Don Vitaliano Della Sala

Scrutare i segni del tempo nuovo

Adista 73/2007

 

 

Anno A 18 novembre 2007 XXXIII Domenica del Tempo Ordinario Mal 3,19-20 Sal 97 2Ts, 3,7-12 Lc 21, 5-19

 

 

Nella sua ultima visita al Tempio, Gesù ne preannuncia la distruzione: come quello di Gerusalemme, i templi rovineranno insieme alle religioni che rappresentano, e finirà anche il mondo, ma l'amicizia con Dio resterà, al di là di ogni avversità. Gesù non parla della fine ma dell'inizio del mondo nuovo, dal quale, per i "cultori del nome di Dio sorgerà il sole di giustizia" (I lettura).

Perciò tra i seguaci del Maestro non c'è posto per i menagramo e per gli uccelli del malaugurio, per i troppi esorcisti da strapazzo e per i veggenti ossessionati da visioni dell'inferno e di madonne piangenti lacrime di sangue; non c'è posto per chi vede solo il male e  null'al-tro, né per chi vorrebbe una Chiesa triste, matrigna e "talebana", che parla elegantemente in latino, inscenando solenni cerimonie  vuote di divinità perché vuote di umanità; insomma, non c'è posto per chi per guardare alla fine futura del mondo, non si preoccupa dell'oggi che quella fine prepara: una speranza che distoglie dalla vita reale è falsa. Alla luce di ciò, sembrano estremamente attuali le parole con le quali Giovanni XXIII aprì il Concilio: "Nei tempi moderni alcuni non vedono che prevaricazione e rovina (…) Ma a noi sembra di dover dissentire da codesti profeti di sventura che annunziano eventi sempre infausti". Spesso, ci riduciamo ad assomigliare proprio a quei "profeti di sventura", che vedono il male e il diavolo dappertutto e "minacciano" una fine del mondo imminente: la intravedono in ogni disastro, per poi darne la colpa a chi la pensa o agisce diversamente da sé: agli atei, ai comunisti, ai gay, ai musulmani, ai teologi della liberazione …

In questo modo, la Chiesa finisce per ricalcare il modello anticotestamentario: dispensiamo  sacramenti slegati dalla vita, riproducendo la stessa schizofrenia dell'immolazione delle vittime animali. Gesù Cristo, invece, sacerdote e vittima egli stesso, con l'offerta della sua vita annulla questa schisi, questo iato; fa della sua carne il velo, quel velo del Tempio segno della separazione che invece diventa ponte, ponte di carne, unica e definitiva mediazione che conduce gli uomini a Dio. E ci invita a seguirlo "fuori dell'accampamento" (cfr. Eb 10,20; 13,1114), cioè fuori degli spazi sacri, degli ambienti nei quali ci sentiamo sicuri, oltre gli orizzonti rassicuranti, andando "verso di Lui, portando il suo obbrobrio", cioè condividendo fino in fondo, come ha fatto Lui con la sua morte in croce, la condizione del suo popolo. Il percorso per andare verso di Lui è inequivocabile: Gesù Cristo non sta solo nel Sacramento dell'altare, ma ci chiede di adorarlo nei tabernacoli della storia, le donne e gli uomini in carne ed ossa. Anche sulle nostre spalle grava la responsabilità di essere coscienza critica del nostro tempo, abbiamo il dovere della denuncia di tutte quelle situazioni che umiliano gli esseri umani e Gesù Cristo in essi. Come i profeti di speranza dell'Antico Testamento dobbiamo levare la nostra voce, senza paura delle conseguenze che ce ne potranno derivare, senza calcoli, animati dalla forza dello Spirito Santo. E come quei profeti, dobbiamo denunciare le ingiustizie con il gesto oltre che con la parola, sapendo che il nostro modo di fare potrà risultare non accetto a molti, anche a quelli di "casa nostra", delle nostre stesse comunità, della gerarchia, che cercheranno di screditarci e di "farci fuori". Perciò dobbiamo recuperare la virtù dei martiri, la parresia, che è sfrontatezza agli occhi del mondo, ma è franchezza del testimone agli occhi di Dio. E allora "nemmeno un capello del nostro capo perirà"