Luigi Sandri

 

editoriale de "L'Adige"

 

- 8 luglio 2007

 

La volontà papale di “liberalizzare” la messa così come la si celebrava prima della riforma voluta dal Concilio Vaticano II, decisione contenuta nel motu proprio “Summorum Pontificum” pubblicato ieri, e accompagnata da una lettera di spiegazioni dello stesso Benedetto XVI, apre questioni storiche, ecclesiali e teologiche che vanno ben al di là della “messa in latino”.

     Per attuare, in campo liturgico, le conclusioni, sette anni prima, del Concilio di Trento, nel 1570 papa Pio V emanò il “Missale romanum” che conteneva appunto, in latino, il testo per la celebrazione dell’Eucaristia (e di altri sacramenti). Il testo uniformava per tutta la Chiesa latina il rito della messa: un rito che rimase poi praticamente immutato per quattro secoli. Mentre stava aprendosi il Concilio Vaticano II, Giovanni XXIII, nel 1962, emanò l’ultima edizione del “Missale” che conteneva immutata la messa e gli altri riti “tridentini”; con una eccezione, però: nella grande preghiera del Venerdì santo non si pregava più, come si faceva da secoli, “pro perfidis judaeis” (per i perfidi giudei), ma solo “pro judaeis” perché nel ’59 lo stesso papa Roncalli aveva fatto cancellare quell’aggettivo conturbante, “perfidis”.

     In attuazione della riforma della quale il Vaticano II dettò le grandi linee senza scendere nei dettagli, Paolo VI nel 1970 riformò la liturgia: non solo, al posto del latino, ammise nei riti le lingue “volgari” – cioè quelle parlate dai vari popoli – ma modificò, spesso, la loro stessa formulazione. In tale contesto il “Missale romanum” di Pio V, ribadito fino a Giovanni XXIII, fu di fatto messo fuori uso.

     Oltre all’introduzione della lingua “volgare” da tutti comprensibile, il cambiamento più evidente indotto dalla riforma di Paolo VI, fu, per la gente, la celebrazione della messa con l’altare posto di fronte al popolo, e non più in fondo all’abside, e con il prete che celebrava guardando la gente, e non voltando ad essa le spalle. Una riforma accolta in generale con favore in tutto il mondo cattolico; ma non da mons. Marcel Lefebvre e dai “tradizionalisti” suoi seguaci. Secondo il vescovo francese, infatti, la “nuova messa” di Paolo VI aveva sapore “protestante”; ed egli, per difendere “la Chiesa di sempre”, per “salvare la Tradizione”, e mantenere una opposizione organica alle decisioni di Roma, nel 1988 consacrò quattro vescovi; fu perciò scomunicato da Giovanni Paolo II. Lo stesso pontefice, tuttavia, permise che nelle diocesi del mondo, a certe precise condizioni, fosse ammesso l’uso del “Missale romanum” del 1962.

     Che ha innovato, adesso, papa Ratzinger? Ha deciso che il messale promulgato da Paolo VI nel 1970 è la via “ordinaria” per la preghiera liturgica della Chiesa latina; accanto ad essa, e con pari dignità, vi è però, da oggi, la via “straordinaria” legata al Messale promulgato da Pio V. Nelle messe private ogni sacerdote, aggiunge il papa, potrà scegliere quale “rito” usare, senza dover chiedere il permesso al vescovo. Viene dunque “liberalizzata” al massimo la “Missa tridentina”. Se in una parrocchia “vi è un gruppo stabile di fedeli aderenti alla precedente [quella di Pio V] tradizione liturgica”, il parroco deve provvedere a celebrare per loro, secondo il messale “antico”, messe, e anche matrimoni e funerali.

     Quando, nell’autunno scorso, fu noto che il pontefice stava per varare le norme ora diffuse, la Conferenza episcopale francese espresse le sue motivate riserve: si domandò ove fosse l’urgenza pastorale di tale provvedimento e, soprattutto, si interrogò se, volendo venire incontro a tutti i costi ai desideri dei “lefebvriani”, non si finisse per assestare un colpo al Concilio Vaticano II.

     La questione, è bene chiarire, non è “la messa in latino”; ma “quale messa”. Infatti, esiste ovviamente il testo latino della riforma voluta da Paolo VI; ma i “tradizionalisti” non l’accettano, essendo essa – sostengono – inficiata di idee teologiche pericolose. In realtà, essi rifiutano il Concilio Vaticano II, del quale la riforma liturgica è il frutto più evidente per la gente.

Perciò la domanda che ora si pongono diversi storici della Chiesa, liturgisti e teologi: non è che il motu proprio di Benedetto XVI fa traballare il Vaticano II? L’obiezione se la pone lo stesso pontefice, nella lettera di accompagnamento della “Summorum pontificum”. Egli ammette: “Vi è il timore che venga intaccata l’autorità del Concilio Vaticano II e che una delle sue decisioni essenziali – la riforma liturgica – venga messa in dubbio”. Il pontefice sostiene però che “tale timore è infondato”; ma il suo appare più un auspicio che un ragionamento convincente.

     Lo stesso Ratzinger spiega poi la ragione ultima che lo ha indotto ad una mossa rischiosa: la volontà di giungere “ad una riconciliazione interna al seno della Chiesa”, tra i cattolici legati alla messa di Pio V, e quelli fedeli alla riforma di papa Montini. Egli loda la riforma del 1970, ma poi indirettamente – ma duramente – l’attacca, quando precisa: “Nella storia della liturgia c’è crescita e progresso, ma nessuna rottura. Ciò che per le generazioni anteriori era sacro, anche per noi resta sacro e grande, e non può essere improvvisamente del tutto proibito, o addirittura, giudicato dannoso”. E’ raro, nella storia della Chiesa romana, che un pontefice prende così apertamente le distanze da un suo recente predecessore.

     Il documento di Benedetto XVI appare problematico anche dal punto di vista pastorale: a quarant’anni dalla riforma di Paolo VI, non erano sufficienti – avevano detto anche i vescovi francesi – le eccezioni ammesse da papa Wojtyla, per aiutare le persone (quante saranno poi, nel mondo d’oggi?) che non possono sentire messa se non nel rito tridentino? E, ancora, chi deciderà – visto che il motu proprio non lo fa – il “quorum” richiesto perché un gruppo, in una parrocchia, possa pretendere la messa tridentina? Cinque persone, sette, nove… trenta? Che, su una questione così delicata, sia stata lasciata tanta incertezza giuridica sembra il segno della debolezza teologica dell’impianto generale del documento ratzingeriano.

[Luigi Sandri]