Filippo Gentiloni

 

Benedetto, l'eletto da Karol

 

Da il manifesto 23 aprile 2005

 

Si è avuta la chiara impressione che la prima indicazione di Ratzinger come papa sia stata data proprio da Giovanni Paolo II. Man mano che la sua malattia si aggravava, Wojtyla moltiplicava i gesti e gli incarichi a favore del futuro Benedetto XVI. Una sorta di investitura, come quella del principe ereditario della antiche monarchie. Gli elettori si devono essere trovati inevitabilmente condizionati. Eppure le diversità fra questi due «grandi» del cattolicesimo sono notevoli, come anche le convergenze. Vale la pena di riflettere su entrambe, anche per comprendere meglio il passato e prevedere qualcosa del futuro. Due caratteri ben diversi l'uno dall'altro e soprattutto due maniere diverse di vedere il mondo. Due letture della storia e quindi anche del ruolo della chiesa cattolica nella storia di ieri e di oggi. Semplificando, si può dire ottimista lo sguardo di Giovanni Paolo II, pessimista quello di Benedetto XVI. Il primo era ancora tutto accentrato sulla sconfitta del comunismo. Wojtyla aveva preso parte in prima persona a quella battaglia e viveva di quel «trionfo». Ora la gente avrebbe potuto finalmente rivolgersi a Cristo: lo diceva anche quell'«aprite le porte» gridato subito dopo l'elezione. Lo ripeteva continuamente l'entusiasmo del papa rivolto ai «papaboys».

 

Molto più preoccupato Ratzinger: il mondo va male, la società è in crisi e di questa crisi generale soffre anche la chiesa cattolica. Un altro grande nemico è alle porte, anzi è già parzialmente entrato in casa, il relativismo. Bisogna correre ai ripari prima che sia troppo tardi. E' meglio non aprire ancora di più le porte. E' meglio, invece, chiuderle. Altro che «papaboys»!

 

Se questa analisi è esatta, come mai la convergenza? Come mai Wojtyla voleva che fosse affidata proprio a Ratzinger la barca di Pietro? La risposta non è facile. Si potrebbe, forse, pensare che Wojtyla negli ultimi tempi fosse diventato più pessimista . Non lo credo. Né si può certamente pensare a un parallelo cambiamento da parte di Ratzinger: si veda il suo pessimismo, ad esempio, nel testo firmato recentemente insieme al presidente Pera. Il mondo va verso la rovina: lo conferma, ad esempio, il rifiuto della menzione delle radici cristiane nell'Europa.

 

Forse il motivo della convergenza fra le due visioni della storia va cercato altrove, nella comune convinzione che la salvezza può venire soltanto dal cristianesimo. Una salvezza già in atto per Wojtyla, ancora lontana per Ratzinger. Comunque una salvezza che richiede una chiesa cattolica forte, bene accentrata su Roma. Senza smagliature né incertezze. Senza quelle perplessità dovute anche al Vaticano II.

 

Sulla necessità dell'accentramento «romano» le due visioni si incontrano e si rafforzano vicendevolmente. Se le malattie possono essere diverse, unica è la cura. Unica e indispensabile.

 

Un esempio, da un testo di Ratzinger che avrebbe potuto essere firmato anche da Wojtyla: «Tutti sappiamo quanto il matrimonio e la famiglia siano minacciati: da una parte c'è lo svuotamento della loro indissolubilità ad opera di forme sempre più facili di divorzio, dall'altra si va diffondendo la pratica di una convivenza fra uomo e donna senza la forma giuridica del matrimonio. Al contrario, paradossalmente, gli omosessuali chiedono che sia conferita alle loro unioni una forma giuridica...» («Senza radici», con Marcello Pera, pag. 69).

 

Ratzinger, dunque, in piena continuità con Wojtyla per rinsaldare le sicurezze tradizionali, salvandole dai venti relativistici della modernità.