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ALCUNE DOMANDE.
È LA CHIESA CHE DOBBIAMO AMARE OPPURE GLI UOMINI E IL REGNO?

Nino Lisi (*)

Adista n. 92/2009

 

Ho letto e riletto, con attenzione, durante brevi vacanze, la trascrizione del forum redazionale del 24 giugno (Adista n. 80/09) e sono sorte in me alcune domande alle quali mi piacerebbe tanto che i redattori di Adista, che leggo da alcuni decenni, dessero una risposta.

Eccole.

Ma chi, e dove, e quando, e come ha detto o scritto o lasciato scrivere che il soggetto da amare sia la chiesa e che ciò sia questione cruciale?

Sappiamo tutti cosa rispose Gesù – del quale mi fecero innamorare a vent’anni e l’innamoramento dura ancora alle soglie degli ottanta – a chi gli chiese quale fosse il comandamento più grande; e parimenti sappiamo che senza neppure esserne richiesto indicò anche quale fosse il secondo, pari per importanza al primo. Nella risposta, non c’è menzione di chiesa. Sono menzionati Dio e l’Uomo. C’è poi Giovanni che dà implicitamente del bugiardo a chi affermasse di amare Dio (che non vede) senza amare concretamente gli esseri umani che vede e sente e tocca.

Ma allora – ed ecco la seconda domanda – perché il forum si è tanto impegnato a distinguere il disagio dal dissenso e a chiedersi se chi ama la chiesa criticandola l’ami di meno o di più di chi l’ama e basta, invece di dibattere su come si possa e si debba amare il prossimo, a partire da chi più è bisognoso sofferente o perseguitato, qui ed oggi  nel nostro paese e più in generale nel mondo, e come ci si possa riscattare dal “peccato sociale e strutturale che sacrifica milioni di persone sull’altare della produzione per il consumo illimitato” (L. Boff, Adista contesti n. 85/09) ovvero dal capitalismo che “è peccato. È la negazione del Vangelo” (don Miguel D’Escoto, Adista contesti n. 85/09)?

Gesù – ed è questo un terzo gruppo di domande – è venuto ad annunciare la chiesa o il Regno di Dio come “trasfigurazione e trasformazione radicale della realtà, di questa realtà, che sarebbe stata finalmente introdotta nell’ordine della volontà di Dio” (J.M. Vigil, Adista contesti n. 54/08)? E se è venuto ad annunciare il Regno, non è salutare che un cristianesimo regnocentrico sia in conflitto con il cristianesimo ecclesiocentrico affinché la chiesa si converta e riduca “la differenza e la distanza” tra sé e il Regno? Anzi, “ogni  cristiano, seguace di Cristo, (non) è chiamato a denunciare nella Chiesa ciò che va contro il Regno” (J.M. Vigil Adista contesti n. 54/08)?

Infine, quanto al Concilio non sarebbe meglio che in luogo di partecipare a commemorazioni, convegni e dibattiti sulla sua ermeneutica, chi ci crede ne mettesse in pratica la lezione assumendo su di sé la responsabilità di essere parte del popolo di Dio e si organizzasse per annunciare il Regno lottando per il suo avvento?

In questo senso non sarebbe il caso di accettare l’indicazione di Serena Noceti (Adista n. 80/09) di promuovere una rete diffusa sul territorio ma finalizzandola alla catechesi del Regno per soppiantare nel tempo il cristianesimo ecclesiocentrico con il cristianesimo regnocentrico? Sarebbe una  pietra per la costruzione del Regno e offrirebbe al popolo un’alternativa evangelica al devozionismo, alimentato dalla gerarchia con espedienti per nulla evangelici, quali ad esempio le madonnine di Fatima calate dall’alto in questi giorni di agosto da elicotteri delle forze dell’ordine tra genti  intimorite e commosse e per tanto alienate.

Concludo non più con una domanda, ma con una proposta. Se alcuni fossero comunque interessati a tenere in conto le categorie del dissenso e del disagio, ne considerino anche una terza, quella della distanza: riguarda coloro – e mi risulta che non siamo pochi – che continuano a sforzarsi di stare nella sequela di Cristo e proprio per questo prendono o hanno preso le distanze da questa chiesa gerarchica, senza tuttavia disinteressarsi di ciò che fa la gerarchia per l’influenza che essa esercita sul mondo politico e sull’opinione pubblica. Ma questo più che di Fede è un problema politico che meriterebbe un discorso a parte.

* Comunità di base di S. Paolo, Roma


Siamo contenti, caro Lisi, di aver ricevuto questa lettera, di pubblicarla e di rispondervi. È anche così, credo, che si svolge la nostra quotidiana (e pluridecennale) “meditazione sulla chiesa”. Anche così: nel confronto e nel dialogo tra posizioni, sensibilità, sottolineature diverse e tuttavia non incompatibili; capaci, anzi, di favorire un approfondimento e un affinamento della nostra comprensione e del nostro amore per il mondo e i fratelli.

Devo confessare, ad esempio, che ad una prima lettura il testo mi è sembrato quasi una provocazione a causa del tono un po’ radicale ed assertivo; e per l’unilateralità delle citazioni.

Poi, però, ho trovato utile rileggerla con calma. Mi sembra di condividere le preoccupazioni e l’intenzione. È vero, mi sembra, che con l’espressione “amare la chiesa” si possono intendere cose molto diverse. Per molti significa un atteggiamento passivo, indulgente verso peccati, tradimenti, autoritarismi; significa accettare il clericalismo e la volontà di potere in veste sacrale (G. Bevilacqua). Troppo spesso per chiesa s’intende semplicemente l’istituzione, la gerarchia, la “forza sociale”. Non così però la pensavano De Lubac, Mazzolari, Milani… “Dove ci sono uomini che si amano, lì c’è la chiesa”, diceva don Costa, che pur non era un teologo rivoluzionario.

Se la chiesa è la comunione dei credenti (e dunque potenzialmente di tutti i figli di Dio), mistero e sacramento dell’amore di Dio, credo che non possiamo non amarla. Tra l’amore con Dio, quello per gli uomini, e quello nella chiesa – anzi nelle chiese – (e io aggiungere quello verso-in tutto il cosmo) c’è un legame che è quasi una continuità, un’identità…

In questo senso credo che “amare la chiesa” sia davvero una questione cruciale, dirimente, poiché essa vive di amore: senza di questo essa neppure esiste (non bastano encicliche e codici!). Ecco perché a me sembra che se vogliamo “migliorare la chiesa” (mi si passi l’espressione un po’ rozza) non possiamo farlo se non attraverso un supplemento di amore.

Come poi si debba esprimere questo amore credo sia difficile definire. Certo l’amore può esprimersi anche con la critica e la severità; ma sono convinto che critica, severità ed anche polemica (insomma: disagio, dissenso e anche distanza) abbiano senso e fecondità se sono accompagnate dall’amore. E anche dalla gratitudine: la buona notizia di cui ci siamo innamorati non l’abbiamo scoperta noi; ma ce l’ha trasmessa la chiesa. E tuttavia – credo che siamo d’accordo – proprio perché l’amore è pluriforme e talora insondabile, i processi o le gare su chi ha meno oppure più amore nella-per la chiesa sono fuori luogo. E per “chiesa” mi sembra ovvio riconoscere che si tratta per ciascuno della chiesa (e della religione) cui appartiene. Sul tema mi permetto di citare l’ultimo numero – settembre – di Koinonia, veramente bellissimo (tel. 0573/22046 - Pistoia).

Così, caro Lisi, credo che possiamo costruire per quel che possiamo il cristianesimo regnocentrico o cristocentrico (Teilhard diceva il Pleroma). E credo che, magari con sensibilità e parole diverse, possiamo essere d’accordo sull’essenziale.

Angelo Bertani