Papa boys o comunità?

Enzo Mazzi

Da l’Unità17 aprile 2005

 

Non intendo giudicare i sentimenti delle singole persone che hanno accompagnato il papa nella lunga agonia e nella morte, con veglie, faticosi viaggi a Roma, eroiche code per salutare la salma e per i funerali.

Non posso però ignorare il fatto che c’è molta sofferenza nel mondo cristiano e nella stessa chiesa cattolica per il significato complessivo di spregiudicata esibizione di potere mondano che ha assunto specialmente questa fase finale del pontificato wojtyliano. Può sembrare paradossale, ma la stessa esibizione on line, senza risparmio di sfoggio mediatico, della sofferenza e della morte di Wojtya è profezia moderna di un cristianesimo trionfante, religione della croce ma in quanto essa è un simbolo vincente: “in hoc signo vinces”. In quel tipo di profezia, priva del senso del limite, lontana dalla profezia evangelica povera e senza potere, molta parte dei cattolici non si riconosce più.

Nel 1989, ai funerali di Khomeini parteciparono cinque o sei milioni di persone. Si può dire, senza rischiare un certo razzismo, che quelli erano fanatici, a differenza della folla romana di questi giorni?

Forse l’attenzione non va posta tanto alla massificazione che si ripete, quanto alla nascita nonostante tutto di nuove forme di autonomia, creatività e socialità comunitaria oltre i confini che sono disattese dai media ma costituiscono il bandolo del futuro. E’ la chiesa viva oltre la Chiesa papale. E’ la società viva oltre la globalizzazione omologante.

E siamo al tema della comunità.

E’ proprio a partire da esperienze comunitarie oltre i confini, le quali dal dopoguerra si dipanano via via in vario modo in tutto il mondo pur con tante difficoltà e contraddizioni, che è avvenuta la trasformazione fondamentale assunta dal Concilio. Nei documenti conciliari il “Popolo di Dio” è stato posto al Centro della Chiesa ed è stata tolta la centralità delle gerarchia, dei ruoli, dei ministeri. Qualcuno l’ha chiamata giustamente rivoluzione copernicana. Poi però questa centralità nuova è stata disattesa, perché il Concilio non ha dato gli strumenti pratici, strutturali, per realizzare una tale rivoluzione; è stata una rivoluzione di parole, non di fatti. Il Concilio ha lasciato un vuoto. Questo vuoto però si è riempito di esperienze di base. Le quali a loro volta hanno cozzato contro un muro; pensiamo alle comunità di base latinoamericane, così fiorenti nei decenni ‘70-’80 del novecento, ed ora in gran parte disgregate, quasi annullate da una repressione feroce. E al posto delle comunità vennero i “papa boys”.

Tale rivoluzione conciliare, però, non è stata e non è un fatto tutto interno alla chiesa, non è una sciaguattata nell’acquasantiera. Perché si inserisce in un processo storico e culturale rivoluzionario di lunga lena. Si tratta della riscoperta e del recupero di un aspetto della modernità che è stato disatteso: l’umanesimo globale. Perché la modernità nasce dal bisogno di instaurare rapporti nuovi emancipati dal dominio feudale; nasce da un processo storico che avrebbe potuto porre al centro della società e dei suoi ordinamenti l’uomo, tutto l’essere umano, desacralizzando e demitizzando il potere. E venne invece la centralità esclusiva della mente dell’uomo, “penso dunque sono”. E venne il dominio dell’individuo, l’assolutizzazione dei bisogni individuali, la guerra di tutti contro tutti per soddisfare tali bisogni, la creazione di istituzioni nuove, di ordinamenti nuovi frutto però sempre di una parte sola dell’essere umano, la mente calcolante e ordinatrice. I roghi dei maghi e delle streghe, che bruciarono forse a milioni in Europa fino alla fine del Settecento, e il genocidio in Africa e nelle Americhe dei popoli indigeni e in Asia dei popoli di cultura sciamanica ad opera della colonizzaziione russa furono il prezzo e il sacrificio necessario per l’intronizzazione della mente umana. L’addio al vecchio mito produsse un mito nuovo: il dominio assoluto dell’individuo sulla società, sulle relazioni, sulla natura, sulla vita.

La rivoluzione copernicana della Chiesa, di cui abbiamo parlato sopra, conviene ribadirlo, non è dunque questione solo ecclesiastica. Si lega a un bisogno sentito a livello generale della società mondiale: recuperare la modernità alla centralità delle relazioni. Se c’è una radice profonda del liberismo da sradicare è l’individualismo competitivo. E non si sradica a parole. Un mondo nuovo non ce lo regala la lotta di tutti contro tutti che è alla base della moderna società mercantile liberista. Una nuova società ha bisogno di esperienze comunitarie.

Mi rendo conto che qui c’è il rischio di un grave fraintendimento. Quasi che la comunità fosse in opposizione alla individualità. Dalla cultura della soggettività individuale e dallo statuto dei diritti individuali non si può tornare indietro. Qualcuno, ad esempio il giurista Pietro Barcellona, ha coniato una espressione come titolo di un suo libro: “L’individuo sociale”. “La modernità – egli scrive – si è fondata su una pretesa autocostituzione dell’individuo come atomo senza legami sociali e sul controllo degli affetti da parte della ragione calcolante. Ma se fosse solo una fantasia di onnipotenza? C’è un legame che unisce l’ “io” al “noi”? Molte sono le domande che si affacciano alla nostra modernità … scoprendo la dimensione sociale dell’individualità (l’individuo sociale) finora negata e occultata dalla logica identitaria dell’universalismo astratto del mercato e del diritto formale”.

E’ dunque molto pregnante di attualità il tema dell’Incontro nazionale delle comunità cristiane di base italiane che si svolgerà a Chianciano Terme nei giorni 23-25 aprile prossimi: “Comunità: segni di convivialità  nella storia: percorsi conciliari a 40 anni dal Vaticano II”. Si tratterà di un confronto aperto fra una quantità di esperienze in vario modo comunitarie sia di tipo ecclesiale che laico.