EPPURE UN SENSO CI SAREBBE…

di Gianni Geraci (*)
da Tempi di fraternità, novembre 2008

Finalmente ho avuto tempo di leggere con calma buona parte degli interventi che hanno accompagnato le polemiche dichiarazioni in cui Peter Tatchell ha sostenuto che la proposta di traslare la salma del cardinal John Henry Newman ha come unico scopo quello di «sotterrare l’omosessualità di Newman e sconfessare il suo amore per un altro uomo».
Dico la verità: sono rimasto perplesso leggendo queste dichiarazioni, ma sono rimasto ugualmente perplesso leggendo gli articoli di quanti hanno descritto in maniera categorica il rapporto tra il cardinale John Henry Newman e padre Ambrose St. Johnn come una solida amicizia virile che non può in alcun modo far pensare a una inclinazione omosessuale.
Ho così deciso di dire la mia, facendo tesoro della mia esperienza di omosessuale credente.

Un aspetto che, molto probabilmente, nessuno dei protagonisti di questa polemica condivide e che mi permette di affrontare l’argomento con l’autorevolezza di chi ha avuto modo di riflettere e di rielaborare delle esperienza che ha vissuto in prima persona. Avviso quanti stanno leggendo queste mie righe di non aspettarsi da me una risposta definitiva sull’orientamento sessuale del cardinal Newman: nessuno dei tanti scritti che ci ha lascito ci autorizza a escludere aprioristicamente alcuna ipotesi.

E anche se ci fosse qualche scritto particolarmente significativo (qualche cosa di simile a una lettera d’amore) il suo significato non potrebbe mai essere definitivo, come dimostra la vicenda di Pier Vittorio Tondelli, lo scrittore italiano che ha costruito sulla sua omosessualità buona parte del suo successo e che ora, a distanza di poco meno di vent’anni dalla sua morte, contro evidenze molto più solide di quelle che potremo mai avere sul cardinal Newman, qualcuno inizia a descrivere come eterosessuale.

Si potrebbe addirittura dire che solo uno sciocco sceglie di perdere il suo tempo per parlare dell’orientamento sessuale del cardinal Newman, se non ci fossero articoli di studiosi prestigiosi come Inos Biffi e Ian Ker che, nelle ultime settimane, hanno deciso di affrontare questo argomento.

Ecco perché ho scelto di non sottrarmi all’invito, che ho ricevuto, di commentare il dibattito che è nato in seguito alle dichiarazioni di Peter Tatchell, se una sola delle cose che scriverò dovesse suscitare in qualcuno il desiderio di conoscere meglio la figura e le opere di un uomo come il cardinal Newman, un risultato buono, il mio lavoro, l’avrebbe comunque sortito.

Inizio con un’affermazione di principio, che mi pare importante fare per sgombrare il campo da qualunque equivoco: «Sappiate che sono convinto, profondamente convinto, che anche le persone omosessuali sono chiamate alla santità». Non si tratta di una mia idea personale, si tratta di una convinzione che nasce dalla mia fedele adesione al magistero della Chiesa cattolica che parla di questa vocazione alla salvezza in documenti la cui autorevolezza non può certo essere messa in dubbio (cfr. Concilio Vaticano II, Lumen Gentium, 41; Concilio di Trento, Decreto sulla giustificazione, 3 e ss.).
Ecco perché non ho nessun problema nel dire che, anche se dovesse emergere in maniera inequivocabile l’orientamento omosessuale del cardinale Newman, questa notizia non dovrebbe avere nessuna conseguenza sulla sua eventuale beatificazione. Dire questo, naturalmente, non significa certo affermare che, allora, il cardinal Newman e il suo amico Ambrose St. John fossero amanti.

Credo, al contrario, che le indicazioni che lo stesso Newman da in merito alla sua sepoltura, sono in indizio che ci permette di escludere questa eventualità: se nella relazione che c’era tra lui e il compagno di buona parte della sua vita ci fosse stato qualche cosa che, ai suoi occhi, fosse parso non consono alla vita di un cristiano, lo stesso cardinal Newman, che all’Inferno e al Paradiso ci credeva davvero e che, allo stesso modo, credeva nell’importanza che aveva il voto di castità che aveva pronunciato quando aveva scelto di diventare religioso, non avrebbe mai chiesto di consacrare un aspetto peccaminoso della sua vita facendosi seppellire accanto all’amico.

Se Newman amava St. John, di sicuro lo amava con un amore che escludeva qualunque forma di intimità sessuale. In caso contrario avrebbe fatto di tutto per mettere al margine della sua vita quello che, ai suoi occhi, non poteva che essere un’errore grave che, ai suoi occhi, avrebbe compromesso la sua salvezza eterna.

Nel valutare i fatti che abbiamo davanti non possiamo infatti dimenticare la profonda differenza di mentalità che c’è tra un uomo del XIX secolo e un uomo contemporaneo: se adesso ci sono omosessuali (e io sono fra questi) che riescono a pensare a una relazione di coppia che non esclude l’intimità sessuale come a uno dei tanti modi che hanno di realizzare la volontà di Dio, questi stessi omosessuali, un secolo e mezzo fa, non avrebbero avuto nemmeno gli strumenti linguistici per elaborare un’idea simile. Gli eventuali momenti di intimità sessuale sarebbero stati vissuti come qualche cosa di contrario ai comandamenti divini.

Esclusa quindi l’idea che ci possa essere stata, tra il cardinal Newman e padre Ambrose, una relazione omosessuale simile a quella che c’è all’interno di una coppia gay della nostra epoca, resta però aperta l’ipotesi che ci fosse comunque un legame di tipo omofilo, vissuto nel pieno rispetto del voto di castità che i due avevano pronunciato.

Questa domanda sottintende due aspetti distinti. Il primo ha a che fare con la possibilità che una persona eterosessuale possa nutrire, nei confronti di una persona del proprio sesso, dei sentimenti di amicizia così profondi da essere paragonati al legame che c’è tra due coniugi all’interno del matrimonio.

Scrive infatti Newman, dopo la morte del suo amico padre Ambrose: «Ho sempre pensato che nessun lutto fosse pari a quello di un marito o di una moglie, ma io sento difficile credere che ve ne sia uno più grande, o un dolore più grande, del mio».
Sentimenti che possono spingere questa persona a desiderare di essere sepolta accanto all’amico senza che ci siano altri legami che giustificano questo desiderio di prossimità (come invece ci sono in tutti quei casi, citati dall’Osservatore Romano per dimostrare che non è necessario essere amanti per desiderare di essere sepolti insieme).

Il secondo riguarda invece la possibilità che una persona omosessuale ha, di vivere una relazione d’amore, senza accorgersi delle implicazioni omoerotiche che questa relazione può avere.

Significa in sostanza chiedersi se sia stato possibile, per una persona che, come Newman, sicuramente rispettava la promessa fatta di vivere la castità nel celibato, di coltivare una relazione d’amicizia forte, senza prendere coscienza dello stretto legame che ci poteva essere tra questa relazione e un’eventuale tendenza omosessuale.

Alla prima domanda non sono in grado di dare una risposta diretta: non sono eterosessuale e non so quindi dire fino a che punto, una persona eterosessuale, sia in grado di vivere un’amicizia coinvolgente con una persona del proprio sesso.

Ho invece qualche elemento per dare invece una risposta alla seconda domanda che ho posto: non solo vivo in prima persona quella condizione omosessuale che alcuni sospettano essere alla base dell’amicizia tra Newman e padre St. John, ma anche perchè, fino all’età di 27 anni, l’ho vissuta in una situazione simile a quella in cui possono averla vissuta i due protagonisti di questa storia, ovvero senza avere momenti di intimità sessuale con altre persone.

Alla luce di questa esperienza posso dire di aver vissuto più di una volta delle relazioni di amicizia particolarmente coinvolgenti di cui, solo in seguito, quando ho iniziato a praticare la mia omosessualità, ho scoperto il profondo legame con il mio orientamento sessuale.

Mentre le vivevo ero convinto di vivere delle relazioni d’amicizia intense, per nulla contaminate dall’attrazione erotica e soprattutto, completamente disinteressate da un punto di vista sessuale.

Di alcuni di questi amici ho addirittura raccolto le confidenze legate alle loro vicende sentimentali (tutte rigorosamente eterosessuali) e, se vivevo dei momenti di gelosia, li vivevo non tanto nei confronti delle donne con cui avevano una relazione, ma nei confronti degli altri amici che avevano.

Pensandoci bene, posso addirittura dire che la mia stessa esperienza di Fede è stata influenzata da una di queste amicizie, perché durante l’adolescenza è stata la figura di un seminarista di cui mi sono letteralmente innamorato (ma anche qui mi sono accorto del sentimento che provavo, soltanto una quindicina di anni dopo, quando ormai la nostra amicizia era finita ormai da tempo): l’impegno all’interno della mia parrocchia era stimolato anche dalla possibilità di stargli vicino, di lavorare con lui, di condividere esperienze che si sono rivelate decisive per la mia maturazione umana e spirituale.
Alla luce della mia esperienza personale non posso quindi escludere la possibilità che tra il cardinal Newman e padre Ambrose St. John si fosse instaurato un rapporto di questo tipo, senza che nessuno dei due sia stato mai sfiorato dall’idea di vivere, in realtà, una relazione omofila.

Se, come è probabile, i due vissero con fedeltà la loro scelta celibataria, non ebbero mai gli strumenti per prendere coscienza della vera natura del loro legame, tant’è vero che lo vissero con la fierezza di chi sapeva di essere al di sopra di ogni sospetto e di ogni pettegolezzo (la richiesta di essere sepolti insieme è davvero indicativa da questo punto di vista).

Se ho sperimentato dei problemi vivendo questo tipo di relazione, questi erano invece legati al fatto che le persone verso cui vivevo questa forte amicizia, non sono mai state in grado di corrispondere in maniera adeguata al mio affetto. Leggendo questa esperienza alla luce della mia omosessualità credo che la causa fosse un vero e proprio squilibrio dovuto al fatto che io ero portato a investire nel rapporto di amicizia molte più energie di quelle che invece investivano i miei interlocutori (distratti magari da altri rapporti d’amicizia o dalla relazione con una ragazza).

Per questo motivo, se davvero il cardinal Newman visse l’amicizia con padre Ambrose spinto da un orientamento omosessuale inconsapevole, di sicuro fu corrisposto da una persona che aveva il suo stesso orientamento. Non potremo quindi mai sapere se i due amici che sono sepolti insieme nel piccolo cimitero di Rendal fossero o meno omosessuali, quello che possiamo dire è che avevano senz’altro lo stesso orientamento sessuale etero o omo che fosse.

Quanto alle polemiche sulla loro presunta omosessualità spero davvero che diano l’occasione, a tanti omosessuali, di scoprire l’opera di un grande autore spirituale come John Henry Newman e, in particolare, i suoi scritti sull’importanza della coscienza quale mezzo per acquisire la verità.

In questi scritti egli parte dall’affermazione fondamentale che la coscienza non è semplicemente un senso di proprietà, di rispetto di sé o di buon gusto, che si forma con la cultura generale, l’educazione e i costumi sociali, ma che è l’eco della voce di Dio dentro il cuore dell’uomo.

In uno dei suoi libri egli ha scritto: «La mia natura sente la voce della coscienza come una persona. Quando le obbedisco, mi sento soddisfatto; quando le disobbedisco, provo una afflizione – proprio come ciò che sento quando accontento o dispiaccio qualche amico caro» (Callista, Londra 1910, pp. 314-315).

Per Newman, l’obbedienza religiosa a questa voce interiore, mette una persona in grado di accogliere la Rivelazione divina e la conduce alla Fede cristiana. «L’obbedienza alla coscienza conduce all’obbedienza al Vangelo, che, invece di essere qualcosa di differente, non è altro che il completamento e la perfezione di quella religione che insegna la coscienza naturale» (Parochial and Plain Sermons, Londra 1908, vol. VIII, pagine 202).

Poche persone hanno sostenuto i pieni diritti della coscienza come ha fatto lui; pochi scrittori hanno perorato in modo tanto persuasivo la causa della sua autorità e libertà. Alla luce di questo primato della coscienza, Newman sostiene che è dovere di ogni cristiano informarla ed educarla al fine di condurla a maturazione e perfezione. Non a caso scrive che: «La coscienza ha i suoi diritti perché ha i suoi doveri» (Difficulties felt by Anglicans, Londra 1910, Vol. II, p. 250).
Da questo punto di vista Newman si è rivelato un grande maestro che ha saputo ridare slancio alle riflessioni sul primato della coscienza che hanno sempre appassionato la teologia.

Non a caso, Tommaso d’Aquino, quando nel suo De veritate (Cfr. Quaestio 17) si chiede a chi si debba obbedire quando c’è un conflitto tra la parola del magistero e la voce della coscienza, risponde convinto che: «Praeceptum prelati non est nisi praeceptum prelati, consientiam autem est vox Dei» («Il magistero non è che parola di uomo, mentre la coscienza è voce di Dio».

Alla luce di queste riflessioni credo che anche le polemiche dei giorni scorsi possano acquistare un senso particolare per quanti, come me, cercano di conciliare la condizione omosessuale con l’adesione a una Chiesa cattolica il cui magistero sembra imprigionato da una paura forte per tutto ciò che ha a che fare con l’omosessualità. La chiave ci viene dallo stesso cardinal Newman che, nella sua lettera al Duca di Norfolk, afferma che: «La coscienza è il primo di tutti i vicari di Cristo».

Lavorare per formare la propria coscienza e seguirla con l’onestà di chi impara a non confonderla con il proprio tornaconto o con i propri comodi, diventa allora il primo passo di quel cammino di riconciliazione con la propria biografia che ogni persona omosessuale è chiamata a fare se vuole vivere in pienezza la propria vocazione cristiana.

(*) Gruppo del Guado – Cristiani Omosessuali – Milano