TEMPI DI SORORITA'

Da Tempi di fraternità n° 8 Ottobre 2005 e N° 9 Novembre 2005

 

A cura di Catti Cifatte

UOMINI IN CAMMINO

Intervista a Beppe Pavan

 

Così si descrive Beppe Pavan: figlio di immigrati veneti nel profondo nord contadino dell'immediato dopoguerra, ho vissuto sempre in minoranza, perché in ogni situazione trovavo motivi per ribellarmi a ciò che si presentava come istituzione e tendeva a schiacciare le differenze e le creatività. Sono stato per 11 anni in seminario, per 5 anni in fabbrica e per altri 15 nel sindacato, con una parentesi di 15 mesi e 5 giorni in caserma: tutti ambienti rigidamente maschili e patriarcali. Poi ho lavorato in cooperativa e in una struttura tutelare per persone anziane, prima della pensione.

A quello spirito ribelle sono riconoscente perché mi ha fatto uscire sostanzialmente indenne da 11 anni di seminario: oggi sono un anticlericale consapevole e un credente insofferente ad ogni schema.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Quando è incominciato per te un percorso di riflessione teologica di genere? Come hai sentito l'esigenza di una diversa lettura della Parola di Dio e di come uomini e donne si rapportano ad essa?

 

Sono sempre stato un "homo religiosus", ma inquieto sia come homo che come religiosus.

L'infanzia è stata il periodo dell’adesione ai modelli maschili con cui soprattutto mi identificavo: il parroco e il suo Dio; e dell'entusiasmo incondizionato per il modello patriarcale di vita che la fede infantile nella struttura ecclesiastica e nella sua dottrina comportava, a cominciare dalla separazione, sui banchi della chiesa, tra donne e uomini. Fino al mio ingresso, spontaneo e convinto, in seminario, a 10 anni, dopo una carriera da chierichetto assiduo e puntuale. Ma è stato come entrare nella pancia dell'idolo: vivere le relazioni e conoscere i meccanismi interni alla "fabbrica dei preti" mi ha portato gradualmente a riconoscere le ipocrisie degli uomini e delle loro dottrine. "Ogni sommo sacerdote, infatti, preso fra gli uomini, viene costituito per il bene degli uomini nelle cose che riguardano Dio, per offrire doni e sacrifici per i peccati. In tal modo egli è in grado di sentire giusta compassione per quelli che sono nell'ignoranza e nell'errore…". Questo brano (lettera di Paolo agli Ebrei cap. 5,1-2) era molto letto e commentato; soprattutto l'elezione: il prete è scelto, assunto, selezionato "da Dio" tra tutti gli altri uomini… Come dire: la crema della crema. "Chi si sposa fa bene, chi non si sposa fa meglio": è sempre Paolo (1 Corinti 7,38). Non si tratta solo di un modello maschile: il prete diventa, per un adolescente entusiasta, "il" modello, la modalità insuperabile dell'essere uomo. I "veri uomini" sono forti, sicuri di sé, superiori… e hanno sempre ragione. Quando mai ho riconosciuto di aver torto in un comportamento, in una discussione? Dentro di me, sì; a parole mai. Perché sono sempre gli altri ad essere “nell’ignoranza e nell’errore”.

Alcune contraddizioni erano inspiegabili, colpivano la mia sensibilità. Erano le incoerenze tra le parole dei Vangeli e le interpretazioni comportamentali e dottrinali che mi venivano insegnate: mi predicavano la conversione e vedevo tanta esteriorità; il servizio e mi insegnavano il potere; mi facevano leggere le parole di Gesù: "Fate questo in memoria di me" e mi volevano convincere della transustanziazione. I dogmi cominciarono a sgretolarsi e con loro perdevano senso i modelli maschili su cui avevo costruito il mio iniziale progetto di vita. E’ stato il mio primo passo importante: l'assoluto si è gradualmente "ridotto" a Dio. Dopo undici anni ho lasciato il seminario provando per la prima volta nella vita una formidabile sensazione di liberazione, di libertà, di leggerezza.

Il secondo passo è stata la comunità di base. Da "laico" soffrivo ancora di più gli steccati che l'istituzione ecclesiastica mi erigeva intorno; per quanto aperta e democratica fosse la mia parrocchia, l'ultima parola l'avevano comunque i preti. Io invece avevo bisogno di spazi e di strumenti nuovi per continuare a cercare. Finalmente la ricerca era collettiva: altri uomini e altre donne stavano andando nella mia stessa direzione, riconoscendoci la massima libertà reciproca. L'individualismo si stemperava, sperimentavamo il senso dello stare in gruppo e lo studio della Bibbia con gli strumenti dell'analisi storico-critica ci restituiva finalmente dei testi desacralizzati. Cominciavo così a non trovare più incompatibili la mia libertà di uomo e la signoria di Dio sul creato. Questa relativizzazione della Bibbia ha reso possibile e accompagnato la mia definitiva liberazione dall'appartenenza ad una chiesa.

In comunità mi hanno affascinato e attratto i cammini di liberazione, con un passaggio che ritengo decisivo: per anni mi sono impegnato con convinzione nelle lotte di liberazione di altri (pagani, poveri, proletari, oppressi dalle potenze militari… e poi omosessuali, prostitute…) finché ho maturato la consapevolezza che la prima liberazione da intraprendere riguardava me, che questo percorso di autoliberazione era ed è l’unico vero contributo che posso dare al miglioramento della vita del creato o, per usare il linguaggio biblico, alla costruzione del "Regno di Dio".

Il terzo passo è stato l'incontro con il femminismo, soprattutto con il pensiero della differenza. Mi ha reso consapevole che il cammino di liberazione intrapreso dalle donne femministe nei confronti del patriarcato e quello di qualunque minoranza oppressa (economica, sociale, politica, religiosa…) è non solo giusto, ma conveniente anche per noi uomini, costretti all’infelicità dall’impossibilità di uscire dal sistema che il nostro genere di appartenenza ha consolidato nei millenni. La liberazione del mondo dal dominio patriarcale non può realizzarsi senza l'abbandono della cultura e delle pratiche patriarcali da parte degli uomini stessi. Così è nato il nostro Gruppo Uomini ed è maturato presto il desiderio di incontrare e metterci in rete con gli altri uomini in cammino come noi: perché questo processo di liberazione per essere efficace deve essere collettivo. A questo è servito Uomini in Cammino, il foglio del gruppo, nato per dare visibilità ai cammini di liberazione degli uomini che incontriamo e che ci fanno sentire in buona compagnia: una compagnia che va crescendo.

 

Il gruppo "Uomini in cammino" sta facendo da diversi anni un percorso singolare ed eccezionale nella realtà politico-ecclesiale maschile; dove sta la novità?

La vostra esperienza, secondo te, poteva nascere anche al di fuori dell'esperienza più generale che avete fatto con le comunità cristiane di base? Oggi il gruppo è composto da uomini credenti e non credenti, cosa può significare questa mescolanza?

 

La novità credo di individuarla nell’aver cominciato a “sentire” come disagio ciò che gli uomini mostravano di vivere con orgoglio e tronfia sicurezza. Ad esempio: quante volte nei documenti sindacali, anche in quelli di noi compagni “illuminati”, le donne erano e sono parte dell’elenco dei problemi da affrontare, insieme ai giovani, ai disoccupati, ai meridionali. Per chi erano e sono dei problemi da affrontare? Da chi dovevano e devono essere affrontati? Chi soltanto sapeva e sa perché e come affrontarli? Naturalmente noi, uomini dirigenti, titolari di un diritto globale di rappresentanza esteso addirittura “erga omnes”, a tutela anche di chi non ci aveva dato e non ci dà alcun mandato.

Questa pratica del potere, di origine pressoché divina perché esercitato a tutela “degli ultimi, degli sfruttati, dei ceti più deboli, ecc...” nel gioco della mediazione con il potere delle diverse controparti, ci ha sempre resi ciechi di fronte al fatto che il problema più grosso eravamo e siamo noi uomini, per noi e per l’insieme del mondo.

C’è anche un’altra novità, a cui penso specialmente nei momenti in cui mi sento aggredito da polemiche astiose. Io sono cresciuto alla scuola della falsa umiltà, quella in cui dire “io” (io penso… secondo me… a mio avviso…) era considerato grave peccato di superbia, da parte di chi nascondeva il proprio potere dietro il plurale della casta. Alla scuola delle donne ho imparato a dire “io” per nominare la mia parzialità, individuale e di genere: a sentirmi “uno”, non la metà dell’umanità, quella più importante per elezione divina. La libertà che cercavamo, quando ancora stavamo in parrocchia, a poco a poco ha trovato spazio all’interno della comunità; ma, per essere tale, ha da essere libertà anche nei confronti della comunità: è una dialettica continua, a volte difficile e dolorosa, ma si sta rivelando una scelta sempre più felice.

I gruppi uomini, sorti in Italia in questi anni, mi dicono che si tratta di esperienze che possono nascere in qualunque situazione. Il nostro gruppo è nato, storicamente, all’interno della cdb, ma la scelta di riunirci in locali non caratterizzati, né sotto il profilo religioso né sotto quello politico, si è rivelata positiva. Nel gruppo siamo in pochi appartenenti alla Comunità di base e non so dire se gli altri sono credenti o non credenti; non abbiamo ancora affrontato il tema della fede e della religiosità, ma le pratiche del partire da sé e dell’ascolto ci stanno facendo fare un cammino fecondo e conveniente, ci insegnano la convivialità tra uomini, portatori sani di differenze che impariamo a rispettare astenendoci da giudizi e commenti, ad esercitare l’ascolto e lo scambio per aiutarci a riflettere e a modificare il punto di vista personale o una pratica di vita.

Certo, all’interno della nostra cdb e dell’intero movimento questo cammino non è passato inosservato. Quando le donne della Comunità di S. Paolo hanno “imposto” il tema della differenza di genere per il convegno nazionale del ‘98 a Vico Equense, la resistenza maschile significava che anche gli uomini delle cdb si sono interrogati. E il confronto nel convegno di quest’anno a Chianciano mi dice che un po’ di strada è stata fatta. E’ la stessa di cui parlano altri uomini quando ci raccontano dell’impatto che la loro “novità” suscita in fabbrica, in ufficio, nella cerchia di amici… Grazie alla vita di relazione i piccoli cambiamenti che riesco ad operare in me vengono recepiti e modificano anche le altre persone: quando sono con me non sono più le stesse di prima, affrontano argomenti inusuali, ascoltano parole nuove, vedono comportamenti non stereotipati… Anche rompere la relazione è un gesto che nasce dalla consapevolezza che qualcosa è cambiato… E chi mi lancia la battuta “spiritosa”, ogni volta che mi incontra, mi dice che questa novità lo interpella e continua a pensarci.

E’ davvero una macchia d’olio che si espande: lentamente, ma si espande. Dipende da me, da te, da ciascuno e ciascuna di noi: cambiando e prendendo pubblicamente la parola per nominare la “convenienza” di questo cambiamento.

 

Se dovessi individuare "il nocciolo del problema" su cosa ti soffermeresti di più? Dove nascono le discriminazioni di genere? Quale è la visione del divino che ci condiziona?

 

Mi sembra che arriviamo ad un “nocciolo” che ha almeno due facce principali: il desiderio maschile di “occupare il centro” e “lo sguardo maschile” sulle donne.

In realtà, più che di “occupare” parlerei di “essere” il centro. In qualunque ambiente, situazione, iniziativa, l’individualismo a cui il maschio viene formato lo porta a collocarsi al centro della scena: per dirigere, coordinare, guidare, amministrare, governare, controllare… e sentirsi importante, necessario, indispensabile, capace, competente… e quindi riconosciuto, riverito, ossequiato, applaudito…

Dal centro, poi, si gestisce meglio la competizione con gli altri maschi: non solo in economia e in politica, ma anche nel movimento e nei gruppi e nelle comunità di base… Lo stare al centro favorisce questi comportamenti, anche al di là delle migliori intenzioni.

L’alternativa? E’ facile da enunciare: togliersi dal centro e mettersi in cerchio, occupare lo spazio alla pari con gli altri uomini e le donne, con i cuccioli e le cucciole e le persone anziane, per “fare gruppo”, lavorare in collettivo, smettere i panni del maestro per fare ricerca insieme. Ovviamente continuando a mettere in gioco tutte le proprie capacità e competenze.

Ho detto che è facile da enunciare, mentre è molto faticoso aprire cantieri di questo tipo. Ci serve, secondo me, riconoscere il bisogno che abbiamo di madri simboliche, che ci insegnino le relazioni e la convivialità, il rispetto di ogni differenza, la convenienza, la bellezza e l’efficacia del crescere insieme.

E poi lo sguardo maschile sulle donne: uno sguardo “proprietario”, che considera le donne parte di quella “natura” che Dio ci ha ordinato di “dominare”: è lo sguardo violento del dominante, che, grazie alla sua superiore forza fisica e alla capacità conseguente di infliggere sofferenze, ottiene devozione e sottomissione da parte delle donne e dei bambini. E’ allo sguardo maschile che le donne, troppo spesso ancora, cercano di essere adeguate, perché quello sguardo nei millenni si è imposto come regolatore e donatore di senso. Molte ragazze sembrano esistere solo se gli uomini le guardano, le desiderano e le scelgono… mentre considerano il femminismo come roba sorpassata, perché ormai l’uguaglianza è garantita: anche loro possono indossare la divisa e torturare i nemici!

C’è un esercizio che qualche anno fa ho cominciato a fare e che, a poco a poco, si è trasformato in piacevole abitudine: pensare e dire “Dea” invece di “Dio”. Dico Dio e nella mente si forma l’immagine del grande vecchio barbuto; dico Dea e vedo una madre opulenta, sorridente, generosa. Ciò esplicita la materialità del linguaggio, della sua parzialità, dei suoi limiti, della sua storicità: il linguaggio può essere manipolato, corrotto, dominato ed attraverso l’uso corrotto della lingua e delle parole passa la corruzione delle coscienze.

Da quando in comunità abbiamo cominciato ad usare in alternanza le parole Dio e Dea, ha cominciato ad affievolirsi l’orizzonte culturale tutto maschile, al punto che mi sembra di poter dire che la nostra è una lingua povera, che non ci permette un linguaggio inclusivo semplice ed è funzionale ad una realtà esclusiva e maschiocentrica.

 

Quale l'impegno oggi per il superamento delle discriminazioni e per la piena valorizzazione delle differenze di genere nella società e nella comunità ecclesiale? E' possibile immaginare e costruire, partendo dalla dimensione personale e dai rapporti di coppia, una nuova realtà sociale, familiare, comunitaria?

Non posso che nominare la mia esperienza personale, che è intrecciata con il cammino di mia moglie e con quelli di uomini e donne delle cdb e dei gruppi in cui le pratiche dell’ascolto e del partire da sé sono consolidate. Quando dico che è “conveniente” cambiare, lo dico perché innanzitutto nella mia relazione di coppia questo cammino ha significato innamoramento crescente, felicità, pienezza di gioia e desiderio che non finisca mai. Con ripercussioni a cascata in ogni ambito della mia quotidianità.

E cresce il collettivo: il gruppo, cioè, non è solo risorsa per il singolo e la singola, ma diventa un’entità in sé, la cui vita tende a durare nel tempo. Mi sembra, in altre parole, che gruppi di questo tipo si configurino come “icone del Regno”: quell’altro mondo possibile che in comunità chiamiamo, con linguaggio biblico, regno dei cieli o regno di Dio, è un cammino collettivo, la costruzione graduale di relazioni di giustizia e di convivialità a livello planetario; non solo tra uomini e donne, ma con tutta la natura: animali, vegetali, ambiente, risorsa, paesaggio… Forse dovremmo insegnare a figli e figlie non solo l’impegno e la responsabilità, ma anche a desiderare e a cercare la felicità; e scopriranno che nasce dal “ben-essere” nelle relazioni, non dalla soddisfazione nella carriera.

Il passo successivo sta nel mettersi in rete: reti di relazioni tra gruppi (donne in nero, gruppi uomini, comunità di base, Lilliput, Città solidali e per la pace). Mi sembra decisivo questo cambiamento di prospettiva e di strategia: non più le maxi-chiese che richiedono organizzazioni e gerarchia, ma reti di piccoli gruppi, autonomi e capaci di vera democrazia di base, dal basso, collettiva.

In alcune cdb, come la nostra e quella di Piossasco, è aperto un cantiere di ricerca e di ripensamento sui ministeri. E’ un tema ricorrente, nella storia delle cdb, ma mi sembra che questa volta, a differenza del passato, ci sia tra di noi un livello di consapevolezza maggiore. Credo di individuare la genesi di questo cambiamento nella partecipazione di molte donne, prima, e di alcuni uomini, più recentemente, ai gruppi sorti dalle acque feconde del femminismo e del pensiero della differenza. Ho grande speranza che in questi gruppi uomini e donne impareranno anche ad amministrare e governare le città e le nazioni con modalità gradualmente e radicalmente diverse dalle attuali.

L’apprendimento maggiore riguarda, io credo, la gestione dei conflitti, di fronte ai quali possiamo e dobbiamo abbandonare le pratiche aggressive e violente, per altro assolutamente inutili, per imparare la mediazione e lo scambio e la convivialità delle differenze. Dicendo la verità e rispettando la verità che ci viene detta.

La speranza si fonda anche sulla capacità di resistere nel tempo; in questo credo di vedere la “profezia” del collettivo. Com’era il gruppo di donne e uomini che percorreva i sentieri polverosi della Palestina insieme a Gesù. Non è casuale che Gesù sia così “studiato” e continuamente “riscoperto”, anche, in particolare, dalle teologhe femministe, mentre Dio Padre sia così discusso. Se, ad esempio, sostituisco la parola Dio con “Sorgente dell’Amore” o, semplicemente “Amore”, “Vita” o “Sorgente di Vita”… mi accorgo che l’umanità ha conosciuto miriadi di profeti e, soprattutto, di profete che hanno seminato e mantenuto viva, nel tempo, la pratica delle relazioni di cura e della convivialità delle differenze, a dispetto di tutte le persecuzioni e violenze che la concezione patriarcale e maschile della divinità ha scatenato contro di loro. “L’amore è più forte della morte” può essere tradotto anche con: la convivialità di tutte le differenze crescerà come un giardino coloratissimo sulle ceneri della cultura necrofila del patriarcato.

Può iniziare anche per altri uomini, della cdb e non solo, un percorso articolato in diversi sentieri:

  • analisi di genere nello studio biblico, imparare cioè a destrutturare l'universo maschile e il suo ordine simbolico, che significa occuparsi, necessariamente, anche degli immaginari biblici e teologici, di cui i dogmi rappresentano le ricadute violente;
  • autocoscienza maschile, per imparare a cambiare il nostro modo di stare al mondo e a stare nelle relazioni (familiari, educative, amicali, ecc.) in modo rispettoso e nonviolento;
  • uso di linguaggio inclusivo della differenza di genere, che ci aiuti a sollevare definitivamente la cappa simbolica con cui gli uomini hanno reso invisibili le donne, nascondendole nel solo maschile, e se stessi, celandosi nel neutro universale;
  • ricerca sulle radici della nostra storia religiosa (monoteismo, messianismo, redenzione, ecc..) per individuarne la matrice patriarcale e liberarci dalle pratiche di dominio e dagli assoluti, sempre e comunque segnati dal maschile;
  • presa di parola pubblica per raccontare la nostra ricerca e il senso del nostro cammino, sia all'interno del movimento delle cdb sia sul territorio, attraverso incontri e dibattiti pubblici, scritti, riunioni periodiche con altri uomini della rete, contatti e relazioni individuali, ecc…

 

 


 

P.S. - Chi desidera ricevere UOMINI IN CAMMINO o utilizzarlo per raccontare le proprie esperienze e riflessioni, mi scriva o mi telefoni liberamente: Beppe Pavan, Corso Torino 117, 10064 Pinerolo (To); e-mail carlaebeppe@libero.it; tel 0121393053.

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