TEMPI DI SORORITA’

a cura di Catti Cifatte

 

Considerazione dei corpi

 

Leggo dal libro “Donne disarmanti” di M. Lanfranco e M. G. Di Rienzo quali sono gli scopi dell’azione nonviolenta: - minare la struttura di dominio, creare un’alternativa che la sostituisca; - sfidare l’ingiustizia, difendere l’alternativa, negoziare per risolvere un conflitto;-porre termine all’oppressione senza ferire….;- risolvere un conflitto in modo da rendere la violenza inefficace.

Se assumiamo questi obiettivi per il superamento di ogni conflitto, soprattutto nella prospettiva di genere, penso che occorra, prima di tutto, che impariamo a “considerare” il nostro corpo come possibile e principale strumento di pacificazione, anche attraverso la consapevolezza che il corpo sessuato è l’elemento che ci accomuna, il minimo comune denominatore degli appartenenti ai generi maschile e femminile, e che usare il proprio corpo, nell’ambito della scelta nonviolenta, significa diversificare approccio e modalità da parte femminile e da parte maschile.

Esaminare l’appartenenza ci costringe a fare i conti con i diversi ruoli che in parte sono connaturati alla condizione sessuale ed in parte vengono costruiti nella relazione sociale: per esempio è generalmente attribuito alla donna un ruolo di cura legato alla maternità, in conseguenza facilmente si è portati a considerarla soggetto di mediazione propensa alle azioni nonviolente. In gran parte ciò corrisponde alla realtà, ma anche gli uomini possano utilizzare il proprio corpo come elemento di supporto alla azione nonviolenta: esercitarsi insieme, maschi e femmine, alla nonviolenza garantisce più facilmente il superamento dei conflitti di genere.

Inoltre, mentre da un lato prendere in considerazione il corpo significa partiredalla condizione sessuata delle persone, dall’altro lato la conoscenza evidenzia la compresenza, la stretta correlazione di materialità e spiritualità nella unicità della persona. Si potrebbe dire sinteticamente che il nostro corpo esiste nella misura in cui si rapporta sia con altri corpi sia con elementi estranei al corpo che assumono un significato nei diversi soggetti come la sensibilità, la spiritualità, i sentimenti, la profondità dell’intelligenza. Scegliere la nonviolenza significa quindi partecipare come persona con il corpo sessuato e con tutte le componenti della persona anche quelle che sono, per così dire, estranee alla fisicità corporea.

Quali possono essere dunque i contesti nei quali esercitare/esemplificare azioni nonviolente, per il superamento dei conflitti? Di seguito mi soffermo brevemente su tre ambiti, la famiglia, la guerra e la comunità religiosa, dentro i quali viviamo, oggi, senza accorgerci di essere spesso schierati dalla parte della violenza: il percorso diventa quindi, anche per me, una ricerca e un miglioramento progressivo.

 

  • La famiglia.

La diversità sessuale nel processo procreativo, per esempio, che viene considerata la matrice dei ruoli maschile e femminile nella famiglia tradizionale, ha assunto, nei contesti di spazio e tempo diversi, una connotazione determinante per imprimere stereotipi funzionali alla organizzazione sociale: allorquando il padre ha potuto riconoscere la sua funzione di genitore, ha voluto imporre, molto spesso con la forza fisica,il suo potere di proprietario (padre-padrone) sulla moglie e sui figli ed ha determinato relazioni di potere che ancora oggi sono impresse nelle “regole“ delle società, anche le più evolute.

Prevalenti stereotipi del potere o della diversificazione dei ruoli nell’ambito di quella che viene definita la cellula primordiale della nostra società, non sono altro che figure che si impongono per forza fisica e per il riproporsi di condizioni di sottomissione e comando tipiche del modello della dominanza. Sappiamo che è più che mai necessario un superamento di tale condizione e non solo per la tutela delle donne, soggetto generalmente più debole, ma anche per la stessa figura dei padri, che sta evolvendosi. Tuttavia ci domandiamo perché alcuni esponenti delle gerarchie ecclesiastiche si richiamano fortemente al concetto tradizionale della famiglia?Non c’è forse il timore che si sfaldi uno dei cardini della struttura sociale ed ecclesiale del potere patriarcale? E’ veramente accertato che lo scardinamento della sovrastruttura della famiglia può condurre ad un impoverimento, alla perdita di valori, al disorientamento sociale? Predire sventure e incutere paura non genera forse barriere, chiusure e roccaforti in condizioni peggiori?

Il femminismo e la nonviolenza si coniugano in una prospettiva diversa. In una società dove non esistono gerarchie di potere, come nelle società prepatriarcali, le cosiddette società della partner-chip, la diversità sessuale e le differenti funzioni materna e paterna possono costituire riferimento per i bambini e le bambine nell’ambito di una cerchia d’appartenenza più ampia, quale il villaggio o la comunità dove il riconoscimento del corpo materno e paterno deriva dalla connotazione sessuata essenziale e non già dalla forza fisica o da una imposizione religiosa. In una società più libera e responsabile c’è la ricerca, e non la negazione, del piacere; c’è la volontà di rispettare l’altro/a e nonsi perdono i valori vitali perché vengono scelti anziché subiti.

Nella nostra società che consideriamo più evoluta, coppie di genitori, altrettanto liberamente e nella consapevolezza degli effetti dannosi della trasmissione degli stereotipi di genere, possono informare l’educazione dei figli ad un modello di convivialità, di collaborazione, di relazione paritaria, di mutuo e reciproco sostegno di talché la famiglia diventa luogo di crescita degli individuie di esercizio di nonviolenza. Il corpo della mamma e del papà è strumento positivo di conoscenza delle diversità sessuali, luogo di sensibilità della relazione e fin da piccoli se ne può godere l’attaccamento ed il piacere del contatto e della disponibilità all’accoglienza senza identificare nell’uno/a e nell’altro/a modelli esclusivi.

 

2) Gli stereotipi e la guerra.

Da adulti purtroppo siamo condizionati da altri stereotipi di potere: quasi sempre un corpo imponente, robusto e con connotati accentuatamente maschili rappresenta la forza bruta o il cosiddetto “macho” a cui si contrappone la rappresentazione della debolezza coincidente con una figura femminile minuta. Spesso chi esercita sul suo corpo discipline ginniche tese allo sforzo, alla robustezza o all’accentuazione della muscolatura, mira all’esaltazione dei lati più negativi della forza fisica non considerando quanto deformante sia il riferimento allo stereotipo del potere.

All’opposto tante giovani donne sono alla disperata ricerca di modificazione del proprio corpo pretendendone l’adeguamento a modelli di femminilità congeniale al machismo: anoressia e bulimia sono l’altra immagine di una stessa medaglia. Oppuretante donne mirano ad un rafforzamento della propria figura ricorrendo alle pratiche di culturismo: sviluppando parti del corpo a misura e paragone della parti maschili, in realtà rischiando di subordinare la propria corporeità allo stereotipo del potere guerresco.

Il gioco e i condizionamenti sono presenti nelle immagini che ci vengono rappresentate dai media, sulla carta stampata, sugli schermi. Gli apparati militari, nelle guerre a cui assistiamo in questo periodo storico non sono dissimili da quelle che nei tempi hanno portato a identificare la guerra, la morte, la spada o il fucile con il potere. L’occhio si sofferma più sull’arma che sul soggetto che la detiene. Chi spara e ferisce è annullato così come la vittima, l’obiettivo militare da colpire o il bersaglio che è rappresentato schematicamente sugli schermi dei radar: dove sono le persone? I loro corpi? Siano essi militari o civili. Ci hanno disabituato a vedere gli occhi, i capelli (teste rasate), la sinuosità delle forme, le mani, i piedi, non conosciamo la parola dei soggetti che ci vengono presentati…

Proiettili, elicotteri, razzi, bombe, oggetti bellici portati da uomini e donne (in questi ultimi tempi quasi ogni esercito nazionale ha arruolato donne militari e volontarie) in atteggiamento trionfante e di sadico potere sui più deboli, sono evidente richiamo di comando e di violenza paragonabile alla dotazione di armi dei crociati, all’armatura dei soldati di tutti i tempi dentro alla quale poteva solo immaginarsi un corpo, come oggi il corpo dei militari è spesso avvolto nelle tute mimetiche e sparisce nel contesto naturale della terra del deserto, piuttosto che della boscaglia in montagna, per annullarsi come identità.

Straziante e dolorosa diventa quindi la rappresentazione del corpo e dei corpi degli offesi: anche qui la violenza della guerra non considera i corpi! Agghiaccianti le testimonianze dei soldati e delle soldatesse che tornano da campagne di guerra quando denunciano la totale insensibilità alla quale si perviene dopo fin troppo facili attacchi e bombardamenti sui centri abitati o sulle popolazioni civili! Le conseguenze psicologiche su queste giovani vittime attive della guerra sono incalcolabili: come recuperare in loro una dimensione umana positiva? Questo può essere terreno di crescita culturale nonviolenta come stanno cercando di fare madri e familiari di soldati/esse statunitensi di ritorno dall’Irak che hanno abbracciato convinte il pacifismo perché provate nei fatti.

 

  • La comunità religiosa.

Grande responsabilità hanno le comunità religiose nella formazione della coscienza nonviolenta. Ma purtroppo registriamo in negativo ancora una volta una chiusura rispetto al valore del corpo. In ciò non c’è distinzione tra le diverse religioni che storicamente si affacciano nel nostro mare mediterraneo: sia l’ebraismo, che il cristianesimo, che l’islam hanno esercitato forti pregiudizi nei confronti dei corpi. Il distacco del corpo dall’anima, il martirio, il sacrificio, i pregiudizi sul sesso sono tutte forme di denigrazione dei corpi. Esempio eclatante dell’influsso negativo del fondamentalismo sono i kamikaze, donne o uomini, per i quali il corpo non merita considerazione.

Perseverare quindi nell’azione nonviolenta, in questo ambito, significa per me continuare una sorta di conflitto positivo, che dura ormai da molti anni, per mettere in luce le svariate possibilità di esistere di una “chiesa altra” e so che ne può valer la pena perché, abbandonando le azioni clamorose dei primi tempi della contestazione ecclesiale, la riscoperta di una dimensione vissuta e sperimentata in comunità e nei gruppi-donne, si è già fatta concretezza liberatrice per molti/e di noi.

In comunità, dove i rapporti fra i sessi sono paritari nei diversi approcci culturali e di sentimento, dove non vi è la negazione dell’essere femminile ma la valorizzazione insieme al maschile e dove vengono il più possibile allontanati gli stereotipi negativi di potere, di ruoli di dominio e discriminazione si può concretamente esercitare la parola, esprimere lo spezzare il pane anche con le mani femminili a cui è sempre stato negato, e lo scambio di segni di pace nel contatto corporeo, il confronto o talvolta lo scontro verbale per esprimere il proprio pensiero non annulla le diversità, non tende all’omologazione, le opinioni politiche di ciascuna/o sono rispettate.

Occorre molto tempo, perseveranza, pazienza e volontà di continuare: e come un impegno che ciascuno/a di noi assume nei confronti di una obiettivo superiore che rimane fermo, come una meta da raggiungere insieme: un esercizio di nonviolenza, disciplina del comportamento, come un esercizio di fedeltà, sforzandosi sempre di partecipare dalla parte dei corpi degli e delle ultime.

 

Genova 10/04/07