TEMPI DI SORORITA’

a cura di Catti Cifatte

 

DONNE CORAGGIO

Intervista ad Enzo Mazzi

Enzo Mazzi è partecipe dell'esperienza della "Comunità dell'Isolotto" dalla fase parrocchiale alla dimensione di comunità di base assunta dopo l'estromissione dalla parrocchia (1968) e vissuta tuttora in unione con il movimento delle comunità cristiane di base. E’ autore di Firenze e Savonarola, Centrolibro, Firenze, 1998; Giordano Bruno, Manifestolibri, Roma, 2000; La Forza dell’Esodo, Manifestolibri, Roma, 2001; Ernesto Balducci e il dissenso creativo, Manifestolibri, Roma, 2002. Collabora a quotidiani e riviste.


Caro Enzo in un recentissimo tuo intervento sull’Unità, hai chiamato le donne che subiscono violenza o stupro e li denunciano col titolo di “donne coraggio”. Vorrei approfondire la tua riflessione perché mi pare molto significativa: dunque molte donne si danno coraggio e denunciano, ma di fronte al moltiplicarsi delle cattive notizie ci domandiamo “- sono aumentate le violenze o sono aumentate le donne coraggio?”

Le donne coraggio non piovono dal cielo. Nascono dalla fecondità della lotta e del sangue versato. Il loro innegabile moltiplicarsi è il frutto di una mutazione culturale profonda e complessa. Che risale agli albori della modernità. L’umanesimo rinascimentale ha aperto una prima fase, molto contraddittoria ma rivoluzionaria rispetto al comunitarismo medioevale: quella del valore dell’individuo in sé. Nel De digitate hominis di Pico Della Mirandola (1491) c’è l’esaltazione della libertà umana, germe faustiano dell’uomo creatore di se stesso: “Non ti ho fatto né celeste né terreno, né mortale né immortale – fa dire Pico al creatore – perché da te stesso, quasi libero e sovrano artefice ti plasmassi e ti scolpissi nella forma che avresti prescelto”. Che c’entrano le donne? Nulla. La rivoluzione dell’umanesimo era fatta da maschi per maschi, europei, borghesi. L’homo europeus che nasceva nel Quattrocento, armato della sua libertà, si apprestava a sterminare le streghe, gli indios e i neri, tutti e tre “non-persone”, forse privi perfino dell’ anima. Sarà la resistenza tenace, sorda, anch’essa contraddittoria come lo sono tutte le lotte, delle donne massacrate a milioni fino a tre secoli fa in nome della modernità dimezzata, a trasformare la rivoluzione dell’umanesimo maschile in rivoluzione umanistica universale. Sarà così per tutte le rivoluzioni che hanno animato nei secoli la modernità. In ognuna di esse le donne, donne coraggio, si sono fatte strada a fatica e a quelle stesse hanno dato anima e profondità e completezza e futuro. E siamo all’oggi.

 

Eppure viviamo ancora in una società ancora pervasa da tabù, oppure subiamo in modo incessante una visione e un messaggio di sessualità distorta: corpi femminili e maschili sempre più mercificati, ostentazioni di simboli ed esaltazione dell’immagine. I sentimenti, la spiritualità, la sintonia psicologica e fisica sono repressi. L’immagine della guerra e dei suoi strumenti, come simboli fallici connessi alla violenza mi ha particolarmente colpita. Come si può vivere la propria sessualità liberandosi da queste deformazioni?

“Sessualità e guerra” è un tema affidato esclusivamente allo specialismo della psicologia e quasi completamente disatteso non solo dalla politica e dai media ma anche dal movimento pacifista. Tutto ciò che sta sotto alla evidenza politica-economica-morale non può più essere ignorato dalle nostre analisi e soprattutto dalle nostre pratiche di nonviolenza attiva. I roghi dei maghi e delle streghe prima (ci risiamo!), l'illuminismo e l'economicismo poi hanno annullato tutta una parte della nostra umanità e ci hanno consegnato una modernità dimezzata, la modernità del dominio esclusivo della mente e della razionalità, incapace perciò di opporsi alla violenza nelle sue radici pre-razionali. Si continua a potar rami ma non si va mai alle radici profonde della violenza. E la cultura di guerra sguazza in questa nostra assenza.

Lo so che sono temi delicati. Capaci di creare contraddizioni e perfino forse conflitti all'interno del movimento. Ci vuole prudenza. Ma mettere il capo sotto la sabbia non è mai una buona scelta. Al Forum sociale europeo del 2002 a Firenze diverse realtà del movimento proposero un seminario sulla violenza "nelle" religioni e non solo "delle" religioni, che fu partecipato da centinaia di persone anche molto giovani. Fummo profeti. Poco dopo, nel 2004, le elezioni statunitensi riportarono alla ribalta il problema. Stupore generale. Il mondo laico di sinistra non si aspettava questo "ritorno di Dio" in chiave reazionaria, che "sta scombinando il nostro lessico e in nostri riferimenti" (Rossanda).

A sua volta Lea Melandri scriveva (il manifesto 12 novembre 2004):

“Oggi si scopre che l'inconscio collettivo, che (negli USA ma il rischio resta alto anche anche in Italia) si è espresso "democraticamente" nel voto di una maggioranza silenziosa, è reazionario. Non era poi così difficile da immaginare: tutto ciò che è stato sepolto nella zona più oscura della vita dei singoli, identificato con la natura o con la parola rivelata di un Dio, per potersi modificare ha bisogno innanzi tutto di essere riconosciuto, narrato e analizzato, restituito alla cultura e alla politica con cui è sempre stato in rapporto, sia pure un rapporto alienato, strumentale, distruttivo della politica stessa e delle sue conquiste democratiche. L'immensa esperienza negativa che si è accumulata nelle viscere della storia nel corso dell'ultimo secolo, come conseguenza del fatto che sono stati considerati condizione quasi esclusiva del cambiamento i rapporti di produzione, oggi esce allo scoperto attraverso la retorica populista delle destre occidentali. Ma, se non ne abbiamo paura e, soprattutto se non abbiamo fretta di cancellarla o imitarla, forse è l'occasione per dare finalmente cittadinanza a esperienze essenziali del vivere umano. .... E' quasi incredibile che chi si batte per la giustizia sociale e per l'umanizzazione dei rapporti tra diversi (contro la guerra), non si renda conto che sottrarre all'insignificanza storica le pulsioni e le componenti più elementari della vita psichica è il passo indispensabile per non esserne pesantemente condizionati e ostacolati nello sforzo di costruire "un altro mondo possibile".

Il sociologo Gaston Bouthoul, citato in “Psicoanalisi della guerra” da Franco Fornari, il quale considera le ricerche di Bouthoul come il tentativo più serio di impostare i problemi della guerra in modo scientifico, afferma che è pura illusione pensare che la guerra dipenda interamente dalla volontà cosciente degli uomini, mentre al contrario le motivazioni coscienti della guerra sono da ritenere epifenomeni (Le guerre, Longanesi, Milano 1961).

La transizione dalla cultura di guerra alla cultura di pace perciò non può essere che un processo rivoluzionario. Deve investire tutti campi del convivere, certamente quelli economici e politici ma non solo quelli: anche i sistemi simbolici e religiosi, il dominio del sacro e l’organizzazione della psiche. La cultura di guerra ce la portiamo dentro nella quotidianità a nostra insaputa. Provocatoriamente potremmo dire che ce la portiamo inconsapevolmente anche nelle manifestazioni contro la guerra. Per questo necessita anche di un lavoro su noi stessi, sul nostro profondo, oltre le frontiere delle consapevolezze e perfino oltre i limiti del sogno, ai confini dei grandi silenzi, silenzi nostri e soprattutto della gente umile, della gente da sempre repressa, incapace perfino di sognare, ai confini del silenzio di donne e uomini dove l’inconscio si apre all’ignoto. Ai confini di quel silenzio che in noi, come in un utero pregno, cova nascite di mondi nuovi. Sul crinale di quei silenzi che dotti e maestri ignorano per cieca fiducia nella loro rumorosa, onnipotente razionalità necrofila, razionalità senza mistero. La rivoluzione della pace necessita di un lavoro per far emergere e sanare traumi che la mente e tutto il corpo hanno patito perfino a loro insaputa e che si manifestano poi come blocco della speranza, spavento senza parola, vuoto dell’anima, per passare dalla perdita inconsapevole e dall’angoscia talvolta senza nome alla ricerca di senso e di speranza.

In un mio scritto pubblicato su l’Unità, al quale ti riferisci nella tua prima domanda, dicevo: “… in questo senso più generale, di avvicinamento alla cultura della nonviolenza, il coraggio femminile, l’emersione della cultura femminile, l’affermarsi della soggettività femminile in ogni ambito della società, sono la nostra principale risorsa. La pace è donna”. Le donne coraggio che trovano la forza di uscire allo scoperto e di denunciare la violenza non solo affermano un principio di diritto e di giustizia, ma contribuiscono a far crescere globalmente la cultura di pace.

 

Firenze 5 ottobre 2006