Il G8 al tempo della crisi

di Beppe Caccia
da www.carta.org

I «grandi della terra» si riuniscono dal 18 al 20 aprile a Cison di Valmarino [Treviso] per il G8 agricolo. Parleranno di come superare l’incubo, come gli sherpa della Presidenza italiana definiscono la «sfida globale: ridurre l’emergenza-cibo». Ma ancora una volta la risposta prospettata alla crisi è un rapido aumento della produzione agricola nei paesi in via di sviluppo. Una mera illusione.

Una prima considerazione non può che riguardare la funzione che summit, come quello dei Ministri dell’Agricoltura del G8, vengono ad assumere in questa epoca nuova, segnata dalla crisi, in cui siamo entrati.
Da un lato, dev’essere sottolineato come questi appuntamenti tematici del G8, che hanno il compito di preparare il summit della Maddalena, scontino la stessa grande difficoltà, propria del vertice dei capi di stato e di governo che si terrà nel luglio prossimo.

Il fatto cioè di poter contare su una composizione molto ridotta, che non può più, per una serie di ragioni che proprio con il vertice di Londra del G20 avevamo approfondito, rivendicare a sé il ruolo di «cupola del governo mondiale», alla guida di una forma di sovranità planetaria in via di formazione. Non dimentichiamo che lo stesso G8 tematico sull’agricoltura è un’assoluta novità: la sua convocazione era stata decisa dai capi di Stato e di governo nell’ultimo summit di Hokkaido [Giappone], nel luglio 2008.

Teniamo ben presente il contesto in cui era stata assunta questa decisione. A cavallo tra il 2007 e il 2008 il mondo intero ha registrato la più grave crisi agricola ed alimentare da decenni a questa parte. Si era innescata una vera e propria spirale, a partire dal vertiginoso incremento dei prezzi al consumo di generi di prima necessità, quali i cereali [e tra questi in particolare riso e grano].

Tra i fattori contingenti che maggiormente avevano inciso sugli aumenti, nel contesto di mercati agricoli, che nei decenni precedenti, prima, su scala nazionale erano stati investiti dalle cosiddette «politiche di aggiustamento strutturale» del Fondo Monetario Internazionale, e poi erano stati forzatamente «liberalizzati» dalle direttive dell’Organizzazione Mondiale del Commercio [Wto], disarticolando così nel Sud del mondo le coltivazioni di sussistenza, la biodiversità e le economie locali ad esse collegate, vi è la totale imprevedibilità del ciclo produttivo in agricoltura in conseguenza del surriscaldamento planetario e dei relativi mutamenti climatici.

A ciò si era aggiunto il crescente impiego degli stessi cereali nella produzione dei cosiddetti bio-carburanti, che sottraeva amplissime superfici alle coltivazioni alimentari, quale risposta capitalistica al problema dell’insostenibilità dell’emissione di anidride carbonica e altri gas serra in atmosfera, causa prima del Global warming, e alla crescita inarrestabile del prezzo del petrolio.

E, se ciò non fosse bastato, era entrato in scena anche qui il sistema finanziario: la crisi del mercato azionario e quella dei mutui ha decisamente orientato i grandi investitori verso strumenti derivati quali i «futures», cioè verso quei titoli che investono la possibilità della propria valorizzazione sull’incremento dei prezzi delle materie prime e dei generi di prima necessità, caratterizzandosi come una sorta di profezia costretta ad autoavverarsi. Il tutto ha innescato un circolo vizioso, che si presentava senza apparente via d’uscita.

A meno di un anno di distanza, tanto per testimoniare la velocità nelle modificazioni degli scenari puntuali pur se dislocati sul lungo tempo storico dell’«epoca della crisi», la situazione di presenta significativamente modificata: restano invariati i riferimenti strutturali, ma l’irresistibile ascesa dei prezzi al consumo – che non sono comunque tornati ai livelli ante-crisi –, proprio per effetto della recessione economica innescata dalla crisi finanziaria globale, ha subito una battuta d’arresto.

Il documento preparatorio del G8 trevigiano – reso noto per stralci dal Financial Times del 7 aprile scorso, sistematicamente ignorato dalla grande stampa italiana ma stizzosamente smentito dal Governo – parla, a questo proposito, molto chiaramente di quali siano gli incubi e i sogni degli ex «potenti della Terra», molto più delle amene boutade propagandistiche del ministro Zaia. L’incubo è ben rappresentato da quella che gli sherpa della Presidenza italiana definiscono la «sfida globale: ridurre l’emergenza-cibo».

E, si badi bene, non si riferiscono al fatto che tra il 2007 e il 2008, per la prima volta nella storia dell’umanità, è stata stabilmente superata la soglia di un miliardo di persone, bambini, donne e uomini, che soffrono quotidianamente la fame, così come, quando parlano di «garantire la sicurezza alimentare», non intendono assumere misure effettive per eliminare dalla catena alimentare i veleni di un secolo di industrializzazione chimica e non solo, né per proteggere i consumatori dai rischi connessi con l’impiego di Organismi geneticamente modificati.

Tutt’altro, gli spettri che agitano le loro notti sono quelli della miriade di conflitti sociali esplosi in oltre trenta Paesi, in conseguenza della crisi alimentare del 2007/2008, la realtà di centinaia di rivolte contadine e insorgenze metropolitane, che hanno costituito, nei continenti del Sud del Mondo, la risposta moltitudinaria alla corsa dei prezzi dei generi di prima necessità nell’ultimo biennio.

Ma se l’incubo si è rivelato ben concreto, tanto da far dire agli esperti governativi che una nuova crisi alimentare potrebbe avere «gravi conseguenze non solo sulle imprese, ma anche sulle relazioni sociali e le relazioni internazionali, che a sua volta avranno un impatto diretto sulla sicurezza e la stabilità delle politiche mondiali», il sogno esplicitato nel «documento di lavoro» del G8 è tanto pericoloso quanto illusorio.
«Il problema della volatilità dei prezzi rimane un elemento fondamentale per la sicurezza alimentare mondiale – afferma la relazione – pertanto vi è la necessità di un rapido aumento della produzione agricola nei paesi in via di sviluppo». Ancora una volta, cioè, l’illusione di una indefinita espansione della capacità produttiva come risposta alla crisi.

Ma come, con quali tecnologie, e soprattutto a beneficio di chi? E chi dovrebbe pagarne i costi? Su questo il documento del G8, per quello che pubblicamente si è potuto leggere, nulla dice. E forse nulla può dire. Perché sui temi dell’agricoltura, del regime di proprietà e del regime produttivo della terra, delle politiche del settore agro-alimentare industriale, forse più ancora che su altre tematiche, i cosiddetti Otto Grandi sono costretti a fare i conti sia con altri soggetti politici, nazional-statuali e sopranazionali, sia con imprese transnazionali, che contano molto di più nell’orientamento di questi mercati globali e nella determinazione dei loro effetti locali.

Restando al livello continentale, pensiamo solo a come le sorti dell’agricoltura italiana siano largamente condizionate dalle regole, dai meccanismi spesso paradossali delle Politiche Agricole Comunitarie, che sono state ulteriormente sbilanciate dall’allargamento della stessa Unione europea verso est, in territori caratterizzati da un’organizzazione dell’impresa capitalistica intorno alla produzione agro-alimentare molto diversa da quella che i paesi del cuore dell’Europa occidentale si sono dati in questi decenni.

E la discussione del G8 è inefficace rispetto alle politiche comunitarie europee, quindi sulla scala continentale, ma al tempo stesso è del tutto inefficace anche rispetto alla scala globale. Perché su questo livello, i destini delle politiche agricole, di quelle alimentari e di quelle energetiche, si giocano al di fuori dell’ambito del G8. Si giocano nei grandi
mercati continentali dell’America Latina e nei grandi mercati asiatici, quelli cinese e indiano in particolare. Certo, a Cison di Valmarino, vi è il tentativo di allargare il confronto anche a Brasile, Argentina, Egitto, Australia, India e Cina, Messico, SudAfrica, Corea del Sud e Indonesia; ma ognuna di queste potenze regionali emergenti si presenterà al tavolo portatrice di ben precisi interessi nazionali da difendere e di risposte «locali» differenziate alla crisi agricola e alimentare che ciascuna di esse si trova specificatamente ad affrontare.

Per non parlare poi di quel vero e proprio convitato di pietra rappresentato dai grandi complessi multinazionali che, nel campo della diffusione delle sementi così come della commercializzazione dei prodotti, contano per il mercato agro-alimentare ben più di qualsiasi Stato nazionale. Perciò, sia su scala continentale che su quella globale, stiamo parlando di un G8 la cui dimensione di governance fatica ad afferrare le contraddizioni globali che abbiamo di fronte.

D’altra parte, queste giornate nella «zoiosa» Marca trevigiana sono un’occasione importante perché permettono, proprio per il tema che è al centro del vertice degli ex Otto Grandi, di connettere le questioni che riguardano la terra, la produzione agricola, l’alimentazione, la produzione energetica, in sostanza quegli elementi fondamentali della riproduzione del genere umano in quanto genere umano, al discorso complessivo sulla crisi. Nel senso che, nella lingua cinese, il termine crisi viene rappresentato con un ideogramma che significa, al tempo stesso, opportunità, occasione. Credo debba essere colta questa ambivalenza della crisi presente, partendo dal suo carattere di crisi sistemica. Siamo di fronte ad un collasso del sistema su scala globale.

E, di fronte al carattere strutturale della crisi, vi è anche la necessità di fare i conti con il tema dello sviluppo. Va detto che, se guardiamo alle nostre radici, alla nostra matrice culturale, chi proviene dal marxismo critico, dalla tradizione operista, in qualche misura è sempre stato abituato a leggere e ad interpretare politicamente la realtà secondo uno schema che per molti aspetti rimaneva dialettico, per cui le lotte operaie, o comunque oggi le lotte della moltitudine messa al lavoro, producono crisi, la crisi davanti ai conflitti viene affrontata, risolta dal capitale inteso come rapporto sociale, in termini di espansione, in termini di rilancio sul terreno di un nuovo sviluppo che spinge ad un livello più alto la contraddizione capitale-lavoro, cioè la contraddizione intesa classicamente in senso marxiano tra sviluppo delle forze produttive [oggi diremo sviluppo della cooperazione sociale, della produttività sociale] e rapporti di classe, cioè i rapporti sociali che mettono in forma questo livello raggiunto dallo sviluppo delle forze produttive, della cooperazione sociale.

Ma questo schema è ancora valido? Ho fortissimi dubbi e penso anzi che dovremmo cominciare a metterlo in discussione. Perché è evidente, nel balbettio dei governi nazionali, dell’inefficacia dei loro vertici, ridotti ad essere grandi spot mediatici rassicuranti [che non rassicurano proprio nessuno], nello smarrimento degli organismi sovranazionali, in questa incapacità di dare risposte strutturali ad una crisi sistemica, credo che dobbiamo leggere anche i limiti dell’espansione, che i limiti dello sviluppo capitalistico come terreno di risposta alla crisi sono forse stati raggiunti.

Non parlo soltanto dei limiti fisici. Il mercato mondiale coincide ormai con l’intero globo, lo spazio degli scambi economici, della costruzione di reti produttive corrisponde al pianeta. Ma anche se guardiamo agli altri terreni di possibile allargamento, quelle dimensioni produttive che hanno ormai completamente pervaso di sé la dimensione del bios, della vita, toccando limiti che appunto non sono solo fisici o geografici, la tendenza capitalistica ad una continua espansione della propria capacità di valorizzare qualsiasi tipo di relazione umana, qualsiasi aspetto della prima, della seconda e della terza natura, sembra ormai avere definitivamente raggiunto una soglia insuperabile.

Allora forse qualche indicazione può venire anche dal dibattito che c’è stato negli ultimi anni, dalla metà degli anni ’70 quando si iniziò a discutere «sui limiti dello sviluppo», fino a tempi più recenti con tutto il filone che si è misurato col tema della decrescita. Un dibattito che ha avuto il vizio di essere giocato su un terreno troppo spesso debole, centrato sui comportamenti individuali e sulla dimensione morale della scelta del singolo, col rischio di risultare interstiziale, confinando nella marginalità, rispetto al cuore delle contraddizioni, la soluzione ai problemi, forse giusti, che in qualche misura poneva.

Senza misurarsi, infine, con la spinosa questione della rottura, del conflitto necessario ad inceppare il meccanismo distruttivo dello sviluppo illimitato e unidirezionale. Dovremo perciò riuscire a contaminare in maniera positiva, produttiva, creativa, questi diversi filoni di pensiero, cercare cioè di affrontare una discussione vera sul fatto che quello schema lotte-crisi-sviluppo-lotte-crisi-sviluppo ha oggi probabilmente perduto la sua validità, sia in termini di spiegazione di quanto sta succedendo, sia in termini di guida per l’azione sociale e politica, e provare a confrontarci, invece, sulle conseguenze di questo blocco della capacità capitalistica di espandere ancora i confini interni ed esterni del mercato. Partire da qui per verificare la costruzione ideale e materiale di alternative.

Forse oggi abbiamo per la prima volta, dentro questa crisi globale e per le sue caratteristiche sistemiche, la possibilità di spostare definitivamente il terreno delle lotte dalla contesa intorno al valore di scambio, dallo scontro intorno, per dirla in termini marxiani, al salario necessario, dal conflitto che in fondo era e resta giocato solo su meccanismi redistributivi [e che rischia di essere l’asse esclusivo intorno al quale si sta avvitando anche la discussione sulle risposte da dare alla crisi], al terreno di riconquista del valore d’uso, del superamento della forma-merce e delle modalità di alienazione dell’umano che essa comporta, per affermare la possibilità di un’autonoma cooperazione tra «liberi ed eguali».

Forse, per la prima volta da decenni, possiamo tornare ad affrontare, non come esercizio accademico, ma come terreno concreto di elaborazione teorica e di pratica politica, dentro ai conflitti nella crisi, il disegno e la realizzazione materiale di alternative produttive e di vita, reali e comuni. Alternative, che non possono consistere in una pura e semplice opzione individuale, ma tanto più misurano la propria efficacia collettiva, in quanto sono nutrite dalla propria affermazione come vettore di indipendenza, fattore di rottura nei rapporti sociali di dominio dati, esercizio di una sorta di permanente «contro-potere» che va a configurarsi come difesa dello spazio politico e sociale, in cui forme di vita libere e felici possano crescere.