XIV Incontro nazionale Gruppi donne delle CdB

 “Quel divino tra noi leggero” 

Interventi introduttivi

Gruppi Donne Cdb

 Thea gruppo di ricerca teologica al femminile

 

Intervento introduttivo di Doranna Lupi e Carla Galetto per i Gruppi donne delle Cdb

In ‘questo’ mondo impregnato di sacralità: estranee, straniere, ospiti, nomadi, orfane…? Reinterrogare le esperienze a partire da sé

I – Doranna Lupi

Questa nostra introduzione parte dalla richiesta di fare una brevissima presentazione dei cammini percorsi da molte donne delle cdb.

Ci siamo incontrate come gruppo e abbiamo cercato di circoscrivere alcuni punti irrinunciabili per noi e, com’è nostra prassi, saremo in due ad esporvi questi pensieri che, pur tenendo conto del gruppo di cui facciamo parte, abbiamo costruito a partire ciascuna da se.

Visto che il gruppo di Pinerolo è uno dei più vecchi, forse il più vecchio, ci hanno invitate a parlare partendo dalla nostra storia.

Anche se è quasi impossibile tralasciare il legame, lo stretto intreccio esistente tra il nostro percorso e quello dei gruppi di donne appartenenti alle altre comunità, se ciò che ci viene riconosciuto è l’inizio di un percorso comune, anche noi dobbiamo pagare il nostro debito di riconoscenza nei confronti  delle donne che, sporgendosi verso di noi, con la loro presenza, con la loro esperienza con i loro scritti, ci hanno prese per mano e accompagnate per un pezzo di strada.

Un inizio quindi già fortemente connotato da un “NOI”, come si dice nel titolo del nostro convegno :”Un divino tra NOI leggero”

Un noi fluido, in movimento di donne che si interrogano………..

Un noi simbolico di una comunità di donne che nasce e cresce alimentata dal partir da sé in relazione con le altre, per rifondare il divino sulla propria libertà, cercando di ricostituire l’unitarietà di corpo-mente-emozioni e di riappropriarsi della propria parola sul mondo

Ripensando agli inizi, attraverso l’immagine della spirale colorata della creazione e del divenire (così come l’abbiamo disegnata  a Cavoretto ), ritrovo gli incontri con le donne delle comunità di base europee, le amiche olandesi e le amiche di Parigi, i loro viaggi e i nostri , la loro determinazione e autorevolezza, le loro affettuose esortazioni .

 Con loro abbiamo assaporato ciò che Giovanna (in un suo articolo su “il paese delle donne”, riferito al nostro ultimo convegno) definiva “Il piacere dello sconfinamento” attraverso nuovi gesti simbolici e la loro forza evocativa.

In queste relazioni siamo nate e rinate. Con queste donne e grazie a queste donne , nella spirale della creazione e del divenire , abbiamo compiuto(come lo definirebbe Mary Daly) un SALTO QUANTICO  aprendo una crepa attraverso cui era possibile far passare il cambiamento, intraprendere un percorso nuovo, partendo soprattutto da un DESIDERIO RINNOVATO.

Era il 1988, il tempo del nostro convengo “Le scomode figlie di Eva”. Qui la scomodità delle donne era intesa nel senso della loro capacità di rimettere in discussione comportamenti e valori culturali, pratiche e saperi nella società e nelle chiese. Tempo  in cui si muovevano i primi passi verso una nuova consapevolezza femminile. Consapevolezza di una genealogia rimossa e di una istanza di cambiamento fortemente destabilizzante, anche all’interno di realtà come quelle delle comunità di base , già aperte all’innovazione. Ma , a ben vedere, potevamo definirci scomode anche   perché poco comode, perché NON A NOSTRO AGIO  e non solo per la nostra posizione di invisibilità e di marginalità nelle  chiese o nelle istituzioni bensì scomode nei nostri stessi panni. Scomode perché a disagio. Scomode perché ancora impregnate di quel timor di Dio ancora troppo simile al timor del maschio. Scomode, prima ancora che per gli altri , per noi stesse e in noi stesse.

Il nostro percorso si è caratterizzato proprio in questo passaggio cruciale da una fase di riconoscimento del disagio e della scomodità ad un progressivo benessere e agio acquisiti  grazie allo scambio e al sostegno trovato nelle nostre relazioni.

Quell’agio che consente di sostenere, con le altre, la follia della diversità e di affrontare la decostruzione di una impalcatura culturale millenaria opprimente. Quell’agio che favorisce la lenta guarigione da un’immaginario che ci abita, condizionandoci, per lasciare spazio  e aprirsi alla necessità di  nuove immagini, alla necessità di un teologare che, come diceva Elisabeth Green, richiede i  linguaggi del racconto, della parabola, della pittura,della danza, della poesia da cui nasceranno nuovi simboli.

In questo percorso abbiamo sperimentato quanto sia dirompente la socializzazione del desiderio, quanto sia luogo privilegiato  di espressione del divino, della Rhua il vento che soffia, lo spirito che trasforma.

Questo è l’humus di cui si parla nell’introduzione al nostro convegno. Ciò che a diversi livelli, in diversi contesti, al di là delle differenze… le donne possono e vogliono condividere : un divino tra noi leggero come

vento che soffia...brezza che ci rinfresca..., riferimento che ci piace e non ci angustia, una realtà che ci intriga, ma non ci condiziona rigidamente..., un desiderio che ci dona libertà di pensiero e di viaggio.

 

 

Questo  l’humus delle nostre relazioni con le donne olandesi e parigine degli inizi,  l’humus del nostro gruppo donne locale e dei nostri collegamenti nazionali.

Ma anche l’humus ritrovato al Sinodo di Barcellona e poi, in seguito, condiviso nella preparazione di questo convegno a Trento

E’ questo ciò che ci preme condividere con voi al di là di appartenenze e diversità.

Se lasci lo spazio percepisci l’ampiezza diceva Maria Del Vento, una donna della nostra comunità oggi qui presente, ricordando alcuni momenti del nostro percorso, durante la discussione che ha preceduto la stesura del nostro intervento.

Con tutto il rispetto per i tempi di guarigione di ognuna da esperienze spirituali in cui ci siamo sentite tradite e psicologicamente abusate dal potere religioso e dalle tradizionali classificazioni di bene e male di una cultura sessista, è nostro desiderio ritrovare insieme, sostenute dalle nostre relazioni,   l’ampiezza.

Quello spazio vasto , comodo , esteso, “sufficiente per accogliere e riconoscere con consapevolezza, l’improvviso apparire della luce del Significato delle nostre vite”(Giovanna Carlo centro italiano psicologia analitica, interv. XII incontro naz. Donne cdb italiane)

 

II – Carla Galetto

 

Continuando l’intervento di Doranna, io cercherò di mettere in luce alcuni interrogativi a cui ho cercato di rispondere.

Perché abbiamo iniziato questo percorso come gruppo donne e lo abbiamo continuato in questi anni?

 

§       E’ maturata dentro di noi, grazie anche alla relazione con altre donne che avevano già fatto dei passi in questo senso e grazie anche ad alcuni scritti “rivelatori”, la consapevolezza che qualcosa non funzionava, che altri decidevano anche per noi. E’ nato così, lentamente per alcune, prepotentemente per altre, il desiderio di “esserci”, non più per adeguarci a modi maschili di pensare e stare in relazione con Dio, ma a partire da sé.

§       In un cammino in relazione e non solo in solitudine. E’ vero che a volte si prova (io l’ho provato) un senso di solitudine e di isolamento se lo sconfinamento è percepito e vissuto come necessità, ma questo percorso ha un senso più profondo proprio perché vissuto in relazione con altre donne che, come me, osano uscire da un luogo conosciuto, fasciante… cercando di mettere il naso fuori dal guscio.

Questo “noi” segnala un cammino condiviso, sia con donne della propria comunità che con donne di altre realtà. Questa relazione, superando il senso di solitudine e di fatica che potrebbe diventare occasione di abbandono e di rinuncia, produce, di fatto, la possibilità di vivere e sperimentare insieme la gioia e il piacere di questo percorso e il gran senso di libertà che lo accompagna.

A volte ho la sensazione di essere su una barca, in balìa delle correnti, mentre guardo il mare aperto e sconfinato, con i remi in azione e con il cuore colmo di desiderio di andar oltre, di non lasciarmi trascinare dalla corrente, ma di decidere quale debba essere il senso e la direzione della mia vita…

§       Desiderio di libertà: spalancare porte e finestre su nuovi orizzonti. Nei miei pensieri, nella mia esperienza di fede, nel cammino comunitario spesso sento l’esigenza di allargare il campo di ricerca, di aprirmi a sensibilità ed esperienze nuove. Ho ricevuto questi stimoli in modo particolare dalle letture e dall’incontro con teologhe femministe, soprattutto quelle più radicali. Ma desidererei aprirmi di più anche ad altre esperienze diverse dalla mia, dalla nostra spiritualità e fede, dialogare anche con altri percorsi che raccontano e parlano del divino, del sacro, di Dio usando altre immagini e altre metafore. Mi riferisco alla ricerca su volti e nomi per dire dio anche al femminile, alla riscoperta di antiche pratiche cultuali spirituali nel mondo denominato pagano, con il culto della Grande Madre. Ma mi interpellano anche le parole di Luisa Accati, citate da Elisabeth Green durante il nostro ultimo incontro nazionale:

“Il problema per le donne non è costruire una dea o un dio femminile o una madre simbolica anche lei onnipotente uguale e parallela a Dio, ma restituire limiti e dignità morali, valore e pensiero alla corporeità: a partire dalla capacità del corpo materno di distinguere il concepimento basato sulla violenza dal concepimento basato sul’amore… Lungi dall’essere un difetto, non aver mai avuto un dio ginecomorfo è il punto di forza, la lezione storica delle donne: la capacità di rispettare la propria istanza morale senza bisogno di proiezioni onnipotenti di sé”  (“Il mostro e la bella”, pag. 234).

§       Sento l’urgenza di liberare Dio, la nostra fede e la nostra spiritualità, dalle gabbie patriarcali in cui sono stati racchiusi, accogliendo approfondendo, senza pregiudizi, ogni sollecitazione che ci proviene da percorsi di ricerca di donne.

 

Con quali difficoltà dobbiamo fare i conti?

§       Ho avvertito più di una volta l’impressione di essere dentro e fuori della comunità; le nostre comunità di base spesso sperimentano e praticano sconfinamenti anche profondamente trasgressivi (ad esempio sul piano della ricerca teologica, dogmatica ed ecclesiologica) che diventano legittimi e condivisi…

Ma il nostro sconfinamento è più destabilizzante, forse perché va a toccare qualcosa di più profondo, l’immaginario e il simbolico, forse perché denuncia con forza che i testi cosiddetti sacri sono tutti maschili e che l’emarginazione della donna è palpabile, forse perché osa proporre pratiche comunitarie e celebrazioni che si discostano troppo dall’ortodossia…

§       Poi ci sono anche difficoltà con altre donne: alcune sono indifferenti o ritengono marginale questo cammino, altre fanno sì un pezzetto di strada con noi, ma poi non se la sentono di allargare troppo gli orizzonti della ricerca, soprattutto quando sconfinano dalle consuete pratiche comunitarie “miste” e abbandonano la partecipazione al gruppo, altre temono il conflitto… Penso che sia faticoso per tutte uscire dall’ordine simbolico patriarcale, anche e forse soprattutto nel campo della fede ed è necessario un lungo lavoro su di sé per uscire da questo ordine. E forse le occasioni, i tempi e i modi non sono uguali per tutte.

 

Chi legittima questo percorso?

Due sono prioritariamente, per me, i soggetti che mi danno forza e mi incoraggiano in questo cammino:

1)    Al primo posto, c’è questo “noi” che ci mettiamo insieme, tra donne, per partire da noi, dal nostro desiderio profondo, dal nostro stare ai margini, luogo abitato da D**, il/la D** sconfinato/a, come ci diceva Elisabeth Green nell’ultimo nostro incontro, per mettere al primo posto i pensieri, i desideri e gli sguardi delle altre donne che condividono con me questa realtà.

2)    Sono convinta che Dio è amore e non può volere altro che il nostro bene, il nostro agio, vuole che ci sentiamo libere, non costrette, non escluse e subordinate.

Questo mio immaginario di Dio (che non è più UN immaginario, ma un molteplice di immaginari) esprime qualcosa che mi invita alla ricerca di felicità, e quindi mi autorizza a fare questo cammino e io, a questo punto, non sento più il bisogno del riconoscimento né delle chiese, né degli animatori delle comunità, né degli studiosi. Cerco questo riconoscimento, in primo luogo, nelle parole e negli sguardi delle donne, e poi, solo dopo, posso anche stare in relazione con tutto questo variegato mondo: chiesa, chiese, realtà religiosa… ma non più con il senso del dovere o dei sensi di colpa, ma col senso del desiderio.

 

Quando questo percorso di libertà diventa un evento prioritario e irrinunciabile, nasce con forza la fedeltà a questo percorso e io mi sto accorgendo che, almeno per me, c’è un punto di non ritorno. Sono cambiata e non posso, ma soprattutto non voglio, tornare indietro.

 

Intervento di Paola Morini per Thea  gruppo di ricerca teologica al femminile

 

Quando, a partire dal titolo del convegno, abbiamo provato ad interrogarci sulla nostra storia, ci siamo subito imbattute in una parola che ci piace molto: "leggero". Da quest’aggettivo ci siamo sentite rappresentate nel nostro modo di trovarci, di confrontarci al di là d’ogni regola, giudizio o schema istituzionale; un modo che dall’esterno a volte potrebbe apparire caotico ma che a noi sembra solo molto vivo e libero.

Tanto più poi ci è piaciuto l’accostamento "leggero-divino" perché è esattamente l’esperienza di un <divino leggero e accogliente> che ci ha tenute insieme. Per sette anni in due domeniche al mese siamo riuscite ad andare al di là del "comandamento" di santificare le feste ed abbiamo sperimentato la presenza della divinità nello spazio che siamo riuscite a generare per accoglierla; cercando di capire come si può nominare il divino oggi e che rapporto c’è tra il modo in cui lo si dice e il modo in cui lo si vive.

Abbiamo percorso questo cammino, per i primi cinque anni, all’interno del "Centro di educazione permanente alla pace" di Rovereto e l’essere ospiti in questo luogo ci ha indotte a riflettere ogni volta su questo tanto controverso termine : "PACE". Ne abbiamo colto la distanza, l’irraggiungibilità, la manipolazione , la violazione, ma ne abbiamo anche vissuto la presenza e la forza, soprattutto nella sua accezione evangelica di capacità di generare un mondo nuovo. (In questi giorni il sorriso sereno delle due Simona ci è parso quasi l’emblema di questa possibilità.) Negli ultimi due anni ci ha accolte invece la "Sala valdese" di Rovereto e ciò ha reso anche fisicamente evidente il carattere interconfessionale, o meglio aperto, del nostro cammino: una prassi comune, tra donne con percorsi diversi, che ha arricchito la coralità della nostra narrazione del divino e la pluralità del nostro agire.

Ma torniamo al nostro percorso di pace in un mondo in guerra. Più volte ci siamo chieste in che cosa consistesse la nostra "estraneità" come donne e come credenti rispetto alla logica dominante della violenza. Abbiamo cercato di capire da dove fosse possibile trarre la capacità di trasformare e rinominare un simbolico religioso che, nel corso della storia, troppo spesso si è prestato alla manipolazione di un potere che vive se stesso come unico e assoluto. Ci siamo chieste quale fosse la nostra capacità d’ascolto della divinità e ci siamo imbattute nella distanza; la distanza che una storia patriarcale ha costruito tra DIO E LA DONNA, tra L’UMANITÀ E LA NATURA, tra il MONDO E LA PACE. Una distanza che ha avuto bisogno di istituzioni e di ministri per colmare lo iato, che ha fatto del sacro un patrimonio da amministrare anziché un bene da condividere e un limite da rispettare. E ci siamo dette che parlando della DIVINITÀ AL FEMMINILE, vivendola tra noi, facendole spazio, quella distanza andava scomparendo e un po’ alla volta sapeva emergere, nella vicinanza, la sacralità della VITA.

E più vivevamo questa esperienza, più chiara si faceva la sensazione che per molto tempo la sacralità fosse stata nascosta, mascherata, separata dal vivere e al suo posto avessero preso la scena le VERITA’, subito divenute VERITÀ DOMINANTI. Ci siamo dette che forse è stato così che si è imposto il principio astratto, che l’etica è divenuta corollario dell’esercizio del potere, che la vita ha lasciato il posto alle idee e il GIUDIZIO è diventato strumento operativo della costruzione dell’OMOGENEITÀ.

Abbiamo avuto chiaro come da questa costruzione culturale siano venute oppressioni, guerre, roghi e morti, tutto un percorso storico-politico all’interno del quale si colloca dolorosamente la nostra vita.

Oggi ci sembra di poter dire che il percorso intrapreso ci ha condotte a sentire il sacro come presenza, una presenza accolta e rispettata e perciò inevitabilmente sottratta al giudizio. E nel riconoscere che la sacralità sta nella vita stessa ci accorgiamo che essa va al di là dell’etica e della sua volontà di stabilire in modo inequivocabile ciò che è bene e ciò che è male.

 

Per noi oggi la responsabilità etica riconosce il limite del soggetto e del momento, ci rende consapevoli, attraverso l’accettazione di questo limite, del fatto che al centro di tutto c’è sempre quella vita che è stata consegnata a ciascuna di noi come una fiamma da non lasciar spegnere.

Abbiamo anche capito che questa fiamma non può essere consegnata ad altri perché ha bisogno di noi per ardere coinvolgendoci nella sua luce, nel suo calore, nella sua capacità d’incendiare.

Ed è per fare un bel falò, ricco delle sfumature di tutti i colori che siamo qui oggi con voi; forse non illumineremo il mondo, ma sicuramente potremo vivere il calore della sorellanza.