Cnb: la coscienza da diritto a non curarsi

Il Comitato nazionale di bioetica ha votato un documento in cui si stabilisce che il malato capace di intendere e di volere e di poter esprimere questo intendimento e questa volontà possa rifutare o interrompere le cure. E il medico? Può anche lui scegliere liberamente, fermo restando che il diritto dell’assistito deve trovare riconoscimento

Quale tipo di rapporto deve intercorre fra medico e paziente? Ma soprattutto come si deve rapportare il referente sanitario di fronte alla possibile scelta del suo assistito di non sottoporsi a terapie mediche, preferendo in caso anche l’estrema scelta di incamminarsi verso la morte? Domande complesse, rese tali anche dalla difficoltà di stabilire il confine fra accanimento clinico-diagnostico e proporzionata cura, e di trovare una sintesi equilibrata fra la libertà che spetta ai seguaci di Ippocrate ma anche agli ammalati. Di questo si è occupato il Comitato nazionale di Bioetica analizzando e votando il documento “Rifiuto e rinuncia consapevole al trattamento sanitario nella relazione paziente-medico”. Un parere curato dai professori Stefano Canestri, Lorenzo d’Avack e Laura Palazzoni e approvato con la sola astensione di tre membri del Cnb.

L’organo consultivo che fa capo alla presidenza del Consiglio, come spiegato in una nota diffusa a fine seduta, si è fatto carico di affrontare la questione del rifiuto (richiesta di non inizio) e della rinuncia (richiesta di sospensione) di trattamenti sanitari salva-vita da parte del “paziente cosciente e capace di intendere e di volere”. Cioè di una persona che pur ammalata sia in grado, dopo essere stata adeguatamente informata sulle terapie che lo aspettano, di manifestare “in modo attuale la propria volontà”. Condizione più semplice, certamente, di altri casi in cui i pazienti si trovano nell’incapacità di esprimersi e di cui, afferma il Cnb, “non si è tenuto conto”. Si tratta, per intenderci, dei minori, dei malati di mente, dei pazienti in stato vegetativo persistente.

Dunque il caso di Eluana Englaro, per esempio, non è stato oggetto dell’analisi, anche perché a complicare notevolmente la situazione e a rendere più difficile la formulazione di consigli da parte del Cnb è l’impossibilità della ragazza di esprimere la propria volontà.

Comunque nell’ambito delle situazioni esaminate -cioè quelle relative a pazienti capaci di intendere e di volere e di veicolare all’esterno questa intenzione e volontà- è stato opportuno, fa sapere il Cnb, differenziare la posizione del paziente autonomo “in grado di sottrarsi alla terapia indesiderata senza coinvolgere terzi” da quella del paziente che si trova in “condizioni di dipendenza tali da rendere necessario l’intervento del medico”.

Ebbene il Comitato, pur con la contrarietà di tre esponenti, ha stabilito alcuni principi “prevalentemente condivisi”. In primis che il medico “deve tenere conto della competente richiesta di sospensione dei trattamenti da parte del paziente” e “deve sempre agire previo consenso di quest’ultimo rispetto al trattamento da attivare o attivato”. Anche in materia di consenso informato, il Comitato sottolinea l’importanza che esso non sia esaurisca “in uno sbrigativo adempimento burocratico”, ma consista in una vera e propria opera di “comunicazione e interazione” medico e paziente.

Per quanto riguarda sempre il comportamento del sanitario, ferma restando la condanna per ogni tipo di “abbandono terapeutico”, il principio di riferimento deve essere quello di una “duplice consapevolezza”. Il medico, cioè, deve evitare ogni forma di accanimento clinico, che “si configura come illecita”, ma al contempo deve garantire che il rifiuto o la rinuncia da parte dell’assistito verso terapie salva vita rimanga “un’ipotesi estrema”. Equilibrio, dunque, tra più livelli: informazione sulle cure a cui si intende sottoporre il malato, rifiuto di eccessi terapeutici inutili senza però cedere a sbrigativi abbandoni.

Nel caso di paziente in condizione di dipendenza, che pur potendo esprimere consapevolmente la rinuncia alle cure necessiti per farlo di un comportamento attivo da parte del medico, il Cnb afferma che “va riconosciuto il diritto a quest’ultimo di astensione da comportamenti ritenuti contrari alle proprie concezioni etiche e professionali”, ma al tempo stesso garantendo comunque al paziente il diritto “ad ottenere altrimenti la realizzazione della propria richiesta”. Quel che accade per l’interruzione volontaria di gravidanza, quindi.

Una decisione importante, quella di oggi, sebbene nata sotto la stella polare della divisione. Il Comitato infatti ha registrato una spaccatura, per altro non nuova, fra posizioni “pro-life”, proprie tra l’altro di alcuni membri cattolici, e posizione “pro-choice”, con i primi convinti dell’esistenza di “un obbligo morale a vivere”, fondato sul convincimento che la vita umana sia un bene indisponibile da preservare garantendo cure mediche adeguate, e i secondi sostenitori della libertà di scelta, anche quella di non lasciarsi curare.

In verità su questo diritto anche i cattolici hanno ratificato l’impossibilità di imporre un diktat, riconoscendo alla loro battaglia per “la vita ad ogni costo” un limite insormontabile: il diritto di rifiutare le cure non essendo il trattamento sanitario coercibile. Così che per i primi sarebbe preferibile che il medico non svolga una attività omissiva o commissiva che conduca l’assistito alla morte, mentre per i secondi sarebbe moralmente e giuridicamente giustificabile la richiesta di rifiuto o di rinuncia al trattamento sanitario da parte di un paziente sia autonomo che in situazione di dipendenza.

“Non si potrà non tenerne conto in merito ad una legge sul testamento biologico”, così la deputata dipietrista Silvana Mura, membro della commissione affari sociali, ha commentato il voto del Comitato, sottolineando con soddisfazione come “il Cnb riconosce la preminenza della volontà del paziente su qualsiasi tipo di cura. E’ evidente – ha proseguita la Mura – che una decisione in questo senso apre la strada anche al riconoscimento di una dichiarazione di volontà, inconfutabilmente espressa in forma scritta, nella quale si esprime diniego a ricevere cure mediche in stati di incoscienza come quello vegetativo permanente”. Perché? Perché in caso contrario, qualora ciò non accadesse, si aprirebbe “una disparità di trattamento” a danno soprattutto di “quello più debole perchè incosciente”, impossibilitato a “far valere la sua volontà già espressa in forma scritta”.

fonte: www.aprileonline.info