Luigi Sandri

L'amore secondo papa Ratzinger

L'Adige 26 gennaio 2006

 

Riaffermare il primato di Dio, e di Dio-Amore (come ha fatto Benedetto XVI nella sua prima enciclica, Deus caritas est, firmata il giorno di Natale, ma pubblicata ieri) significa mettere in evidenza il fulcro del compito dei cristiani nel mondo e, nel contempo, fissare l’ancoraggio profondo del pontificato di Joseph Ratzinger, salito sulla cattedra di Pietro il 19 aprile 2005.

       La prima enciclica rappresenta quasi il “manifesto” che indica le linee portanti del programma pastorale del nuovo vescovo di Roma e sommo pontefice dell’intera Chiesa cattolica. Ma la Deus caritas est (“Dio è amore”, in latino, una frase presa dalla I lettera di Giovanni), sembra fare eccezione alla regola, perché essa non indica le scelte con le quali vorrebbe caratterizzarsi il nuovo pontificato ma, piuttosto, il quadro biblico, teologico e pastorale in cui intende muoversi.

      Senza poter qui sintetizzare un volumetto di 74 pagine, indichiamo alcuni passaggi, alcune prospettive, e alcuni silenzi che, a nostro parere, sono di particolare rilievo. Il papa analizza, dal punto di vista filosofico e teologico, il concetto di amore, espresso con la parola eros, familiare nella cultura greca e latina – quella che si trovò ad affrontare la Chiesa nascente – e, nelle Scritture, anche con agape: potremmo definire il primo termine come passione amorosa, e il secondo come dedizione fedele e devota. Ratzinger riconosce che «il termine amore è oggi diventato una delle parole più usate ed anche abusate»; è dunque possibile parlare, in modo convincente, di amore? Sì, risponde.

     È Dio all’origine dell’amore – sottolinea l’enciclica – e il Padre per amore ha inviato il Figlio «che tanto ha amato il mondo». L’amore umano – soprattutto quello archetipo tra uomo e donna «che nel matrimonio monogamico, basato su un amore esclusivo e definitivo, diventa l’icona del rapporto di Dio con il suo popolo, e viceversa» – è possibile; ma esso, per esprimersi compiutamente, deve saldare in modo equilibrato eros e agape, ed essere poi consapevole della sua fragilità e della sua intrinseca finitudine, che solo Dio-Amore può superare e colmare.

      Benedetto XVI ricorda una obiezione ben espressa, nell’Ottocento, da un pensatore: «Il cristianesimo, secondo Friedrich Nietzsche, avrebbe dato da bere del veleno all’eros che, pur non morendone, ne avrebbe tratto la spinta a degenerare in vizio. Con ciò il filosofo tedesco esprimeva una percezione molto diffusa: la Chiesa con i suoi comandamenti e divieti non ci rende forse amara la cosa più bella della vita?». Ma, poi, il papa respinge l’obiezione; e sostiene che, mettendo in guardia «dall’eros degradato a puro sesso, a merce, a semplice cosa che si può comprare e vendere», e legandolo invece all’agape, «che è scoperta dell’altro, e superamento del carattere egoistico prima chiaramente dominante», il Cristianesimo ha reso un servizio al vero amore.

     In queste parole vi è una parte di verità ma – così almeno ci sembra – non tutta la verità. In effetti, molti storici e, da un paio di decenni, soprattutto le teologhe femministe, hanno messo in risalto come la teologia e la pastorale della Chiesa (di tutte le Chiese, ma qui ci occupiamo di una tra esse, quella cattolica romana) siano intrise, anche, di una visione negativa della donna, vista spesso come subdola «tentatrice»: un’Eva che insidia Adamo e infine lo fa peccare avviluppandolo nelle spire di eros. Né si può dimenticare l’ondata tremenda che, dal 1400 al 1600, ha percorso tutte le Chiese (la cattolica, e quelle nate dalla Riforma), spingendo ad una «caccia alle streghe» che ha portato alla morte migliaia di donne innocenti. E, ancora, è difficile sottovalutare i pesi imposti sulle coscienze dei giovani, e dei coniugi, da certe normative del magistero ecclesiastico in materia di etica sessuale; normative figlie di una certa mentalità, gravate da una certa cultura, ma non rintracciabili nell’Evangelo di Cristo. E, tuttavia, per secoli martellate e presentate come comando divino.

      Se il «buon samaritano” citato da Gesù è – nota il papa – il paradigma dell’agire del cristiano, ne deriva una conseguenza: se Dio mi ama, Egli ama anche il mio prossimo; dunque io debbo aprire il mio cuore, e la mia solidarietà, a chi bussa alla mia porta. Del resto, aggiunge l’enciclica, «nell’Eucaristia l’agape di Dio viene a noi corporalmente per continuare il suo operare in noi e attraverso di noi. Un’Eucaristia che non si traduca in amore concretamente praticato è in se stessa frammentata ». Parole sulle quali potrebbero meditare quei cristiani che ritengono di salvarsi l’anima comunicandosi spesso, ma evitando poi di condividere il pane quotidiano con chi è nel bisogno.

      Nella sua seconda parte l’enciclica affronta le questioni legate alla organizzazione della carità e dell’assistenza, da parte delle variegate strutture della Chiesa cattolica romana. Enormi sono i problemi sociali che incombono sul mondo, dice Ratzinger, aggiungendo che «è svanito il sogno del marxismo, che aveva indicato nella rivoluzione mondiale la panacea per la problematica sociale». Oggi, aggiunge, «ci troviamo in una situazione difficile anche a causa della globalizzazione dell’economia», ma non cita espressamente le responsabilità del liberalismo e del capitalismo.

     Comunque, chi deve risolvere i problemi sociali? «La Chiesa non può e non deve prendere nelle sue mani la battaglia politica per realizzare la società più giusta possibile. Non può e non deve mettersi al posto dello Stato. Ma non può e non deve neanche restare ai margini nella lotta per la giustizia. Deve inserirsi in essa per la via dell’argomentazione razionale e deve risvegliare le forze spirituali, senza le quali la giustizia, che sempre richiede anche rinunce, non può affermarsi… Alla Chiesa spetta di contribuire alla purificazione della ragione e al risveglio delle forze morali, senza le quali non vengono costruite strutture giuste, né queste possono essere operative a lungo». E, nella Chiesa, «il compito immediato di operare per un giusto ordine nella società è proprio dei fedeli laici». Opera importante perché, nota Ratzinger, citando sant’Agostino, «uno Stato che non fosse retto secondo giustizia si ridurrebbe ad una grande banda di ladri».

      Il pontefice loda poi quella miriade di sante e di santi che, in tutti i secoli, si sono spesi per alleviare le sofferenze dei più emarginati: da Francesco di Assisi, a don Giovanni Bosco, a madre Teresa di Calcutta. E, per le strutture moderne più organizzate, la Caritas diffusa capillarmente in tutto il mondo, e poi i tanti volontari «che si fanno carico di una molteplicità di servizi». Infine, l’enciclica raccomanda la collaborazione ecumenica con le Chiese non cattoliche per lavorare «con voce comune per il rispetto dei diritti e dei bisogni di tutti, specie dei poveri, degli umiliati e degli indifesi».

     Hans Küng – teologo a Tubinga che, sotto Giovanni Paolo II, era stato punito per le sue idee ecclesiologiche non «ortodosse», ma che il papa tedesco aveva invitato a cena il 24 settembre scorso – così ha commentato il testo di Ratzinger: «Come cattolici siamo contenti che la prima enciclica di Benedetto XVI non sia un manifesto del pessimismo culturale o della morale sessuale restrittiva verso l’amore, ma al contrario affronti temi centrali sotto il profilo teologico e antropologico… Mi piacerebbe una seconda enciclica: non sull’amore di Dio o su Gesù Cristo o sulle imprese caritative della Chiesa e le sue organizzazioni, ma sulle strutture di giustizia all’interno della Chiesa istituzionale». E, cioè, sul modo «pieno di amore» (ma così oggi non è!) con cui si dovrebbero trattare «i divorziati risposati, quei preti le cui strade si sono divaricate a causa dell’obbligo del celibato, le voci critiche nella chiesa». Ma, ci pare, il problema è, appunto questo: perché tali temi – che pesano sulla vita concreta di milioni di persone alle quali si annuncia comunque che Dio è amore – sono assenti dalla prima enciclica di Joseph Ratzinger?