Tsunami: dove rischia di naufragare la fede

Giulio Girardi (*)

Da Adista n. 8/2005

 

La tragedia del Sud-Est Asiatico sta provocando un'esplosione della coscienza mondiale, il cui oggetto fondamentale è la spaccatura tra il Nord e il Sud . Essa caratterizza il presente ordine mondiale, dominato dagli egoismi e dalla competitività. In effetti, pur nella universalità della tragedia e del suo impatto, non è stato difficile osservare e denunciare il suo carattere discriminatorio. Essa ha infatti sconvolto soprattutto i Paesi poveri, incapaci, per mancanza di mezzi e di tecnologia, di garantire la propria sicurezza. Essa poi ha messo in evidenza il diverso trattamento riservato ai turisti europei e agli abitanti di quei Paesi, il diverso livello di mobilitazione che li ha raggiunti, salvati o abbandonati al loro destino.

La globalizzazione, organizzazione del mondo come "villaggio globale", ha impresso alla tragedia locale un impatto globale. Essa ha provocato, a livello mondiale, una presa di coscienza "in tempo reale" di ciò che sta accadendo a livello locale. Ma essa ha suscitato, allo stesso tempo, una mobilitazione senza precedenti della solidarietà, per cui diventa oggi legittimo parlare di una globalizzazione della solidarietà.

L'irrompere della solidarietà sta cambiando il senso della storia, introducendo in essa un nuovo sistema di valori imperniato appunto sull'autodeterminazione solidale, cioè sul riconoscimento delle persone e dei popoli, di tutte le persone e di tutti i popoli come soggetti.

Ciò che emerge da questa solidarietà è quindi un nuovo ordine mondiale. Essa è la prova provata che il mondo nuovo è possibile e che lo si sta costruendo. Il maremoto non produce solo distruzione, ma contribuisce alla costruzione dell'alternativa. Rimane però che gli oppressi e le oppresse stanno pagando un prezzo troppo alto per un'alternativa in cui probabilmente non vivranno mai, se pure vivranno.

Uno dei grandi temi che polarizzano oggi il mondo della solidarietà con le vittime del maremoto è quello che riguarda il debito estero dei Paesi coinvolti. Nei confronti di questo tema cruciale, la solidarietà si dibatte fra due proposte: moratoria o cancellazione del debito. Due proposte distinte, ma in definitiva convergenti. Perché l'una e l'altra suppongono che il debito esiste, si tratta solo di mitigarne gli effetti letali. Ma il vero problema sta appunto qui, la vera risposta è che il cosiddetto "debito" del Terzo mondo non esiste, è una costruzione ideologica.

Un debito però esiste realmente, ed è quello del Nord nei confronti del Sud, del mondo ricco nei confronti di quello povero. Un debito che riflette il grido degli oppressi e delle oppresse, la loro protesta talora disperata, la denuncia della espropriazione, dell'usurpazione plurisecolare che li ha dissanguati e che permette al capitalismo di celebrare il suo trionfo. Usurpazione delle materie prime, dell'ambiente, dell'acqua potabile, delle culture; del suolo, del sottosuolo e dello spazio aereo.

E allora, come esaltarsi per questa esplosione di solidarietà, che è un semplice dovere di giustizia? Che è una parziale restituzione del mal tolto? Che dovrebbe suscitare nuove dimensioni, della coscienza del peccato e del pentimento?

La nostra ricerca dovrebbe invece assumere un obbiettivo diverso: come pagare il nostro debito storico ai Paesi del Terzo Mondo? Come adempiere il dovere impellente della restituzione?

Riflettendo sulla tragedia che ha sconvolto e continua a sconvolgere il mondo, è difficile evitare di interrogarsi sul ruolo di Dio in questi avvenimenti. È difficile accontentarsi di risposte che nascondono il problema, dicendo che "Dio non c'entra", che sono in gioco soltanto le "cause seconde", l'iniziativa umana, la natura, la tecnologia. Perché è proprio attraverso queste cause che Dio opera nella storia.

Per quanti non credono nella presenza storica di Dio, il problema non si pone: ed è vero che "Dio non c'entra", perché non esiste. Ma, per quanti credono nell'Amore, è difficile che questa fede non venga interrogata, che non venga scossa, forse che non entri in crisi. Essi vedono nella scelta dei poveri l'ispirazione profonda della loro fede, come anche dell'azione di Dio nella storia. Ma allora, come giustificare lo sterminio di cui sono vittime centinaia di migliaia di poveri?

Certo, alcune persone si sono salvate, si considerano miracolate, sono convinte che le loro preghiere siano state esaudite. Ma le altre? Sembra difficile eludere il problema della giustizia di Dio, soffocare le domande che il flagello impone a chiunque cerchi di capire ciò che è accaduto e accade. È forte la tentazione di attribuire la violenza del mare alla "violenza di Dio".

Il catechismo che abbiamo imparato da bambini cercava di rassicurarci: "Dio non può fare il male perché non può volerlo, essendo bontà infinita. Ma lo tollera per lasciare libere le creature, sapendo poi ricavare il bene anche dal male". Si tratta qui a prima vista del male morale, ma è difficile, in un mondo organizzato dall'uomo, non estendere la tolleranza di Dio alle altre forme del male, come la fame, la sete, la malattia, la solitudine, la morte.

Ma forse il Vangelo ci indica un'altra pista di ricerca, il grido di Gesù, "Padre, perché mi hai abbandonato?". Esso rivela un Gesù, che vive l'angoscia del dubbio; che vive la drammatica esperienza dell'abbandono e della solitudine; ma per il quale l'abbandono del Padre convive con la speranza e la certezza della risurrezione. Un cammino certamente difficile da percorrere: ma ne conosciamo altri?

* teologo della liberazione