

Il momento della conquista-evangelizzazione è particolarmente significativo e tragico anche per l’entità e molteplicità della violenza che viene scatenata e giustificata in nome della religione. Violenze che i popoli indigeni, nella loro recente presa di coscienza, non esitano a qualificare come genocidi:  genocidi fisici, ma anche culturali  e religiosi; violenze che il diritto moderno qualifica come crimini contro l’umanità.

Finalmente, il momento della conquista-evangelizzazione è particolarmente significativo e tragico perché esso è all’origine della civiltà occidentale cristiana e dei rapporti di dominio che la caratterizzano. La nostra civiltà è segnata nelle sue origini da questo crimine contro l’umanità che è il genocidio fisico, culturale e religioso dei popoli indigeni.

Le strutture politiche ed economiche generate da questo crimine, sono l’istituzionalizzazione e perpetuazione di esso, l’istituzionalizzazione e la perpetuazione del genocidio.La logica criminale che segna le strutture della nostra civiltà diventa particolarmente evidente e particolarmente distruttiva oggi, nel processo di globalizzazione neoliberale, che rappresenta il passaggio della guerra di colonizzazione dell’America alla guerra di colonizzazione del mondo.

Quando denunciamo, doverosamente, la violenza scatenata dal processo di globalizzazione neoliberale, non dimentichiamo di denunciare anche il monolitismo cristiano che ne ha segnato le origini.

La realtà di questo monolitismo diventa più chiara alla luce della storia. Si tratta di un cristianesimo ispirato ad un progetto storico di “cristianità”, ossia di cristianizzazione del mondo intesa come affermazione a livello mondiale dell’autorità della chiesa.Questo modello di cristianesimo è teorizzato dalla teologia della cristianità, le cui affermazioni essenziali sono le seguenti:

1º. Il cristianesimo è l’unica religione vera e salvifica.

2º. Il bene superiore delle persone e dei popoli esige che i diritti della verità cristiana, che sono i diritti di Dio, prevalgano sui diritti della libertà culturale e religiosa, delle persone e dei popoli. In altre parole: il diritto all’autodeterminazione delle persone e dei popoli non è assoluto, ma subordinato ai diritti di Dio e della chiesa.

3º. È pienamente legittima la violazione del diritto di autodeterminazione delle persone e dei popoli, quando sono in gioco i diritti della verità di Dio, e della chiesa.

4º. È legittima, anzi doverosa, l’evangelizzazione intesa come impegno per convertire al cristianesimo persone e popoli che praticano altre religioni.

In una parola, la teologia della cristianità è una legittimazione religiosa della violenza; è quindi incompatibile con una teologia della pace.

 Il monolitismo cattolico attuale, sorgente di violenza?

Ci rimane da affrontare un problema decisivo: il cristianesimo di cui stiamo parlando è solo quello di altri tempi, del medioevo o della conquista, oppure è ancora attuale? La teologia della cristianità è solo quella che ha ispirato la conquista  o anche quella che ispira oggi la pastorale missionaria della chiesa?

Il problema si è imposto drammaticamente all’attenzione dei cristiani in occasione delle celebrazioni e controcelebrazioni del V centenario della cosiddetta scoperta d’America, e della cosiddetta prima evangelizzazione del continente.I cristiani si trovarono allora a dover decidere se associarsi alle celebrazioni di quell’avvenimento o dissociarsi da esse, se associarsi alla celebrazione della “prima evangelizzazione” o dissociarsi da essa. Prendere tale decisione significava valutare in una prospettiva cristiana quell’avvenimento, quella svolta nella storia dell’umanità e del cristianesimo. E’ stato un grande progresso, come affermavano le potenze occidentali, promotrici della celebrazione? Oppure è stato un crimine, come denunciava la resistenza indigena negra e popolare gridando: “non abbiamo nulla da celebrare, come potremmo celebrare il centenario del nostro genocidio”?

Emersero allora tra i cristiani due risposte antitetiche, che corrispondevano a due concezioni contrapposte del cristianesimo:

-           un modello di cristianesimo identificato con le grandi potenze occidentali, con i conquistatori, per il quale l’evangelizzazione rappresentava un’enorme estensione del potere della chiesa, e quindi un grande progresso per il cristianesimo.

-           un modello di cristianesimo segnato dalla scelta degli oppressi e quindi identificato con la resistenza indigena negra e popolare, per il quale l’evangelizzazione conquistatrice non era autentica, perché non era il messaggio di liberazione annunziato da Gesù, ma era diventata un invito alla sottomissione ed alla rassegnazione, uno strumento di colonizzazione culturale e religiosa, la giustificazione della dominazione politica ed economica.

In una parola, si contrapposero e si contrappongono tuttora, un cristianesimo imperiale ed un cristianesimo popolare. Il cristianesimo imperiale , rappresentato dalla chiesa cattolica istituzionale, si associò pienamente alle celebrazioni del centenario, assunse anzi in esse un ruolo di protagonista, preparando il ‘92 con un novenario di nove anni. Con queste celebrazioni la chiesa cattolica affermava la sua fondamentale continuità con la chiesa della conquista e con la sua concezione dell’evangelizzazione.

Come la chiesa della conquista, essa si considera l’unica vera religione, chiamata ad affermarsi in tutto il mondo, a cristianizzare l’intera umanità.Come la chiesa della conquista, essa ritiene legittima e doverosa un’evangelizzazione che induca le persone e i popoli ad abbandonare le loro religioni tradizionali  ed a convertirsi all’”unica vera religione”. Come la chiesa della conquista, essa non riconosce il diritto dei popoli all’autodeterminazione religiosa, o comunque lo considera subordinato al diritto di Dio e quindi della stessa chiesa.Come la chiesa della conquista, essa giudica positivamente la conquista e la colonizzazione, la violenza che esse hanno esercitato, perché hanno reso possibile l’evangelizzazione e quindi il progresso del cristianesimo.

La persistente attualità della teologia della cristianità ha avuto una  conferma nella dichiarazione Dominus Jesus,  emanata dalla Congregazione per la dottrina della Fede nell’agosto del  2000. Essa è una decisa condanna della teologia del pluralismo religioso, ed una riaffermazione della chiesa cattolica come depositaria esclusiva della rivelazione piena e definitiva. Il documento ha suscitato numerose e vivaci reazioni entro e fuori della chiesa cattolica, perché considerato come una grave minaccia per l’ecumenismo e il macroecumenismo.Fra queste reazioni ricorderò quella di Don Pedro Casaldaliga che ha chiesto perdono ai fedeli di altre religioni per la ferita loro inferta.

Su queste posizioni la Congregazione per la dottrina della Fede è tornata nel febbraio 2001 con una notificazione al P. Jacques Dupuis, teologo gesuita di origine belga, professore emerito della pontificia università gregoriana, a proposito del suo libro “Verso una teologia cristiana del pluralismo religioso”.Pur conoscendo la volontà dell’autore di rimanere nei limiti dell’ortodossia, la notificazione segnala nel suo pensiero notevoli ambiguità e difficoltà su punti dottrinali di rilevante portata, che possono condurre il lettore a opinioni erronee e pericolose.

È in questo clima di vigilanza e di sospetto che deve muoversi il macroecumenismo indoafrolatinoamericano. Mi sembra necessario prenderne coscienza nel momento in cui vogliamo proporre queste scelte all’attenzione  dei cristiani europei di base.

 

II IL MONOLITISMO ISLAMICO, LEGITTIMAZIONE  DELLA VIOLENZA E DELLA GUERRA SANTA

 

            Presentiamo il monolitismo islamico nella versione che conosce oggi una tragica attualità,  quella rappresentata  da Osama Bin Laden come giustificazione ed esaltazione della guerra santa. Lo facciamo senza dimenticare che si tratta appunto di una versione dell’Islam, lasciando aperta la questione della sua fedeltà o meno al messaggio originario di Maometto; e anche della sua rispondenza all’ esperienza di fede di tutti i musulmani.

 

La jihad, guerra di liberazione e di affermazione dell’Islam

            La jihad, terrorismo legittimo e necessario

 

La denuncia dell’imperialismo americano e della sua aggressione politica, militare, economica e religiosa contro l’Islam fonda per Bin Laden la giustificazione, anzi l’esaltazione della reazione terroristica contro di esso. “Il terrorismo può essere lodevole o biasimevole. Terrorizzare una persona innocente è discutibile e ingiusto…Ma terrorizzare i criminali e i ladri è necessario per la salvezza delle persone e per la sicurezza dei loro beni…Ogni stato ed ogni civiltà deve ricorrere al terrorismo in alcune circostanze per abolire la tirannia e la corruzione. Il terrorismo che noi pratichiamo è del tipo più lodevole, perché è diretto contro i tiranni e gli aggressori, i nemici di Allah e coloro che commettono atti di tradimento contro i propri paesi, la propria fede, il proprio profeta e la propria nazione. Terrorizzare costoro è legittimo e necessario…Ci strappano le nostre ricchezze, le nostre risorse e il nostro petrolio. Attaccano la nostra religione. Uccidono e massacrano i nostri fratelli. Compromettono il nostro onore e la nostra dignità, e se osiamo dire una sola parola di protesta contro l’aggressione ci chiamano terroristi.” (p.98) “Se liberare il mio paese mi porta ad essere bollato come terrorista, è un grande onore per me esserlo”.  (p.101). ”Se l’istigazione alla jihad contro gli ebrei e gli americani, volta a liberare la moschea di Al Aqsa e la santa Ka’ba è considerato un crimine, la storia mi sarà testimone che io sono un criminale.”(p.101)

 

La jihad, fondamentale dovere religioso

 

Questa violenza, che si caratterizza come difensiva e liberatrice, non è solo giustificata, è anche un fondamentale dovere religioso. La sua espressione più completa è la jihad o guerra santa.  “Il nostro appello a ogni musulmano perché partecipi alla jihad contro Israele e contro l’America la definiamo un dovere religioso. Nel Corano il nostro grande Allah ci ha più volte incoraggiato a combattere per lui….Abbiamo fatto una promessa ad Allah, di continuare la lotta fin quando avremo sangue che scorre nelle vene o un occhio che vede ancora.” (pp.91-92) “L’ostilità verso l’America è un dovere religioso, e noi speriamo per questo di essere ricompensati da Dio, lode e gloria a Lui…Essere chiamati *nemico numero uno* o *numero due* non ci preoccupa. Quello che ci sta a cuore è compiacere Dio, lode e gloria a lui, facendo la jihad per la sua causa e liberando i luoghi sacri dell’Islam” (p.100) “Non esiste alcun dovere più importante che respingere il nemico americano fuori dalla terra santa…Non c‘è altro dovere, dopo la fede, che combattere il nemico che sta corrompendo la vita e la religione.” (p.126) ”La jihad è parte della nostra religione e nessun musulmano può dire di non voler fare la jihad per la causa di Dio, lode e gloria a lui. Questi sono i dogmi della nostra religione, e noi chiediamo: *c’è un altro modo per respingere gli infedeli?*” (p.92)

La giustificazione e sacralizzazione della jihad si fonda da un lato, come abbiamo visto, sul fatto che essa reagisce all’intrusione sacrilega dell’imperialismo nei paesi islamici e in particolare all’occupazione dei luoghi santi; si fonda d’altro lato sugli obbiettivi che essa persegue, cioè la liberazione di questi paesi e di questi luoghi, la restaurazione dello stato islamico e l’affermazione nel mondo intero dell’Islam, chiamato a diventare la religione universale.

“La nostra chiamata all’Islam è stata rivelata da Maometto. E’ una chiamata rivolta a tutto il genere umano. Siamo stati incaricati di seguire le orme del Messaggero e di portare il suo messaggio a tutte le nazioni, quello appunto di abbracciare l’Islam, la religione che invoca la giustizia, la solidarietà e la fratellanza tra le nazioni… Siamo incaricati di diffondere questo messaggio a tutte le genti.. E nello stesso tempo lottiamo contro i governi e le genti che approvano l’ingiustizia contro di noi. Combattiamo quei governi che attaccano la nostra religione e che rubano le nostre ricchezze, ferendoci il cuore. E li combattiamo nella stessa maniera e con gli stessi mezzi con cui essi combattono noi.” (pp.89-90)

 

La jihad, guerra contro l’imperialismo con i suoi stessi metodi

 

Particolarmente significativo mi pare il riconoscimento della affinità che questa guerra antimperialista dichiara con i modi e mezzi dell’imperialismo che combatte.  Essa riconosce di muoversi nella stessa logica del suo nemico, quella del diritto del più forte; riconosce pertanto di non rappresentare un’etica politica né una civiltà   alternativa nei suoi confronti.” Nei massacri di Sabra e Chatila, ebrei e americani hanno demolito le case sopra le teste dei bambini. E l’unico metodo che abbiamo per difenderci da questi assalti è di utilizzare gli stessi metodi.” (p.90)

Come il terrorismo nordamericano, il terrorismo islamico di bin Laden giustifica anche l’uccisione di innocenti, se questa è necessaria per colpire il nemico: “Supponiamo che gli americani abbiano attaccato una nazione islamica e rapito i miei bambini, i bambini di Osama bin Laden, per usarli come scudo, e quindi abbiano cominciato ad uccidere musulmani, come hanno fatto in Libano, Palestina e Iraq, o come quando hanno aiutato i serbi a massacrare i musulmani in Bosnia. Secondo la legge islamica, se ci asteniamo dal colpire gli americani per non uccidere i musulmani usati come scudo, causiamo un male maggiore a tutti i musulmani che sono sotto attacco, male che supera di gran lunga il bene di salvare quelli usati come scudo. Ciò significa che, in casi come questo, quando diventa chiaro che sarebbe impossibile respingere gli americani senza attaccarli, anche causando la morte di musulmani, la legge dell’Islam impone di attaccare.” (p.112)

Come l’imperialismo che combatte, bin Laden afferma la legittimità di tutte le armi, per esempio delle armi chimiche ed atomiche. Interrogato sulla sua intenzione di usare armi chimiche, egli dichiara: “La domanda presuppone che io possegga armi chimiche ed è volta a capire come noi le useremo. Io rispondo che ottenere armi chimiche per la difesa dei musulmani è un dovere impostoci dalla religione. Cercare di possedere armi chimiche che possano contrastare quelle possedute dagli infedeli è un dovere. Se io avessi tali armi, sarebbe perché ho assolto questo dovere e ringrazierei Dio di avermelo permesso… Sarebbe un peccato per i musulmani non provare a possedere le armi che preverrebbero gli infedeli dal causare del male ai musulmani. Ma come potremmo usare tali armi e se le possediamo, è affare nostro.” (p.114)

Credo che noi cristiani, prima di qualificare questi discorsi come “deliranti” dovremmo riflettere sull’affinità che la  jihad presenta con le crociate indette per la liberazione dei luoghi santi, alle quali bin Laden  rimanda costantemente qualificando i nemici americani come crociati;  dovremmo anche riflettere sull’affinità tra la jihad   e le guerre di conquista, benedette dalla chiesa come strumenti di evangelizzazione e di istaurazione della cristianità; dovremmo riflettere infine sulla nostra  mobilitazione contro il comunismo ateo e le guerre che essa ha giustificato.

 

 

 

III –IL PLURALISMO RELIGIOSO E LAICO NELLA COSTRUZIONE DELLA PACE

Come sorge  in prospettiva cristiana il problema del pluralismo religioso

 

            Il pluralismo religioso  non è evidentemente un fatto nuovo. Fin dalle origini dell’umanità i popoli hanno percorso strade diverse  nella scoperta , la concezione e il culto di Dio. Tuttavia, la comunicazione tra i diversi popoli era assai limitata.  Ogni popolo, anzi ogni comunità, rappresentava per la persona  l’orizzonte ultimo della sua conoscenza  e della sua vita; rappresentava, in una parola, il suo mondo. Pertanto la religione della sua comunità  era la religione del mondo.

            La storia dell’umanità si può considerare come un processo indefinito di scoperta della pluralità dei popoli e delle culture, in un rapporto di scambio o di conflitto. Questa scoperta avanza  soprattutto con il progresso dei mezzi di comunicazione e di trasporto. Si potrebbe quindi tracciare una storia dell’umanità assumendo come criterio di periodizzazione questo progresso..  Ma ciò che ritengo interessante qui  non è di ricostruire la storia, ma di prendere coscienza di quello che significa la scoperta della pluralità, e particolarmente della pluralità delle culture e delle religioni, all’epoca della mondializzazione e soprattutto l’impatto di questo nuovo contesto sulla situazione interiore di ogni credente.

            Situazione che può diventare drammatica e inquietante specialmente per i fedeli di religioni  che, come la cristiana,  si considerano chiamate ad essere professate da tutta l’umanità.  Situazione drammatica e inquietante per le domande che solleva, forse per la prima volta nella storia: se il cristianesimo è chiamato da Dio ad essere la religione universale, come si spiega che dopo duemila anni di azione missionaria, appoggiata dai poteri forti politici, economici e militari, continui a coesistere con molte altre religioni? che alcune di queste religioni, per esempio il buddismo e l’islamismo, stiano crescendo  e diffondendosi vigorosamente? che lo stesso  cristianesimo con tinui ad essere minoritario nel mondo? che  le previsioni per il suo futuro , fondate sull’incremento demografico dei vari popoli e continenti, vadano nel senso di una condizione sempre più minoritaria?

            Questa presa di coscienza  imprime alla fede del cristiano una forte scossa e le impone un processo di maturazione, che consiste nel caratterizzarla sempre meno come l’adesione a un sistema di verità definitive e sempre più come una ricerca critica  personale e collettiva incessante: ricerca di senso, ricerca di Dio, ricerca di Gesù di Nazareth. Questo processo di maturazione passa per due tappe.La prima consiste nel trasformare  l’adesione al cristianesimo in una opzione di fronte ad una pluralità di religioni. La seconda consiste nel ridefinire la natura del cristianesimo per il quale si opta: continua esso a considerarsi come l’unica vera religione o diventa una religione consapevole del suo carattere di verità parziale e storicamente condizionata, aperta quindi  a riconoscere altre verità  parziali ed a stabilire uno scambio con esse. Si tratta ev identemente di due concezioni  profondamente diverse del cristianesimo. Qquest’ultima, che riconosce la validità del pluralismo religioso, impone un ripensamento di tutte le principali categorie teologiche: come quelle ; di “fede”, “ rivelazione”, “religione”, “ salvezza”, ecc.; impone inoltre un riesame della divinità di Gesù.

 

Che cos’è il “pluralismo religioso”

 

Una premessa  metodologica

 

            Per definire e fondare il pluralismo religioso, non credo possibile né legittimo  rimanere in un’ottica teologica cristiana; è necessario, mi pare,  partire da una base filosofica  più generale e fondamentale. Per quale ragione? Perché rimanere in una prospettiva  teologica cristiana significa fondarsi  essenzialmente sulla bibbia e , per i cattolici, sul magistero ecclesiastico. Ora, come abbiamo rilevato, il magistero cattolico ha costantemente respinto la teologia del pluralismo religioso ed ha riaffermato recentemente questa condanna con la dichiarazione Dominus Jesus.  Vi sono poi delle ragioni  per pensare  che molte chiese evangeliche  hanno la stessa convinzione e interpretano la bibbia a partire da essa.

            D’altro lato, la versione dei vangeli  assunta dalle chiese  come fondamento dell’esclusivismo cristiano è molto discutibile  in fatto di oggettività storica, perché fu elaborata tra  40 e 70 anni dopo la morte di Gesù da persone  che non lo avevano conosciuto personalmente e che avevano come preoccupazione centrale non quella di raccontare oggettivamente detti e fatti di Gesù, ma quella di legittimare il processo di istituzionalizzazione del movimento; in altre parole, di fondare l’origine divina della chiesa.

             In ultima analisi , l’argomento principale che le chiese adducono   per fondare la loro qualità  di depositarie esclusive della rivelazione piena e definitiva è la loro stessa autorità. Argomento che convince solo i convinti. Per quanto  riguarda poi l’Antico Testamento , è difficile una interpretazione esclusivista della rivelazione giudaica, espressa nella missione del “popolo eletto”.

            Per questo, credo che una teologia del pluralismo religioso suppone necessariamente come fondamento una filosofia della religione , elaborata in prospettiva  liberatrice. Che cosa significa allora, più precisamente  il pluralismo religioso?

 

Definizioni mistificate del pluralismo religioso

 

 Credo necessario,  prima di proporre una definizione del pluralismo religioso, cominciare dicendo ciò che esso non è. Perché molto spesso la critica e la condanna di questo orientamento si riferiscono a una definizione arbitraria, nella quale molti dei “pluralisti” non si riconoscono. E’ il caso, concretamente della Dichiarazione Dominus Jesus. La dottrina che il documento vuole respingere è appunto  la teologia del pluralismo religioso. Il Cardinale  Ratzinger la definisce come "l'idea che tutte le religioni siano per i loro seguaci vie ugualmente valide di salvezza". In questa prospettiva, i cristiani dovrebbero sostituire il dialogo alla missione e all’appello alla conversione. Il dialogo pone sullo stesso piano la propria posizione e quella dell'altro, stabilendo tra gli interlocutori una relazione di reciprocità. Invece, l’appello alla conversione suppone la convinzione che la dottrina cristiana è l'unica pienamente e definitivamente vera e intende comunicare questa convinzione all'interlocutore.

Ratzinger riconosce, nel suo intervento introduttivo, che il "pluralismo religioso" si presenta in forme molto diverse e afferma che la Dichiarazione non intende rinchiuderle in una formula unica. Ciò nonostante, essa fa esattamente il contrario, indicando come presupposto filosofico fondamentale di queste teorie il relativismo, secondo il quale ciò che è vero per gli uni non lo è per altri (4); o il relativismo religioso, che "porta a ritenere che “una religione vale l'altra” o che tutte le religioni sono per i loro fedeli cammini ugualmente validi di salvezza.”(22). 1

 

Descrizione del pluralismo religioso

 

Nella caratterizzazione del pluralismo religioso che il documento presenta come bersaglio dei suoi argomenti, molti cristiani "pluralisti" non si riconosceranno. Poiché essi non pensano che una religione sia buona come un'altra, né che la verità sia relativa. Ciò che essi escludono è che un’istituzione umana abbia ricevuto da Dio l'autorità di definire quale religione sia vera e quale sia falsa, quali libri siano ispirati da Dio e quali no; che un’istituzione umana possa considerarsi depositaria esclusiva della verità piena e definitiva rivelata da Dio; che Dio si sia ridotto a manifestarsi attraverso un unico canale, in un’epoca e in una regione limitate della storia umana, disinteressandosi della grande maggioranza dell'umanità passata e presente. Essi pensano che tutte le conoscenze umane di Dio, comprese quelle che procedono dalla rivelazione, hanno un carattere parziale; che pertanto possono essere arricchite da altre conoscenze parziali.

Queste riflessioni sono valide, nella prospettiva pluralista, anche per le verità rivelate da Gesù di Nazareth. Anche quelli che riconoscono la sua divinità esclusiva, sottolineano il carattere autenticamente umano, e pertanto limitato, delle sue parole; il carattere autenticamente umano e pertanto limitato, delle testimonianze che riferirono, interpretarono e trasmisero le sue parole. Il fatto che queste verità scaturiscano dalla Verità Infinita del Verbo non toglie il loro carattere limitato e perfettibile.

Così pure, dialogare in condizioni di parità non significa affermare l'equivalenza di tutte le religioni, ma escludere che una istituzione abbia, per investitura divina, l'autorità di imporsi come l'unica religione vera. Nel dialogo religioso, come in qualsiasi dialogo umano, ogni interlocutore ha il diritto di considerare la propria posizione come valida; ma nessuno ha il diritto di considerarsi depositario della verità totale e definitiva.

Credo necessario denunciare una volta di più il metodo scarsamente scientifico e largamente ideologico con il quale la Congregazione per la Dottrina della Fede conduce la sua polemica. La Dichiarazione ricorda le istruzioni sulla teologia della liberazione, che questo dicastero interpretava come un sottoprodotto del materialismo ateo, il che gli permetteva di squalificarla e confutarla facilmente. Ma nessuno dei destinatari di quelle condanne si riconobbe nell’interpretazione vaticana. Questa metodologia squalifica piuttosto i documenti che l'adottano e li priva di qualsiasi valore dottrinale. La sua unica efficacia consiste nell'offrire nuove armi ai difensori intolleranti dell'ortodossia.

 

Fondamento filosofico  del pluralismo religioso e della pace

 

Il pluralismo  religioso  così inteso si fonda filosoficamente sul diritto di autodeterminazione solidale, culturale e religiosa di tutti i popoli e, in ultima analisi di tutte le persone. Perché il diritto  delle persone, anche sul terreno religioso, è il fondamento ultimo del diritto dei popoli.

Il diritto di autodeterminazione è il diritto fondamentale di essere se stesso ;  è il diritto all’autonomia , all’identità e alla diversità. L’aggettivo “solidale” con il quale ritengo necessario caratterizzare questa rivendicazione, specialmente nella sua versione indigena,  intende distinguerla dalla versione etnocentrica e imperialista, cioè europea o nordamericana, che considera l’autodeterminazione come un privilegio  dei popoli “superiori”, civilizzati”, avanzati,; che pertanto hanno il diritto di esercitare l’ autodeterminazione imponendo il loro dominio ad altri popoli. Invece, per i popoli indigeni insorti , rivendicare il proprio diritto di autodeterminazione “solidale”significa riconoscere questo diritto a tutti i popoli e a tutte le persone; significa anche esercitarlo per costruire una comunità solidale al suo interno  e nella sua relazione  con le altre comunità e gli altri popoli.

Ora questa distinzione  è importante non solo sul terreno politico , ma anche sul terreno culturale

e religioso. Affermare il diritto di autodeterminazione solidale sul terreno religioso  significa riconoscere questo diritto  a tutti i popoli ed a tutte le persone; significa quindi   negare a qualunque religione il diritto di considerarsi la religione universale e pertanto di imporsi come norma obbligatoria nel nome di Dio, con la violenza fisica o morale. Per tutte le persone e tutti i popoli  l’itinerario verso l’afferrmazione o la negazione di Dio dev’essere una scelta libera, un momento fondamentale nella costruzione della sua propria identità.

            Nella prospettiva di una filosofia della liberazione, il diritto di autodeterminazione solidale, con tutte le sue dimensioni, è uno dei “primi principi”, di quelli che gli scolastici chiamavano verità per se notae, evidenti di per sé e fondamento delle altre verità. Tuttavia, tra i “primi principi” degli scolastici e quelli di una filosofia della liberazione vi è una differenza importante : per gli scolastici si trattava di verità  naturalmente  conosciute da ogni persona, di intuizioni intellettuali; per noi si tratta di verità  percepite solo a partire da una presa di partito  etico-politica per gli oppressi e le oppresse come soggetti, di verità quindi conosciute dalla persona nella sua integralità.

            Ora questo stesso diritto di autodeterminazione solidale, che fonda il pluralismo religioso, è il perno di una civiltà e di una globalizzazione popolari, alternativa alla civiltà e alla globalizzazione neoliberale. E’, in altre parole, l’essenza della pace.

 

            Fondamento teologico del pluralismo religioso e della pace

 

            Il riconoscimento del diritto di autodeterminazione solidale, che abbiamo affermato come principio fondamentale della filosofia della liberazione, è anche, a mio giudizio, il principio  fondamentale della teologia  della liberazione. Coincide infatti essenzialmente con  la “scelta dei poveri”, cioè , più esattamente , degli oppressi e delle oppresse come soggetti.

            Certo, questo principio teologico  si può fondare e si suole fondare sulla vita e la parola di Gesù. Tuttavia, mi pare, l’interpretazione del vangelo e di tutta la bibbia in una prospettiva liberatrice ( come, del resto, in qualunque prospettiva), è necessariamente selettiva. Deve infatti orientarsi tra le contraddizioni della stessa bibbia. Se in questo cammino  la persona non riconosce come guida  il magistero di una chiesa  (è questo  il mio caso e quello di molti altri cristiani) , deve fondarsi in una “precomprensione” , indipendente dalla stessa bibbia,  quindi  in una intuizione di evidenza filosofica: la quale, in una prospettiva liberatrice, è appunto il riconoscimento degli oppressi e delle oppresse, pertanto di tutte le persone e di tutti i popoli, come soggetti.

            Ma se questo à vero, a livello teologico  l’autodeterminazione religiosa delle persone e dei popoli  non è solo un diritto naturale, ma, per ciò stesso,  un diritto riconosciuto e conferito dallo stesso Dio, Amore Liberatore. Esiste quindi  un’acuta contraddizione tra il diritto di ogni persona e di ogni popolo, fondato sulla natura umana e per tanto sulla volontà di Dio, all’autodeterminazione religiosa, e il presunto diritto delle chiese e delle altre istituzioni religiose ad operare come se , per mandato di Dio, avessero un’autorità universale. Esiste, in altre parole, un’acuta contraddizione tra la volontà amorosa di Dio e il monolitismo religioso.

 

            La teologia del pluralismo religioso e della pace, espressione di una esperienza di fede profondamente rinnovata

 

            La teologia del pluralismo religioso  e della pace non porta con sé solo  un cambiamento  di atteggiamento pratico nei confronti delle altre religioni: infatti, abbandonare la convinzione di essere l’unica religione vera e definitiva impone un profondo rinnovamento teorico non solo della teologia della cristianità , ma anche della  stessa teologia della liberazione.

            Non possiamo analizzare qui tutti i cambiamenti  che questo ripensamento  impone. Ma un aspetto mi sembra indipesnabile segnalare: ed è che in questa prospettiva  la fede  cristiana cessa di essere l’assenso  prestato a un insieme di verità rivelate certe e definitive e diventa una ricerca incessante, critica ed  esistenziale. Critica, perché in essa  sono pienamente coinvolte  l’intelligenza, la scienza, la filosofia, la teologia: in una parola, tutte le manifestazioni dello spirito critico. Ricerca esistenziale, perché in essa è coinvolta  tutta la persona e la comunità, cioè non solo l’intelligenza,  ma l’affettività,  la sessualità, la volontà,  l’impegno sociale e politico.

            Il “credente” così inteso  è una persona in ricerca, che va elaborando le sue scelte, affrontando dubbi e crisi, scoprendo progressivamente il volto di Dio,  verificando  la , storicità di Gesù, reinterpretando il suo messaggio aldilà delle diverse interpretazioni attribuite agli apostoli, riscoprendo i cristianesimi primitivi nella loro autenticità e diversità; rendendosi conto finalmente che lo stesso Gesù, vero uomo,  non aveva la sua missione totalmente chiara fin dall’inizio, ma che è andato scoprendo, rettificando e precisando i suoi obbiettivi.

            Si verifica così una convergenza, una comunicazione e una comunione, non più intorno ad una ortodossia comune, ad un pensiero unico, ma ad una ricerca inquietante, concreta e partecipativa . Non è certo  che, come affermano alcuni,  lo sbocco finale di questa convergenza debba essere una religione universale: perché si tratta  di una convergenza che non sopprime le diversità e specificità , ma le valorizza.

            Il diritto alla diversità porta con sé il diritto al sincretismo,  cioè ad una elaborazione personale e collettiva della relazione con Dio, che accolga  elementi delle varie religioni, come succede per esempio nelle religioni cubane di origine  africana. I teologi cristiani, cattolici ed evangelici,  formulano abitualmente sul  sincretismo  un giudizio negativo. Lo considerano infatti come una forma di confusione. Questo giudizio si giustifica perfettamente se si riconoscono le istituzioni cristiane come norme dottrinali e pratiche, detentrici dell’ortodossia  e chiamate in esclusiva a interpretare la rivelazione di Dio. Tuttavia, queste sono qualità che le chiese si attribuiscono, ma unicamente sulla base della loro autorità:  l’autorità della chiesa fonda l’autorità dei vangeli, che a sua volta fondano l’autorità  della chiesa.

Rapporto  fra pluralismo religioso e pluralismo laico

 

            Affermare il pluralismo religioso significa per un credente  affermare per sé stesso e per gli altri la libertà della scelta religiosa. Significa cioè considerare la fede come una scelta libera e matura e non come la sottomissione ad una prescrizione o ad una pressione sociale.

            Per questo una società laica è molto più favorevole ad una religiosità autentica che una società confessionale: perché costituisce un ambiente  nel quale la fede religiosa non è subita come un’imposizione, ma rappresenta una libera scelta.

            Valorizzare la libertà della fede religiosa non significa solo riconoscerla come esercizio del diritto di scegliere tra le varie religioni, ma riconoscerla anche come libertà di scegliere  tra religiosità e laicità o ateismo. Significa quindi includere la laicità e l’ateismo nell’ambito del pluralismo legittimo. Per questo, nel momento  in cui il problema del pluralismo religioso assume una particolare attualità ed importanza, ritengo necessario estendere la sua prospettiva anche alla scelta laica. Considero quindi il pluralismo religioso e laico come componente essenziale  di una civiltà aperta; e la difesa di questo pluralismo  come un compito essenziale della teologia della liberazione.

            Del resto , laici ed atei non sono per nulla estranei alla ricerca religiosa, a meno che non siano laici od  atei dogmatici , che hanno cessato di cercare il senso della  vita, perché pensano di possedere al riguardo certezze  integrali e definitive.  Invece i laici ed atei in ricerca hanno recato storicamente ai credenti e recano loro tuttora un contributo determinante,  svegliando e rafforzando il nostro spirito critico , obbligandoci a purificare sempre più la nostra immagine di Dio e stimolandoci

 

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1)         Altri presupposti che, secondo la dichiarazione, ispirerebbero il "pluralismo religioso" sono: la convinzione dell'inafferrabilità e ineffabilità della verità divina, anche da parte della rivelazione

cristiana; il soggettivismo di chi considera la ragione come unica fonte di conoscenza e che pertanto non arriva a cogliere la verità dell'essere; l'eclettismo di chi, nella ricerca teologica, assume idee derivate da differenti contesti filosofici e religiosi; senza preoccuparsi della loro coerenza e connessione sistematica né della loro compatibilità con la verità cristiana; la difficoltà di comprendere e accogliere nella storia la presenza di eventi definitivi ed escatologici; lo svuotamento metafisico dell'evento dell'incarnazione del Verbo eterno (4)

 

III-IL MACROECUMENISMO POPOLARE INDOAFROLATINOAMERICANO

 

Il macroecumenismo indoafrolatinoamericano è una forma di pluralismo religioso, teorizzato e praticato dai cristiani che si sono dissociati dalle celebrazioni  del V Centenario dell’evangelizzazione, impegnandosi invece nelle controcelebrazioni. Per cogliere il significato di questo movimento dobbiamo partire dalla sua genesi.

Genesi del movimento

 

Il cristianesimo popolare è rappresentato da quelle minoranze evangeliche e cattoliche che, ispirate spesso dalla teologia della liberazione, si sono identificate con la resistenza indigena negra e popolare.Questi cristiani fanno propria la rivendicazione del diritto di autodeterminazione dei popoli oppressi e quindi la critica della conquista e della colonizzazione che tale diritto hanno calpestato.

Essi valorizzano  il diritto all’autodeterminazione culturale e religiosa dei popoli oppressi, in particolare degl’indigeni e dei negri e quindi fanno proprie le loro critiche dell’evangelizzazione conquistatrice e del genocidio culturale e religioso che essa ha giustificato e perpetrato.

Riconoscere il diritto di autodeterminazione religiosa degl’indigeni e dei negri significa anche per questi cristiani valorizzare le loro religioni millenarie come canali autentici della manifestazione di Dio e del suo amore;significa per il cristianesimo abbandonare la pretesa di essere l’unico canale autentico della manifestazione di Dio; significa stabilire con queste religioni un rapporto che non sia più di emarginazione e di persecuzione ma di dialogo e di collaborazione.

Nasce così il movimento macroecumenico indoafrolatinoamericano , che è appunto l’oggetto centrale della nostra riflessione. Tale  movimento rappresenta  quindi un momento importante della reazione del cristianesimo alla violenza che esso aveva interiorizzato per l’impatto  della  alleanza con l’impero, e pertanto  nella riscoperta della non-violenza evangelica.

            Questa reazione sorge dal punto di vista e dall’indignazione delle vittime coscientizzate e ribelli; si contrappone quindi frontalmente al punto di vista dei conquistatori di ieri e di oggi; ma anche al punto di vista della chiesa istituzionale, che coincide sostanzialmente con quello dei conquistatori. Il punto di vista antagonista degl’indigeni non si riferisce solo alla conquista ma a tutta la storia. Suo asse è la riaffermazione del diritto di autodeterminazione solidale, politica, economica, culturale e religiosa dei popoli oppressi, in una parola del loro diritto all’identità. Questo diritto diventa per essi un’istanza critica della civiltà occidentale, costruita appunto sulla base della violazione sistematica di quel diritto; diventa anche l’asse di un progetto alternativo di civiltà, costruito  sul riconoscimento del diritto di tutti i popoli all’autodeterminazione solidale.

            Debbo,per onestà,aggiungere una precisazione. Il movimento macroecumenico non ha ancora, e io spero non abbia mai, una sua dottrina ufficiale. L’interpretazione che ne propongo, sotto la mia responsabilità, è quella di un teologo della liberazione, coinvolto fin dalle origini  nella pratica del movimento sia nelle sue istanze continentali sia in alcune iniziative locali, per esempio a Cuba, in Nicaragua, in Brasile.

 

Senso del movimento macroecumenico “assemblea del popolo di Dio”

 

Il movimento macroecumenico indoafrolatinoaamericano  sorge ufficialmente  nel settembre del 1992 a Quito-Ecuador, dove si  riunisce il primo incontro continentale dell’”assemblea del popolo di Dio”.Sorge dall’iniziativa di cristiani di base, e per questo si chiama “assemblea del popolo di Dio”, per distinguersi dall’assemblea episcopale che si sarebbe tenuta a Santo Domingo il mese seguente. Si distingue dall’assemblea episcopale, e inoltre  si contrappone ad essa. In effetti,  l’assemblea episcopale di Santo Domingo si iscrive nelle celebrazioni del V Centenario della “prima evangelizzazione” del continente, è anzi, per la chiesa istituzionale il suo momento culminante; l’assemblea del popolo di Dio  si iscrive invece tra le controcelebrazioni.

La conferenza episcopale condivide sulla conquista il punto di vista dei conquistatori.Si muove infatti nella stessa prospettiva della teologia della cristianità che aveva giustificato la conquista. Invece l’assemblea del popolo di Dio, che condivide il punto di vista della resistenza indigena, negra e popolare;  si ispira alla scelta dei popoli oppressi e alla teologia della liberazione.

Al fianco della resistenza indigena, negra e popolare, l’assemblea del popolo di Dio riconosce il diritto dei popoli  all’autodeterminazione non solo politica ed economica, ma anche culturale e religiosa. Condivide la sua critica della civiltà occidentale e il progetto di alternativa che essa persegue. Condivide anche la critica del concetto di evangelizzazione che ha giustificato sia la conquista sia la squalifica delle religioni originarie e afroamericane. Afferma quindi l’urgenza di una contestazione radicale della teologia della cristianità in nome della scelta degli oppressi e delle oppresse come soggetti, e particolarmente di una contestazione dell’esclusivismo religioso che questa teologia rivendica per la chiesa cattolica. Ritiene che questa contestazione impone la rottura dell’alleanza tra il movimento di Gesù ed i poteri oppressori; imponr quindi la riscoperta del messaggio liberatore dello stesso Gesù.

L’assemblea del popolo di Dio riconosce l’autodeterminazione religiosa  dei popoli indigeni e negri non solo come un diritto, ma anche come il fondamento del valore teologico delle religioni che questi popoli sono venuti elaborando nella loro ricerca di Dio.Con queste religioni , il movimento macroecumenico intende stabilire delle relazioni di dialogo, collaborazione, fecondazione mutua ,  in termini di uguaglianza e reciprocità. Si impegna inoltre a collaborare alla riscoperta e rivalutazione delle religioni originarie e afroamericane che per secoli le chiese hanno perseguitato e che spesso stanno ancora perseguitando.

 

Nuovi orizzonti aperti dal movimento macroecumenico all’ecumenismo e alla teologia

 

 In conclusione, il macroecumenismo indoafrolatinoamericano apre all’ecumenismo nuove strade, che possiamo caratterizzare così:

1° Riconosce la validità e fecondità di una relazione ecumenica, in termini di uguaglianza e reciprocità,con religioni non cristiane.

2° E’ un ecumenismo popolare , distinto dall’ecumenismo istituzionale e autonomo rispetto adesso . Il movimento è nato infatti da un’iniziativa delle  basi cristiane   nell’esercizio della loro autonomia. Il suo sviluppo futuro dipende dalla  capacità di iniziativa e di autonomia delle stesse basi e dalla loro capacità di resistenza  alle censure inflitte dalle gerarchie e dal centralismo romano. Il macroecumenismo popolare si distingue da quello istituzionale anzitutto perché stabilisce con le altre religioni rapporti di uguaglianza e reciprocità, mentre  l’istituzione cattolica , anche quando si apre nella pratica ad un nuovo rapporto con le altre religioni e confessioni, mantiene ferma la sua convinzione di essere l’unica religione pienamente vera. L’ecumenismo ed il macroecumenismo che  essa promuove rimangono decisamente romanocentrici.

3° E’ un ecumenismo liberatore. Si definisce infatti come un movimento religioso, ma indissociabile da un’opzione etico-politica liberatrice, che gli impone una decisa autocritica delle alleanze  stipulate lungo la storia di ieri e di oggi dalla sua istituzione di riferimento con poteri oppressori. Anche per  questo  tratto il macroecumenismo popolare si contrappone a quello istituzionale, che prescinde da opzioni politiche ed evita quindi l’autocritica che esse imporrebbero. Il macroecumenismo popolare quindi non intende coinvolgere nella sua apertura tutte le esperienze religiose, ma solo quelle che si si schierano per la liberazione dei popoli oppressi, riconoscendo il loro diritto di autodeterminazione: quanto dire che si autoescludono dal movimento le religioni o i settori religiosi alleati dei poteri oppressori. Rimane però sempre aperta, anche con questi settori, la possibilità di un dialogo fraterno.

Nella storia della teologia, il macroecumenismo indoafrolatinoamericano rappresenta un momento di incontro fecondo fra la teologia del pluralismo religioso e la teologia della liberazione. Queste due correnti si erano sviluppate  storicamente in contesti di versi e in forma autonoma. La teologia del pluralismo religioso , a differenza della teologia della liberazione, non si era preoccupata delle scelte politiche dei credenti. La teologia della liberazione, per parte sua,  si era mantenuta, prima del ’92,  in una prospettiva piuttosto cristianocentrica: il suo era un cristianesimo aperto, liberatore, ma che intendeva mantenere la sua centralità nel progetto di Dio.

Il macroecumenismo indoafrolatinoamericano, ispirato dalla teologia della liberazione,  rappresenta per tanto una svolta anche nella storia di questa teologia, aprendola al riconoscimento delle altre religioni , ad una relazione di fecondazione mutua con esse e orientandola a superare il cristianocentrismo.

 

 

 

IV- IL MACROECUMENISMO POPOLARE HA UN FUTURO IN EUROPA?

 

            Per conferire alla riflessione sul macroecumenismo maggiore concretezza ,mi sembra necessario affrontare questo problema: il movimento macroecumenico, nato nel contesto indoafrolatinoamericano, può essere lanciato in Europa, particolarmente in Italia? Eventualmente, a quali condizioni? con quali interlocutori?

           

Domande che il nuovo  contesto multietnica, multiculturale e multireligioso impone all’impegno macroecumenico dei cristiani           

 

Una prima domanda che tale contesto impone ai cristiani , mi pare, è questa: potrebbe il macroecumenismo dare un contributo specifico  alla soluzione di problemi così cruciali del nostro tempo?Per precisare il senso della domanda , credo necessario distinguere tra lo spirito e il movimento macroecumenico. Mi pare evidente che lo spirito macroecumenico dei cristiani sarebbe un contributo straordinario  all’accoglienza dei nostri fratelli e delle nostre sorelle extracomunitari: contributo ad un’accoglienza  non puramente economica , ma culturale e religiosa; permetterebbe infatti di scoprire le ricchezze di altre culture  e religioni come anche le nuove possibilità dischiuse da questa convivenza  alla ricerca interculturale e interreligiosa. Naturalmente l’efficacia di questo spirito non dipende solo dai cristiani, ma anche dagli interlocutori che essi riusciranno  o non riusciranno a coinvolgere.

Ma la mia domanda vorrebbe andare più in là. Perché mi pare difficile che lo spirito macroecumenico si affermi e si diffonda , che riesca a superare la resistenza di tanti integralismi, se non sorge un movimento  che assuma la diffusione di questo spirito come suo compito specifico.La domanda che sollevo è quindi la seguente: si può pensare in Europa, si può pensare in Italia, alla formazione di un movimento macroecumenico popolare, inteso a diffondere la teoria e la pratica del macroecumenismo, specialmente nelle relazioni fra cristiani e musulmani? Si potrebbe inoltre  tentare di coinvolgere in questo movimento non solo musulmani, ma anche ebrei, creando le condizioni di un dialogo fra di essi?

Per chiarire  il senso del problema, bisogna aggiungere due precisazioni. La prima: interrogarsi sulla possibilità e opportunità di un movimento macroecumenico, non significa puntare su una mobilitazione massiccia. In Europa come in America Latina, un movimento così innovativo e così controcorrente può sorgere solo da iniziative minoritarie, da minoranze profetiche. Minoranze che nel nostro contesto non si formano spontaneamente, ma per qualche provocazione, quale può essere quella del nostro incontro; o per il contagio dell’audacia, acceso, per esempio dalle esperienze indoafrolatinoamericane.

            Altra precisazione necessaria . Stiamo parlando di un macroecumenismo popolare, non istituzionale. Non ci stiamo quindi domandando se esista nelle gerarchie cattoliche ed evangeliche europee la disposizione a promuovere tale movimento: questo mi pare abbastanza improbabile.Ci stiamo domandando se possa sorgere da cristiani di base, cattolici ed evangelici, europei una iniziativa analoga a quella che è sorta in America Latina.

            Quindi per stabilire se il macroecumenismo abbia un futuro in Europa, non dobbiamo domandarci in primo luogo che cosa pensano le gerarchie o i settori progressisti di esse; dobbiamo invece interrogarci  sul livello di autonomia evangelica che le comunitá cristiane hanno raggiunto  o sono in grado di raggiungere , di fronte a questo nuovo appello dello Spirito. Certo, l’appoggio di qualche vescovo progressista, come quello che offre Don Pedro Casaldáliga in America Latina, sarebbe molto utile e incoraggiante. Ma non è questo il centro del problema

Il futuro del macroecumenismo coincide pertanto  con il futuro del cristianesimo popolare, della sua capacità di autonomia, della sua audacia, della sua tensione utopica. Coincide con la sua capacità di svolgere l’impresa appassionante, che si sta tentando in varie parti della chiesa: la riscoperta dei cristianesimi originari e pertanto della realtà storica di Gesù. Questi cristiani in ricerca parlano “dei” cristianesimi originari per evidenziare il pluralismo che segnò fin dalle origini l’eredità di Gesù, prima  che essa venisse inquadrata e sequestrata dall’istituzione ecclesiastica; parlano “dei” cristianesimi originari per valorizzare lo spirito di libertà con cui i primi discepoli interpretarono e adattarono il messaggio del Maestro.

Un movimento macroecumenico europeo sarebbe un contributo alla costruzione di un’Europa che cessi veramente di essere soltanto una comunità economica, un mercato comune, per diventare una comunità di popoli capaci di autodeterminazione e aperta alla solidarietà con tutti gli altri popoli; un ‘Europa che abbandoni il suo complesso di superiorità culturale per aprirsi al contributo fecondo di altre culture.

Lascio la domanda aperta come compito del nostro scambio , ma anche come tema di riflessione e di impegno delle nostre comunità per i prossimi anni.

 

CONCLUSIONI :           Macroecumenismo e teologia della pace

 

 Se le premesse da cui siamo partiti sono valide, il macroecumenismo popolare si impone come un importante capitolo di una teologia della pace.Questo capitolo impone alla teologia della pace di rendere più esplicita la sua presa di posizione nei confronti della teologia della cristianità e della teologia della liberazione.La teologia della pace vuol essere un’applicazione e uno sviluppo della teologia della cristianità , un’applicazione e uno sviluppo della teologia della liberazione oppure una terza via tra queste teologie? Che cosa significa più esattamente la “pace di Cristo”?

Questo nuovo capitolo della teologia della pace impone un profondo ripensamento delle principali categorie teologiche come quella di religione, rivelazione, evangelizzazione, fede, popolo di Dio,;impone in primo luogo un ripensamento del concetto di Dio.

            Desidero appunto concludere questa riflessione tornando sul suo principio ispiratore, il vincolo profondo che lega la scelta di campo per i popoli oppressi e la scoperta dell’Amore Infinito di Dio. Vincolo che considero, per parte mia , anche il  principio ispiratore di una teologia della pace.

            Riconoscere i popoli oppressi come soggetti ci conduce a riscoprire l’amore appassionato di Dio  per tutti e per ciascuno degli uomini, per tutte e ciascuna delle donne, per tutti e ciascuno degli esseri della natura; riscoprire quindi la sua presenza liberatrice in tutti i tempi e in tutti i luoghi della storia.

            Ma perché parliamo di “riscoprire” ? Perché le teologie cristiane avevano coartato Dio, il suo amore e la sua grandezza, entro i limiti angusti delle nostre chiese, delle nostre culture occidentali, delle nostre tradizioni, del nostro libro sacro, della nostra epoca storica. Fuori del mondo occidentale, pensavamo, non c’è salvezza, perché non c’è Dio. Il Dio chiamato cristiano era un padre che dedicava la sua attenzione a una minoranza dei suoi figli, e si disinteressava dell’ immensa maggioranza di essi.

 

            In questo dio non possiamo  più credere. Il Dio nel quale crediamo oggi è più grande del cristianesimo.La sua verità è più ricca della bibbia. Per rivelarsi al mondo,egli non ha un solo cammino, ma infiniti , nessuno dei quali è esclusivo o privilegiato; nessuno dei quali esaurisce l’infinita ricchezza del suo amore. Il vangelo di  Gesù  tornerà ad essere una buona notizia solo se non pretenderà di essere l’unico messaggero dell’Amore, riconoscendo che Dio è più grande. “Dio è più grande” potrebbe essere uno dei nostri motti macroecumenici.

            Da questa nuova prospettiva sorge in noi il desiderio di esplorare le altre strade della manifestazioni di Dio nel mondo, di contemplare i volti di Dio che non conosciamo, di scoprire altre forme della sua presenza amorosa e liberatrice nella storia.

            Ci incoraggia in questa nuova ricerca di Dio la parola di Gesù alla samaritana: “  Credimi , donna, giunge l’ora, ci troviamo già in essa, in cui voi adorerete il Padre senza dover venire al monte Guerizim né andare a Gerusalemme…Viene l’ora, ed è quella che viviamo, in cui i veri adoratori adoreranno il Padre in spirito e verità…Dio è Spirito, e quelli che lo adorano devono adorarlo in spirito e verità.” (Giov. 4, 21-24)

            Così la preoccupazione per l’egemonia del cristianesimo cederà il passo alla preoccupazione per l’egemonia di Dio: del Dio Amore Liberatore di tutti i nomi.