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Beppe Manni

IL CARCERE DI SANT’ANNA

La Gazzetta di Modena 31 ottobre 2010

Nel Carcere di Sant’Anna di Modena sono ospitate quasi 500 persone di cui 23 nella sezione femminile. Oltre il doppio della capienza tollerabile. In gran parte sono stranieri, poi tossicodipendenti, gente senza fissa dimora.  Molti giovani. In crescita le pene di breve durata per ‘piccoli reati’. Molto simile la situazione negli istituti di Saliceta San Giuliano e Castelfranco.

Il gruppo Carcere e Città di Modena trova crescenti difficoltà nella propria attività di volontariato nell’organizzare i colloqui con i detenuti, nel programmare attività ricreative, sportive e culturali.  Sono praticamente sospese, le possibilità di far incontrare il detenuto con i figli o il coniuge, gli accompagnamenti  in permesso. A causa del sovraffollamento e la carenza di personale tutto il personale disponibile è utilizzato solo per la custodia.

Il carcere diventa così un luogo sempre più chiuso e invivibile. Sono rari i programmi di reinserimento nella società civile e così le misure alternative alla detenzione. Anche perché i magistrati di sorveglianza si trovano di fronte a cittadini sempre più sospettosi perché disinformati delle reali situazioni di dolore e di disperazione dei detenuti. Ma anche dei reali vantaggi che queste misure possono offrire sia per il ‘recupero’ dei detenuti che per la sicurezza stessa della città.

La tragica situazione dei carcerati è sottolineata dai suicidi.  Quest’anno ci sono stati in Italia già sessanta suicidi e vari tentativi di suicidio, 20 volte maggiore rispetto alla popolazione fuori.

A Bologna in Piazza Re Enzo è stata allestita il 22, 23, 24  ottobre una “copia” di cella carceraria. All’iniziativa ha partecipato anche il gruppo Carcere e Città di Modena fondato da Paola Cigarini Presidente della Conferenza Regionale Volontariato. I numerosi cittadini che hanno visitato la ‘cella’, hanno potuto costatare direttamente quanto sia difficile vivere in tre o quattro, di culture e lingue diverse, 22 ore su 24, all'interno di una cameretta tre per due, dove la porta è chiusa e lo spazio vitale è ridotto al minimo. Le tensioni aumentano, ogni cosa può diventare occasione di litigio.  Una donna di 36 anni nel carcere di S. Anna scrive: “…Mi sveglio al mattino col pensiero di come sarò trattata, ormai mi sto trasformando, la mia cella è sempre più una gabbia da cani. Troppo odio scorre nei corridoi, entra in noi cambiando tutto, la nostra bontà l’educazione ricevuta, i valori. Tutto questo lascia un tremendo dolore interno”.. Vito Zincani procuratore della Repubblica di Modena  dopo aver visitato il carcere concludeva: “Il carcere di S. Anna è una sorta di discarica sociale dove vengono relegate  quelle problematiche che non trovano spazio nella società” (Gazzetta di Modena 20-8-10)

Modena civile e democratica deve finalmente prendere consapevolezza di questa comunità della città e farsene carico.


2)

Beppe Manni

QUATTRO NOVEMBRE IL MACELLO DELLE GUERRE

Gazzetta di Modena 4 Novembre 2010

 

Con la vittoria italiana del 4 novembre del 1918, si concluse il Risorgimento con l’unificazione dell’Italia, iniziata nel 1848 con la “Prima guerra di indipendenza’.

I modenesi furono direttamente interessati a questa avventura dalla cospirazione di Ciro Menotti del 1831 fino all’annessione del Ducato di Modena al Regno d’Italia con il plebiscito del 1860.

Dopo l’impietosa e realistica analisi di don Milani nel libretto “L’obbedienza non è più una virtù” sulle guerre combattute dall’Italia dal 1860 al 1940,  non riusciamo più ad ascoltare senza disagio lo squillo delle fanfare militari.

Dal 1915 al 1918 furono massacrati 650.000 (seicentocinquantamila) giovani italiani, mandati a uccidere altri  giovani tedeschi francesi e inglesi. Contadini e operai che non desideravano altro che lavorare nelle fabbriche e nei campi o stare con le loro famiglie. L’ultima guerra mondiale è costata mezzo milione di morti italiani, militari e civili.

L’articolo 11 della nostra Costituzione predica: “L’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali”. Ma i nostri governi di sinistra e di destra, laici e cattolici, si sono dimenticati delle antiche e recenti tragedie e hanno continuato ad intervenire militarmente in diversi scacchieri del mondo con la scusa di portare la pace, in Iraq, nell’ex Yugoslavia, in Afganithan (solo per citare gli esempi più eclatanti).

Sappiamo ormai che questi interventi erano “non giustificati”, hanno tragicamente aggravato la situazione di partenza e scatenato altri conflitti che non riusciamo più a controllare.

Non si capisce perché l’automobilista che uccide involontariamente un passante vada in galera giustamente vituperato dall’opinione pubblica o lo zio che strangola una nipote sia oggetto di condanna generale; e che politici italiani e stranieri (Berlusconi, Casini, Fini, Blair e D’Alema ecc) che hanno voluto o appoggiato guerre palesemente ingiuste,  uccidendo centinaia di migliaia di donne e bambini, ricoprano ancora ruoli istituzionali, rilascino interviste in televisione e siano giustificati da papi e vescovi.

Leggevamo nei testi scolastici, che la prima unificazione d’Italia era avvenuta nelle trincee del Carso che aveva affratellato soldati siciliani, sardi, toscani e lombardi. Ma l’odio, la maledizione e la morte non affratella proprio nessuno.

Oggi a 150 anni dell’unificazione d’Italia ci sentiamo certamente italiani, dal nord al Sud. Ancora prima delle guerre risorgimentali ci ha unito una lunga storia comune di lingua e cultura. Ma ci siamo accorti di essere tutti italiani solo quando nelle fabbriche del nord, alla FIAT, nelle ceramiche di Sassuolo e nei maglifici di Carpi allo stesso banco di lavoro, si sono incontrati uomini e donne che venivano da ogni parte d’Italia. Solidali nel lavoro solidali e affratellati nella ricerca di una migliore condizione di lavoro e di un’Italia diversa. O quando i bambini figli di immigrati meridionali, imparavano l’italiano e la storia patria tenuti per mano dalla brava maestra di turno.

Così sarà, ci auguriamo, per i futuri cittadini italiani figli di altri immigrati e che sono arrivati in Italia da altre patrie.