TEMPI DI SORORITA’

A cura di Catti Cifatte

 

Le parole della nonviolenza non sono uniformi

 

Quando tempo fa proposi alla redazione della rivista di cambiare il titolo di testata introducendo sororità affianco a fraternità, ci fu un ampio dibattito nella redazione e nel gruppo di amici e amiche che ci leggono ed in particolare vi fu anche chi sottolineò, con convincimento, la sua contrarietà anche perché la parola sororità non esisteva nemmeno nel vocabolario del lingua italiana. Il dibattito fu interessante ed alla fine si rispettò il pronunciamento collegiale della redazione: non ci si avventurò nella scelta di “affiancamento delle diversità di genere” e si scelse di aggiungere al titolo di testata il sottotitolo “donne e uomini in ricerca e confronto comunitario”, formula che, in qualche modo, rimarca il concetto che sotto il termine maschile di “fraternità” si situano sia le donne che gli uomini.

Ma oggi prendo spunto da ciò per fare una riflessione sui conflitti generati dalle parole e su come sia necessario, con una buona dose di fantasia, esercitare il linguaggio delle differenze, e ciò aiuta la pratica di valorizzazione delle differenzedigenere che è in buona sostanza pratica nonviolenta. Mi interessa anche dimostrare che nonostante tutto, con una azione incidente in profondità, oggi possiamo tutti e tutte constatare, e sia chiaro non certo solo per merito della rubrica tds, che la parola sororità che già era in voga anche se in un ambito ristretto, ha fatto molta strada, come è giusto che sia, ed oggi sono anche sicura che molti/e di quelli/e che nella redazione presero parte e parola contro la mia proposta, rivedrebbero, almeno culturalmente, le loro posizioni di allora: dunque la trasformazione lessicale ha avuto un positivo “sopravvento” rispetto al riconoscimento formale da vocabolario!

Quanto sono importanti le parole e quanto sono poco importanti i vocabolari! Consumiamo parole che noi stessi/e costruiamo e alle quali diamo un significato: ma allora possiamo anche prenderci la libertà di coniare nuovi termini quando siamo in grado di dare pregnanza e valore alle parole stesse, e non preoccupiamoci del vocabolario! In fondo anche la parola nonviolenza, scritta tutta attaccata, non esiste nel vocabolario della lingua italiana eppure è molto tempo ormai che la parola è presente nel linguaggio italiano e quest’anno, più che mai, anche nella nostra rivista.

Ma come succede spesso per un pensiero alternativo (a volte anche quello femminista) la nonviolenza vien letta esclusivamente come negazione di una condizione che viene data per scontata, la violenza per l’appunto. Invece nonviolenza ha un significato molto importante in termini positivi, ha valore in sé come andiamo discutendo e considerando in questo percorso di riflessione e ricerca. Nonviolenza per noi femministe sta a significare quel comportamento etico, non disgiunto da azioni politiche, per lo smantellamento delpotere della dominanza, del predominio, della violenza e della guerra e quindi anche del potere neutro che condiziona tutte e tutti con un linguaggio omologante: un cambiamento che deve e può avvenire nel profondo, se siamo in grado di proporre azioni positive e trasformative d’inclusività e se sappiamo dimostrare che esse sono possibili.

Ci dice Monica Lanfranco: “So bene che è difficile accettare, in un mondo sempre più complesso, che ci si soffermi sull’uso delle parole: eppure ci sarà un motivo per il quale in moltissime le storiche, le antropologhe, le filosofe, le giornaliste, le studiose femministe centrano l’attenzione sull’uso delle parole, e mettono in guardia sulla stretta connessione tra la violenza del linguaggio comune e la violenza reale, nelle relazioni quotidiane come nella politica, nella comunicazione mediatica e quindi nel tessuto sociale.” ( “Agire la nonviolenza” Ed. Punto Rosso- Atti del convegno del PdRC - febbraio 2004 )

Prendiamo, ad esempio, la parola patria, essa viene usata da uomini e donne per significare il luogo, il territorio e il complesso dei legami di un popolo che si distingue per caratteristiche linguistiche, per abitare dentro confini amministrativi e politici. Spesso la patria, in quanto territorio, è il risultato di spartizioni dopo la guerra ma è opinione comune che occorra “difenderla” e lo stesso concetto, la difesa della patria, ci richiama sentimenti nazionalistici, spingendoci ad abbinarla anche alla guerra e alla legittimazione di ogni azione violenta, col riconoscimento di chi la protegge militarmente: tutte azioni ben diverse dal prenderci cura di un territorio e di un contesto sociale amato.

Ora nella nostra società multiculturale, dove, fortunatamentevengono superate le frontiere tra gli Stati, dove vengono ricercati mezzi comuni di scambio non solo monetario, dove vengono esaltate le caratteristiche di condivisione tra i popoli e la convivialità delle differenze, dove si ricercano linguaggi comuni ed internazionali, ebbene abbiamo talmente introiettato il concetto maschile di patria che difficilmente riusciamo a superare gli orizzonti che per secoli il linguaggio simbolico ha collegato a potestà, potere, governo, limite, confine e forze armate militari. Anche le “frecce tricolori” sono un assordante ed esplicito richiamo alla guerra nazionalista.

Occorrerebbe incominciarea parlare di matria per costruire un simbolico totalmente diverso che in qualche modo riequilibri lo sbilanciamento verso la guerra: matriapotrebbe significare richiamo alle origini, lingua materna, calore dell’infanzia, azioni di cura verso…, profondità di valori che sono sicuramente molto più importanti per la convivialità tra i popoli che non quelli legati al termine patria: i legami poi non sarebbero solo quelli con il territorio ma, anzi, prevalentemente con le persone del proprio contesto vitale…insomma un immaginario collettivo totalmente diverso: e ciò si badi bene vale per uomini e donne e sarebbe un cambiamento favorevole e molto positivo per entrambi i generi.

Un altro termine che potremmo cominciare ad esaminare e a cambiare è la parola partito. Essa in politica, deriva sicuramente da concetto di separazione, di divisione in parti, ancora una volta da concetti di confini! Al termine partito, ogni parte cerca di dare aggettivi per spiegare le diversità, aggiungendo separazione a separazione, i riferimenti non sono solo ai grandi movimenti storici del socialismo o del comunismo o del popolarismo, adesso abbiamo riferimenti alle piante e alle cose, e così nell’immaginario collettivo partito, negativo, si abbina ad un fiore o ad una pianta: l’ulivo conterrebbe la quercia, sotto un sole ridente, con sullo sfondo un campanile, in un prato di margherite, da lontano spuntano fiamme e bandiere ecc…ecc….

Proviamo a pensare che invece di dividerci in mille rivoli (la divisione in tanti partiti non è garanzia di democrazia, si badi bene!) ci si unisca in un amalgama, invece di essere parti si costituiscano degli insiemi sempre più ampi, invece che la selezione organizzativa si aprano le porte e ci si possa contaminare gli uni e unecon gli altri e le altre. Allora, prendendo spunto dal linguaggio domestico, proviamo a chiamare d’ora in poi le aggregazioni politiche: profumo.

Sì, perché è necessario che nel contempo attraggano, piacciano e si espandano in ogni luogo, che si senta spalancando le porte, perché ci vuole ovunque la massima apertura all’accoglienza, perché è necessario che si varchino tutte le soglie o tutti i balconi delle finestre e delle porte per passare da un posto all’altro, da una stanza all’altra da un legame all’altro, perché la legge è quella del superamento dei confini! Questo è il nuovo concetto della politica: costruire legami trasversali, compenetrazioni, contaminazioni e nuove relazioni possibilmente piacevoli: quale migliore metafora o parola per esprime tutto ciò se non il profumo che è tra l’altro un termine che si richiama ai sensi, alla sessualità e alla natura?

Le mie “provocazioni lessicali nonviolente”, discendono da quanto detto da Lidia Menapace nel testo “Agire la nonviolenza” citato: “(…) Che cosa si può praticare? Per prima cosa penso sia importante disinquinare il linguaggio politico da tutto il simbolico violento e militare: è un’operazione apparentemente semplice, ma costa molta fatica. (tattica, strategia, schieramento, scendo in campo, alzo e abbasso la guardia, … ) Sembra una sciocchezza ma chi immagina così le relazioni politiche, immagina così anche la realtà e in qualche modo così la deforma. Quindi il disinquinamento del linguaggio politico da tutto il simbolico bellico è un’ operazione che dovremmo proporci tutti quanti: le attività umane sono molteplici, si possono prendere metafore dall’agricoltura, dall’artigianato, dalla tecnologia avanzatissima, invece scartare proprio quelle belliche, escludere quindi anche quelle anche perché questo simbolico è di una monotonia insopportabile! L’azione politica nonviolenta sia invece sorprendente, molteplice, creativa, imprevedibile, mentre tutto ciò che è bellico e militare è talmente prevedibile che persino il loro abito si chiama uniforme! Invece l’azione politica nonviolenta non è mai uniforme….(…)

Anche per me fare nonviolenza con le parole significa avere la forza e il coraggio del proprio pensiero, della parola che parte dal corpo, ed avere sempre l’atteggiamento del dubbio di ciò che ci vien proposto dal linguaggio neutro corrente, per cercare di capire che cosa c’è dietro la proposta e se veramente è coerente con le esigenze di tutti/e donne e uomini; ricercare nuovi linguaggi, sviluppare alternative ironiche ed auto-ironiche, singolarmente ed in gruppo. Leggo quindi con piacere la notizia su “Minime” del foglio “La domenica della nonviolenza” e ad essa mi rifaccio per chiudere con una prospettivaed un impegno:

La Casa internazionale delle donne a Roma ha promosso un ciclo di incontri sul tema "Singolari differenze. Differenze generi diversità: luoghi e spazi della molteplicità. Per un buon uso delle parole".

Un percorso di approfondimento e di studio articolato in più moduli integrati e ispirati alla logica di lavoro di laboratorio, che permetta di partire dall'esperienza singolare e plurale per restarle fedele quale luogo di  molteplicità in continuo fare/farsi e disfare/disfarsi.

Bello, brutto, eccesso, mostruosità, singolare, plurale trovano nuovi spazi di dislocazione, che nella politica femminista della differenza sessuale e nella costruzione di una sessualità a partire dall'esperienza dei corpi, innanzitutto il proprio, hanno avuto origine.

La distinzione tra corpo biologico e corpo parlante ed il primato di quest’ultimo sul primo stanno alla base di una rivoluzione di pensiero e di pratiche già rese operative, disconoscere la quale non può che contribuire a produrre arretramenti culturali e politici del vivere in comune.