Enzo Mazzi   

L’emergenza carcere                                

Da la Repubblica-Firenze 6 dicembre 2005

 

Le carceri toscane e in primo luogo Sollicciano sono al collasso. Tutto il sistema penitenziario italiano è “fuori legge”; ma questo non mitiga affatto la durezza del giudizio di illegalità, di incostituzionalità e di inumanità che grava sulla Toscana per il modo come tratta i detenuti ospitati (si fa per dire) nelle sue strutture carcerarie. La culla della cultura umanista non può accettare che migliaia di esseri umani siano trattati peggio delle bestie: costretti a vivere per ventidue ore su ventiquattro ammassati in celle dove a causa del sovraffollamento non resta nemmeno lo spazio per stare in piedi, alimentati con vitto approssimativo, impediti di accedere alle più elementari cure mediche, imbottiti di psicofarmaci. E questo non è ancora il peggio. C’è il forte sospetto, e forse più che un sospetto, che a Sollicciano negli ultimi tempi si pratichino pestaggi di detenuti per gestire con l’intimidazione violenta una situazione che rischia di sfuggire di mano.

I fatti. In ottobre i detenuti del carcere di Sollicciano iniziano uno sciopero: rifiutano il cosiddetto sopravvitto e l’ora d’aria, contro le condizioni di detenzione che hanno ormai raggiunto un grado estremo di intollerabilità. Partecipa alla protesta e ne conferma i motivi il Garante dei diritti dei detenuti del Comune di Firenze, Franco Corleone, iniziando lo sciopero della fame a cui in tanti aderiamo con un digiuno a staffetta. Nulla si muove. Anzi la situazione degenera sempre più. In novembre la protesta dei detenuti assume forme più visibili all’esterno, specialmente con la battitura delle sbarre nelle ore serali. Per dicembre è prevista la ostensione delle lenzuola dalle finestre. Il movimento di solidarietà si allarga. Si fanno sit-in davanti al carcere. Alcuni politici si muovono. I media incominciano a rompere il silenzio e a informare sul problema. E’ a partire da questo allargarsi del movimento cittadino di attenzione se non di solidarietà, che scatta il meccanismo difensivo del sistema carcerario. Si teme la saldatura fra il dentro e il fuori. Ma anziché rimuovere le cause della protesta si cerca di spengerla sia con le intimidazioni violente sia anche con le blandizie verso i detenuti.

I sospetti. Vari indizi rendono plausibile, se non certo, il fatto che nel mese di novembre diversi detenuti sono stati picchiati per indurli a desistere dalla protesta. Lo stesso scopo è stato perseguito attraverso promesse di permessi premio e concessioni dei codici fiscali necessari per poter lavorare. Come il serpente che si morde la coda, chi ha subito percosse viene ulteriormente minacciato di subire altre più pesanti vessazioni nel caso che denunci le violenze di cui è stato oggetto e al tempo stesso viene blandito con le solite promesse se accetta di tacere. Sembra che una decina di detenuti picchiati o testimoni di pestaggi siano stati indotti in vario modo a firmare una lettera in cui smentiscono le notizie di fatti di violenza. Di fatto la protesta si è davvero spenta. Niente più scioperi, niente lenzuola dalle finestre. Nonostante che la legge ex-Cirielli faccia temere un aumento ulteriore del numero dei detenuti e quindi un aggravamento delle condizioni di vita, se si può chiamare vita quella dei carcerati.

Gli indizi. La situazione che abbiamo descritta rende difficile l’accertamento della reale gravità dei fatti. Le vittime, o terrorizzate o blandite, non parlano apertamente. Sussurrano sottobanco con operatori sociali ma non osano venire allo scoperto. Non possono però nascondere i segni fisici delle percosse.

E la città che fa? Dorme, salvo un piccolo movimento che si è allargato ma resta marginale. Le sue prese di posizione sono responsabili e caute per il pericolo che ogni denuncia non solo cada nel vuoto ma si ritorca contro le vittime. Eppure non si può tacere. C’è il forte sospetto che la sofferenza dei carcerati sia come un tranquillante per una società impaurita e insicura. Un sedativo usato spregiudicatamente dal sistema di potere. Un po’ come una pena di morte a lenta uccisione. Invece che la iniezione letale tutta in una volta, tante piccole dosi quotidiane. Il meccanismo infernale non è certo di oggi. E non è astratta teoria di psicologia sociale. Personalmente l’ho scoperto molti anni fa avvicinando le esperienze dei dimessi da carcere che affollavano la casa canonica parrocchiale dell’Isolotto negli anni ’60 e contribuivano a rendere viva la comunità. Ed ora tale meccanismo è confermato da una vicinanza col carcere sempre troppo labile e incerta per le necessità. La sofferenza del carcere, come la pena di morte, non diminuisce affatto i delitti. Lo sanno tutti. Ma rassicura la massa dei cittadini. Più pena c’è nel carcere meno pena nella società. Questo non attenua il significato e la spinta della lotta contro la pena di morte. Anzi rende tale lotta ancor più credibile includendo nella condanna anche l’inutile e degradante inumanità dell’attuale trattamento carcerario. La privazione della libertà come giusta pena per le violazioni della legge dovrebbe avere un carattere rieducativo e non un significato di violenza sacrificale. E’ il dettato costituzionale che lo dice. Che qualcuno che conta finalmente si muova.