Marcello Vigli La laicità interroga il Partito democratico: le risposte interessano tutti www.italialaica.it

 

Laicità è una delle 24 parole chiave sulle quali dovrebbero interrogarsi i promotori del Partito democratico secondo il curatore del libro Partito democratico. Le parole chiave pubblicato nell’aprile scorso dagli Editori Riuniti. Di essa scrivono due autori diversi: il fiorentino Enzo Mazzi, cristiano cattolico della Comunità di base dell’Isolotto, e il pistoiese Vannino Chiti: una carriera nel Pci e attualmente sottosegretario alla Presidenza del Consiglio. L’uno e l’altro sono ben lontani da quella tradizione liberale al cui interno la laicità è nata e si è sviluppata  come cultura e come prassi. Il primo esprime la riflessione su fede e politica maturata nelle esperienze d’impegno ecclesiale e sociale, del movimento delle Comunità cristiane di base. Nel secondo si ritrovano analisi e valutazioni proprie dei fautori del Dialogo fra cattolici e comunisti proposto come soluzione della Questione cattolica negli anni settanta, quando parlare di laicità sembrava questione “superata”: si favorì, di fatto, la spregiudicatezza craxiana nella revisione peggiorativa del regime concordatario.

“Oltre” questa soluzione propone di andare Rosy Bindi nel suo intervento Cattolici e laici pubblicato nello stesso volume. Non condivide certo argomenti e linguaggio di Mazzi, ma non si rifugia neppure nel comodo riferimento all’evangelico “date Cesare quel che è di Cesare” inadeguato ad esprimere la nuova realtà democratica, in cui Cesare è costituito anche da tanti cittadini cattolici che non accettano di trasformarsi in sudditi obbedienti e deresponsabilizzati nei suoi rapporti con la Chiesa. Implicitamente rinuncia a usare “cattolico” come categoria politica quando parla di “laici credenti e laici non credenti” possibili protagonisti di una Condivisione che vada oltre il Dialogo. Li invita a “tornare allo spirito della Costituzione, a quella straordinaria e feconda contaminazione di valori, culture, ispirazioni che ha dato vita a un’Italia nuova”, ad assumere, cioè,  la Carta costituzionale come punto di partenza per rilanciarne il patto, finora vissuto “troppo nella dimensione fondativa”, riscoprendone e vivendone la dimensione “progressiva”. E’ un appello ed una sfida a quegli ulivisti, cattolici e non, che nell’ultimo appuntamento referendario hanno sconfitto il disegno - berlusconiano e non solo - di stravolgere la Costituzione. Li sollecita ad abbandonare le diatribe sulla distanza fra le due sponde del Tevere e sul modo di renderlo più o meno stretto, per raggiungere il mare aperto di un mondo ormai globalizzato in cui non c’è posto per istituzioni ecclesiastiche o per centrali clericali di varia natura che pretendano di rappresentare in modo univoco il Dio a cui tanti cittadini del mondo credono pur rappresentandoselo in modo diverso.

Appello e sfida che hanno oggi due concrete occasioni di verifica prima della scadenza del 14 ottobre, in aggiunta alle questioni dei Dico, dell’eutanasia, della legge sulla procreazione assistita, sui privilegi fiscali, sull’introduzione della lettura della bibbia nelle scuole sempre incombenti nel quadro del regime concordatario.

Finalmente i promotori della legge sulla libertà religiosa – di cui in verità non ci sarebbe bisogno se alle religioni non si riconoscesse una valenza diversa da quella delle altre opzioni ideali e identità culturali – hanno avviato la revisione del progetto originario eliminando la più grave contraddizione presente in esso, costituita dalla legalizzazione degli attuali tre livelli del loro rapporto con lo stato: il regime concordatario, quello delle Intese, quello delle altre organizzazioni religiose. Ne deriverebbe un sostanziale riconoscimento di una reale uguaglianza fra le diverse confessioni in nome della laicità dello Stato che, però, monsignor Giuseppe Betori - il segretario della Cei chiamato ad assicurare una reale continuità nella gestione ruiniana della Chiesa italiana - ha duramente contestato in una sua audizione alla Camera del 7 luglio scorso.

La richiesta di Romano Prodi alle gerarchie cattoliche di integrare la loro predicazione con appelli alla pratica dell’etica sociale con particolare riferimento al rispetto della legalità fiscale ha suscitato le ire del settimanale Famiglia cristiana, del vescovo di Chieti Bruno Forte e di altri prelati che lo hanno accusato d’interferenza e/o di non rispettare il diritto dei contribuenti a ridursi le tasse per protesta contro il cattivo uso delle risorse che lo stato ne ricava. A loro si è unito anche Giulio Andreotti che, per protesta, in Senato si è astenuto, cioè ha votato contro, su un provvedimento governativo. Prodi in verità si è limitato a chiedere alle gerarchie ecclesiastiche di intervenire anche sulla compilazione della dichiarazione dei redditi come fanno abitualmente sul comportamento di cattolici e non nelle camere da letto o nel segreto dell’urna elettorale.

Sono due concrete occasioni offerte ai candidati alle segreterie, nazionale e locali, del futuro Partito  per schierarsi sul tema della laicità. Non  consentono il ricorso a funambolismi verbali come quelli di Walter Veltroni che, due anni fa, trasformò la promessa “intitolazione” della stazione Termini di Roma a Giovanni Paolo II in semplice “dedica”, suscitando il dileggio delle autorità ecclesiastiche alle quali essa era stata assicurata e senza soddisfare la richiesta dei cittadini romani.