Enzo Mazzi

 

Fra Martino dentro la fabbrica

 

Da l’Unità 23 ottobre 2005

 

Un francescano operaio-prete che scelse di stare a fianco dei “minores”, dei lavoratori e che quando gli venne imposto di rientrare in convento, si rifiutò e venne espulso dall’Ordine. In un libro, "Mai dire fine", la sua storia

 

“Mai dire fine” è un inno alla vita. E’ molto bello e intrigante questo titolo del libro postumo di Martino Morganti, frate che insieme ad altri confratelli ha scelto la fraternità della strada per realizzare l’ideale francescano (Ed. Il pozzo di Giacobbe, Trapani, 2005). E’ uno sporgersi ardito alla speranza, come dice il sottotitolo. La Comunità di base di piazza del Luogo Pio di Livorno, curatrice della pubblicazione, ci dice nella Introduzione che “Mai dire fine” è una frase nata nella testa di lui. L’aveva pensata come titolo di un volumetto che un paio di mesi prima della morte stava preparando per raccogliere alcune sue “Lettere ai nipoti” provenienti dalla collaborazione mensile con il periodico torinese Tempi di fraternità.

E’ certamente una pretesa credere di aver capito il senso che aveva per Martino quella frase. Ma ritengo che la comprensione della profondità espressa da quel titolo si sveli dopo la lettura del libro. E magari dopo averlo riletto, come è accaduto a me, avvinto da temi ed esperienze intriganti. M’intrattengo un po’ sul significato del titolo perché credo che costituisca uno degli snodi più intimi della esperienza e del pensiero dell’autore. Uno snodo, non so come altrimenti chiamarlo, complesso e aggrovigliato ma molto fecondo.

Le contraddizioni. E’ vero che quel motto è un inno alla vita, ma a quale senso della vita? Perché ci sono modi diversi e anche opposti di dare senso alla vita. Si può pensare la vita, nelle forme individuali in cui si realizza, come realtà che in sé sarebbe immortale e che invece purtroppo ha una fine senza scampo, un annullamento funesto. La morte: un evento tragico dovuto non alla essenza vera della vita ma piuttosto causato dal male, dal peccato, da una punizione divina: “…Per mezzo di un solo uomo il peccato entrò nel cosmo e a causa del peccato la morte” (Paolo ai Romani 5,12). E non è solo all’interno delle culture religiose che cova questo senso della fine tragica come condanna a morte della vita. Si annida anche nelle culture laiche. La fine della vita è vista laicamente non più come punizione divina ma come frutto di un destino malvagio, una insensatezza che sfugge radicalmente e per sempre alla nostra comprensione. C’è anche chi considera la fine della vita come esito dovuto a cause contingenti che sono sfuggite fino ad oggi al nostro potere ma che un domani possono essere vinte rendendo immortale la nostra individualità. In ogni caso, sia nelle religioni sia nelle culture laiche sia nel sentire comune predomina una visione della morte come realtà a sé, separata dalla vita, contrapposta alla vita, nemica della vita. E’ in conseguenza di una tale separatezza e contrapposizione fra la morte e la vita che si assolutizzano ambedue: la vita da un lato come bene assoluto e la morte dall’altro come male assoluto. E’ in nome di una tale contrapposizione che non solo si nega l’eutanasia ma si fa di tutto, proprio di tutto, per prolungare la vita anche a costo di sofferenze indicibili e non di rado lesinando le cure palliative. E’ in nome di tale contrapposizione che si colpevolizzano come assassine le donne che abortiscono e si dà un carattere restrittivo e punitivo alla legislazione sulla procreazione assistita. E però è sempre in nome di tale contrapposizione, per affermare i propri interessi vitali, che si legittima la rapina liberista ed è per difendere la vita propria o la sacra vita della patria, che si legittima la violenza, la pena di morte e infine la guerra.

In tale orizzonte, “Mai dire fine” significherebbe tendere a sconfiggere definitivamente la morte nemica assoluta e riportare la vita alla sua essenza di assoluto separato dalla finitezza.

E’ questo che intendeva Martino? Leggendo e rileggendo, mi sembra di poter dire che egli si era in gran parte liberato da questa cultura contrappositiva.

Considerava la finitezza come l’essenza stessa vita. “Mai dire fine” per lui aveva un significato di continuità trasformatrice, di vitalità cosmica in perenne divenire, non di assolutizzazione ed eternizzazione del già dato, del già realizzato, del già edito. “Non penso alla morte”, scrive nella poesia che dai curatori è stata posta con tanta sensibilità e intelligenza all’inizio del volume. E di nuovo siamo nel pieno della contraddizione. “Non pensare” può voler dire rimuovere. Rimuovere la finitezza e pensare la vita senza fine. Pensare la vita come assoluto, come eterno (destinato all’eternità beata o dannata) e pensare la morte come condanna, nemica della vita, da rimuovere mentalmente e anche fisicamente finché possibile.

“Non penso alla morte” per Martino è ben altro. Nella premessa che egli aveva scritto per il volumetto che come si è detto stava preparando, pubblicata ora a pagina 35, egli spiega il perché del titolo “Mai dire fine”, giocando, come gli era congeniale, sul duplice significato della parola “fine”: “Scommetto sul fine a dispetto della fine. …La fine è brutta, funerea: segna il punto o il momento in cui qualcosa o qualcuno termina. Il fine è bello, arioso: propone uno scopo, un obiettivo; apre e sostiene la continuità”. E fin qui siamo ancora nell’incertezza nebbiosa del senso. Quando si dice groviglio… Ma poi il pensiero si rischiara e si dipana. “Non trascurabile – egli scrive - un’ipotesi buonista: che questa spartizione sia stata programmata in vista di un matrimonio nel quale la fine, accasandosi appunto con il fine, cessi di essere terminale e diventi misterioso consegnarsi ad altri prosegui”. E’ letterariamente bella questa immagine del matrimonio fra vita e morte. Ma soprattutto è vera, di quella verità trasparente, luminosa, capace di dare una svolta al cammino umano storico ed esistenziale. Dalla morte nemica della vita, alla morte sposa amata della vita, “sorella morte” per Francesco d’Assisi, tanto amata da scomparire quasi nell’abbraccio con la vita (“Non penso alla morte” – citato sopra). Devo continuare nella citazione di una riflessione che può apparire filosofica ma è invece esperienziale e mistica. Forse se non sbaglio una delle ultime riflessioni di una vita spesa a cercare la sapienza nelle cose vere: la condivisione del pane, del lavoro, della strada, della fatica di vivere oltre i confini dell’appartenenza e dell’omologazione. “Un matrimonio garantito – scrive ancora Martino -. Cosicché la fine non è mai in nessun caso legata definitivamente al suo zittellaggio, al suo essere priva de il fine. Tanto da rendere la fine vocabolo improprio almeno quando pretenda di indicare il definitivo, il senza seguito. Già: la fine termine improprio. Troppo bello per essere vero? O troppo bello per essere dimostrabile? Più facile dimostrare il contrario. La bara sembra sufficiente ad irridere: ciò che essa accoglie, incassa e sigilla, è fine accertata. Ma la bara che certifica senza possibilità di dubbi una morte è in grado di attestare la morte? La bara ignora troppe cose. La bara non ha letto Lao Tse: ‘Ciò che il bruco chiama fine del mondo, il resto del mondo chiama farfalla’ ”.

Dicevo all’inizio che questo tema della finitezza dell’esistenza è uno degli snodi più profondi del pensiero di Martino.

Sono convinto che da lì, da quella scaturigine sapienziale, si dipartono le scelte più impegnative della sua vita: la scelta della fraternità francescana, la scelta della fraternità della strada oltre il convento, conforme alla vita dei “minores”, in mezzo ai lavoratori, ai laici, ai poveri, la scelta del lavoro in fabrrica, la scelta della comunità di base e delle comunità di base.

Nel libro queste relazioni ci sono tutte. Sembrano meno presenti le relazioni intessute nella fabbrica. Ne parla poco. A differenza, mi pare, dei “preti operai” che riflettono apertamente sulle loro esperienze di lavoro. L’esperienza di Martino si potrebbe forse definire come quella di un “operaio prete”, dove l’accento è sul termine operaio, piuttosto che quella di un “prete operaio” dove invece si marca di più la missione di prete vissuta in ambiente operaio, facendosi operaio. Mi sono interrogato. Anch’io in fondo non parlo molto delle mie esperienze di inserimento nel mondo del lavoro come operaio. Eppure sono esperienze che hanno lasciato in me il segno e quale segno. Forse è pudore. Forse è bisogno di non enfatizzare una scelta, quella del lavoro, che per molti è una norma se non una condanna e che invece per un prete si presta ad essere mitizzata come scelta eroica. Che sia così anche per Martino lo fa ben intendere lui stesso, mi sembra, nella risposta al Ministro Provinciale toscano dell’Ordine francescano che nel 1996 gli aveva imposto di rientrare nella fraternità del convento, abbandonando la fraternità della strada, pena l’espulsione dall’Ordine (pag. 247). L’operaio-prete non accetta il rientro in convento come un “tornare a casa”. In nome dell’appartenenza al clero (prete o frate) non può rinunciare all’appartenenza alla strada che considera primaria proprio in nome della conformità all’ideale francescano dell’inserimento fra i “minori” della società. Così scrive testualmente nella risposta al Provinciale dell’Ordine francescano: “Cosa la Provincia mi ha (ci ha) chiesto e richiesto che non avesse il senso di un … ritorno a casa? …Comunque sempre un chiedermi un “sì” al prezzo di un non irrilevante “no”: all’inserimento tra i “minori” della società; alla convergenza comunitaria che stava crescendo in franchezza evangelica; alla fabbrica alla quale avrei dovuto confessare di starci in temporanea incursione e non, come tutti, in faticosa condizione di vita”. Come non può contrapporre vita e morte così non accetta di contrapporre fraternità francescana e fraternità della strada e della fabbrica. E’ questa la sua coerenza che scorre limpida nel libro come nella sua vita. La si ritrova nella descrizione poetica con cui il libro si apre, quella del citato sopra “Non penso alla morte”: “Ogni segno di vita mi stupisce: una foglia in più è stordimento massimo. Lo stordimento del veder nascere senza capire come possa esserci nascita, vita. E della foglia in più so anche meno del nulla che so di me”.