Possono le religioni abitare il limite?

Da Wikipedia. Una religione è un complesso di credenze, comportamenti, atti rituali e culturali, mediante cui un gruppo umano esprime un rapporto con qualche ordine soprannaturale o realtà ultraterrena. Una religione contiene sistemi di valori e significati che investono la condizione umana, l'esistenza, l'ordine cosmico, e spesso altri aspetti della vita.

In senso lato, la religione viene intesa come via di salvezza naturale e/o soprannaturale: questo includerebbe anche le "religioni atee" come appunto il buddhismo primitivo. La religione comprende in ogni caso elementi che possono essere collocati su tre livelli: soggettivo o intellettuale, oggettivo o pratico (riti-culti privati o collettivi) e sociale o etico-morale (obblighi e divieti codificati e tramandati).

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Cosa vuol dire, dunque, per una relazione religiosa ‘abitare il limite’?

Essa può darsi un limite se una delle parti ha una visione illimitata di sé?

 

A) Rispondo prima alla seconda domanda.

Il Dio ebraico si è dato deilimiti sia creando il mondo, sia lasciando all’umanità la libertà di scegliere tra il bene e il male riservandosi di giudicarne l’esito … a fine corsa. L’infinito dunque avrebbe deciso di abitare il finito

 

Viceversa l’umanità è da sempre insofferente al finito. In Genesi si è auto proclamata ‘imago dei’, ancor prima di aver strappato a Dio la capacità di discernere.

Solo attraverso questa capacità la vita è diventata una scelta e non più solo una condizione. L’umano, infatti, decide per la vita propria e degli altri viventi, recisa sulla base di criteri terzi rispetto a quelli validi per gli altri animali -nutrizione e accoppiamento-. L’umano si è nominato plenipotenziario di dio che, nel migliore dei casi, come un feudatario ‘protegge’ paternalisticamente chi vi abita.

Questo racconto soprattutto dal ‘500 ha avuto un successo strepitoso mettendo in secondo piano Levitico 25, Deuteronomio 5 in cui la natura è soggetto di diritti, e i salmi in cui la natura loda Dio direttamente.

 

L’albero della vita è rimasto nel giardino, protetto dagli angeli! Quel giardino rappresenta il recinto del sacro che racchiude il principio vitale che l’umano occidentale ambisce a dominare. Perché la morte, non la vita è la spinta ad ‘emulare’ del trascendente la libertàsenza la responsabilità, il giudizio senza la misericordia, il potere senza il servizio, l’infinito senza il patto, il dominio senza la liberazione.

Che Dio resti pure il creatore della vita mentre il controllo su di essa passi all’uomo, un desiderio che la mitologia greca ha sempre frustrato e punito.

Questo si chiama tecnicamente, credo, delirio di onnipotenza.

 

Per K. Barth, infatti, l'età borghese è l'età dell'assolutismo, intendendo con ciò non tanto l'assolutismo politico, quanto il fatto che l'uomo sperimenta se stesso come un assoluto. Assolutismo in generale può significare un sistema di vita fondato sul presupposto fideistico dell'onnipotenza delle possibilità umane

la borghesizzazione del Cristianesimo ha attratto Dio nel cerchio della sovranità umana riducendo la sua realtà trascendente a realtà interiormente vissuta, esistente nell'esperienza religiosa dell'uomo.  Questa impresa è culminata nella teologia protestante ottocentesca soprattutto con l'opera di F. Schleiermacher. 

Lo sguardo non è rivolto umilmente a Dio che salva, ma si ammira l'uomo salvato, e salvato già in partenza L'uomo è così diventato il giudice della Parola di Dio, eg1i è il signore, l'arbitro. il canone della Rivelazione. Ma il Cristianesimo così come viene testimoniato dalla Scrittura, mal si presta ad una riduzione nei termini di una qualunque morale, e tanto meno nei termini della morale borghese. E allora si cerca un cristianesimo naturale, ragionevole, che non dia scandalo. Allora si dirà che la nascita di Cristo è quella che avviene nel nostro cuore e la sua resurrezione sarà il nostro trionfo su noi stessi, l'essere diventati padroni del nostro io.

 

In questo contesto è chiaro che l'unica autorità ammissibile è la voce interiore della coscienza, non la Scrittura, non la comunità, neppure Dio a rigore. La religione che non abita il limite è la religione dell’uomo che ha creato in cielo un superuomo, per l’appunto in dio a sua immagine e somiglianza.


L’umano ha fatto di se stesso un idolo.Dio ormai è fuori gioco.Dunque la risposta alla seconda domanda è che la morale borghese non comprende l’Altro e con ciò viene meno la possibilità di una religione.


B) E veniamo così alla prima domanda: cosa vuol dire per una relazione religiosa ‘abitare il limite’?

Il limite è insito in ogni relazione, compresa quella religiosa. La religione abita per definizione il limite perché riconosce almeno un ‘Altro/a da sé’.

Gesù ci ha insegnato che il limite nella vita non è la morte ma l’amore per l’altro, quello declinato in I Corinzi 13. Non ho bisogno di negare alcuno per esistere ma viceversa esisto solo riconoscendo la mia interdipendenza. Dunque il principio vitale è l’amore, ed è questo che dovremmo cercare di salvaguardare.

 

C) Senza riconoscimento di un limite non si può parlare di giustizia. La domanda di giustizia è basata sulla solidarietà di Dio con gli oppressi.Per questo i teologi riformati hanno sottolineato chela giustizia e l’amore sono inseparabili. Così la giustizia di Dio ci toglie dall’autocentramento e ci rende liberi di fare il bene ad altri: la giustificazione è un messaggio di liberazione.

Perché Dio è sorgente e misura della giustizia nella società facendo prevalere la sua giustizia negli affari umani e portando libertà all’umanità. Non tanto con riferimento alla morte quanto alla risurrezione, cifra della trasformazione dell’esistenza per cui l’amore permea la giustizia facendo emergere una nuova umanità. Purtroppo questa chiarezza di impianto -la connessione fra giustificazione dei peccatori e azione giusta- si è persa negli anni ’80 in casa riformata. Il fondamento cristologico diventa un appello alla pace e al sermone sul monte, diventa moralismo. Viene ricordata la relazione fra azione di Dio e attività umana con riferimento alla tradizione riformata della ‘covenat theology’ (la teologia del patto)ma non se ne traggono le conseguenze. Nel 1997 inizia un processo mondiale che parte dall’Alleanza Riformata mondiale (ARM)e si estende al Consiglio ecumenico (CEC) di Ginevra per porre la questione della giustizia economica in termini sociali ed ambientali come dirimente rispetto all’essere cristiani. Nel 2004 all’assemblea dell’ARM viene redatta una confessione di fede (la confessione di Accra) e l’anno dopo il CEC alla sua assemblea ne reddarà un altro. Sono momenti alti

1997-2004: ‘rompere le catene dell’ingiustizia’, i cristiani sono ordinati da dioa servire il mondo. La tradizione riformata riconosce tutta la creazione come santa. La nostra sfida è di riportare la nostra economia sotto la sovranità di dio in attesa della sua venuta. Il rischio è grande quando la relazione teologica tra la grazia giustificante di dio e l’azione umana ètrascurata e la gente reclama la giustificazione per séin virtù della propria azione.

Per la prima volta le chiese del sud chiamano quelle del nord alla disobbedienza civile ed alla resistenza non violenta. Sarebbe stato meglio se le chiese del nord e del sud avessero lavorato insieme piuttosto che muovere l’accusa alle chiese del nord. Ma la globalizzazione attraversa le chiese i cui componenti faticano ad essere altro rispetto alla società in cui vivono.

E così il ‘processus confessionis’ diventa un movimento che attraversa le chiese, chiamato ‘covenanting for justice’. La confessione di Accra di fatto è una esortazione, anche a ricordare che il peccato è di tutta la chiesa e che tutta vive della grazia di dio: attenzione a prevenire che alcune chiese membro soccombano alla tentazione didiventare avvocati della propria giustizia.

Chi nega la giustizia penalizza una vita che piace a dio. Un dio che non pratica la giustizia non solo fallisce nel suo compito ma nega la propria esistenza. Per questo il termine giustizia è anche letteralmente una parte della teologia ‘fondamentale’. Dio vincola se stesso alla giustizia e ciò costituisce il pattocon il suo popolo.

Antonella Visintin

Aprile 2008